Capitolo 1
Economia, povertà, credito nel pensiero francescano delle origini
l. 86Giacomo Todeschini
La genesi dell’Ordine francescano e la struttura pauperista dell’Ordine hanno spesso fatto dimenticare che nell’ambito della graduale crescita di una riflessione economica occidentale, a partire dal XIII secolo, un ruolo molto importante è stato svolto da membri dell’Ordine francescano e, nel primo ventennio del Quattrocento, dopo la sua fondazione, dal ramo Osservante dell’Ordine, ossia da quello rigorista, prima di tutto con la figura del suo principale rappresentante, Bernardino da Siena. Questo significa che dal 1250 circa sino al 1462, anno di fondazione, per opera francescana, del primo Monte di Pietà italiano, quello di Perugia, numerosi francescani più o meno noti si sono occupati nei loro scritti e nella loro predicazione di economia, o, per essere più esatti, delle attività economiche che si venivano svolgendo intorno a loro, in Italia centro-settentrionale soprattutto, ma anche in Spagna, Francia, Inghilterra e nelle città tedesche. L’analoga attenzione all’economia rivelata, nello stesso periodo, da parte di membri dell’Ordine domenicano o agostiniano, seppure di grande importanza, o da doctores laici, non sembra caratterizzata dalla regolarità e dalla continuità dell’attenzione francescana, mentre, d’altro canto, le soluzioni offerte ai problemi della nascente economia cittadina occidentale, problemi scaturenti principalmente da una forte intensificazione del volume degli scambi e da una notevole accelerazione della circolazione monetaria, trovano nelle trattazioni francescane soluzioni ardite e originali. In altre parole, se ne riparlerà fra poco, le analisi economiche francescane dal XIII al XV secolo, culminanti dopo il 1460 nella effettiva fondazione dei Monti di Pietà italiani, prototipo, in molte città, dell’istituzione bancaria, queste analisi condotte in trattati riguardanti l’usura, le compravendite, l’emissione di titoli di credito pubblico e molte altre questioni, non possono in nessun modo, bisogna sottolinearlo subito, essere liquidate come moralismi astratti, come prediche rivolte da frati inesperti a professionisti del mercato più o meno indifferenti. Al contrario: una semplice lettura delle analisi economiche francescane bassomedievali offre una prova immediata della effettiva capacità che i ragionamenti francescani sull’economia fra Due e Trecento hanno di dar voce e linguaggio a problemi e contraddizioni di un sistema economico in fieri come quello delle città e dei mercati bassomedievali di cui la povertà francescana fa parte integrante esattamente come la ricchezza che i francescani, appunto, discutono e analizzano.
Ma tutto questo, se è vero, non fa che rimandare a una domanda fondamentale: perché proprio i francescani? Perché dopo circa un trentennio dalla morte di Francesco (1226) proprio questo Ordine, che ha scelto e sceglierà, spesso in polemica con buona parte del mondo ecclesiastico secolare, una vita di povertà giuridicamente regolata dalla rinuncia alla proprietà dei beni intesa come rinuncia sia alla proprietà individuale che alla proprietà collettiva, si impegna così risolutamente nell’esame tecnico della vita economica e sociale, nella valutazione di quanto in essa vi sia di accettabilmente cristiano? Perché, soprattutto, questa passione di comprendere il funzionamento dell’economia dei mercati, evidente alla lettura della trattatistica dei Frati Minori e culminante verso il 1420 nel trattato De contractibus et usuris di Bernardino da Siena?
Per rispondere a queste domande, dunque per sciogliere quello che a molti storici è sembrato un paradosso (il fatto cioè che gli eredi del poverello siano gli economisti medievali più interessanti), bisogna considerare da vicino, prima di venire a parlare delle vere e proprie analisi francescane del mercato, quello che succede in ambiente minoritico prima e dopo il 1257, anno di assunzione del generalato dell’Ordine da parte di una delle maggiori figure del Francescanesimo medievale, Bonaventura da Bagnoregio. Come più volte è stato mostrato dagli studiosi della questione, e con grande acutezza, in un suo libro del 1990, da Roberto Lambertini, è sin dagli anni ’40 del secolo, dunque dalla prima generazione di intellettuali accademici che vengono a far parte dell’Ordine (un nome per tutti: Alessandro di Hales), che la Regula bollata che stabilisce il principio di vita povera per l’Ordine francescano comincia ad essere minuziosamente studiata e analizzata dagli intellettuali dell’Ordine e con un fine preciso: renderla funzionante e applicabile prima di tutto dal punto di vista giuridico ed economico per un’istituzione come l’Ordine francescano che va crescendo sempre più velocemente a partire dal 1230. Delle molte “novità” inaugurate dall’Ordine, e ben sottolineate a suo tempo già da Kajetan Esser, certamente questo principio di organizzazione in assenza di qualunque proprietà immobile o mobile e che si traduce immediatamente in una vita religiosa più dilatata nel mondo che non chiusa nella fissità conventuale, è il momento più importante ed esplosivo. Non soltanto esso stabilisce il fondamento di un discorso critico nei confronti della Chiesa e della società dell’epoca, ma oltre a ciò pone i presupposti di una analisi di ciò che significhi paupertas proprio per poterla realizzare istituzionalmente. Per vivere poveramente fu necessario, inevitabile, capire cosa volesse dire, anche tecnicamente, anche giuridicamente, povertà, essere poveri, vivere attivamente senza appropriarsi delle cose. Gestire, come fecero i primi ministri provinciali dell’Ordine, dal 1230 appunto, comunità di centinaia di persone che avevano, fra l’altro, la propria ragion d’essere in una vita attivamente missionaria ed evangelizzatrice ossia altamente mobile fra un territorio e l’altro, il tutto secondo una norma non-proprietaria, indusse a una profonda e articolata riflessione sulle possibilità di funzionamento quotidiano della povertà istituzionale come meccanismo ecclesiale e politico di aggregazione. Per la prima volta nella storia dell’Occidente cristiano, se pur dopo una lunga e secolare preparazione di cui si è scritto altrove e che non è qui il luogo di ricordare, la paupertas, il sine proprio vivere, la povertà da connotato tutto sommato teorico e simbolico della Salvezza spirituale divenne un criterio attivo di organizzazione sociale, seguito certo soltanto da una élite, ancorché vasta, quella francescana appunto, ma tale da porre serie questioni al contemporaneo mondo medievale che, come si è già accennato, proprio fra XIII e XV secolo sperimenta la sua fase di espansione o, come è stato detto, di “rivoluzione” commerciale. I primi commenti della Regola, la prima legislazione pontificia in materia di povertà e vita dell’Ordine (quella di Gregorio IX: la bolla Quo Elongati del 1230; a cui seguiranno, nel Duecento: la Ordinem Vestrum, di Innocenzo IV, nel 1245; la Exiit qui seminat, di Niccolò III, nel 1279; la Exultantes in Domino, di Martino IV, nel 1283), cominciano dunque a calare nel quotidiano e nel giuridico di un Diritto canonico ormai perfettamente strutturato il principio della vita povera, a stabilire come essa debba manifestarsi in un contesto che, come quello cittadino dell’epoca, è contraddistinto da una forte dialettica contrattuale e notarile. L’acuirsi delle polemiche intorno alla povertà dell’Ordine, verso il 1255, è, da questo punto di vista una logica evoluzione del problema: le tensioni fra clero secolare e clero regolare, conflitti, in gran parte, di competenze nella amministrazione territoriale delle cose sacre, acquistano, nel caso della paupertas dei Frati Minori tutta l’asprezza di uno scontro fra presupposti giuridicamente organizzativi della vita religiosa e, mediatamente, sociale. Tuttavia, proprio questa crisi, di metà secolo, accelera il processo di riflessione francescano sulla povertà come fondamento esistenziale e normativo della propria identità, venendo anzi a costituire un primo laboratorio concettuale all’interno del quale si vengono mettendo a punto molteplici e notevoli concettualizzazioni economiche. È importante capire che questa riflessione, che raggiunge il capolavoro nel 1255 e poi nel 1269 con le quaestiones de perfectione evangelica e con la apologia pauperum di Bonaventura da Bagnoregio, non è separata da una percezione mistica e metafisica della povertà intesa come imitazione del Cristo e degli Apostoli. Proprio qui si radicano l’eccezionale intensità e la profonda presa sociale dell’Ordine sin dal Duecento: nella capacità, sviluppata dai teologi dell’Ordine, da Alessandro di Hales, a Bonaventura a, subito dopo Pietro di Giovanni Olivi, di tradurre in norma giuridica, politica, razionalmente comprensibile, in povertà vissuta quotidianamente, sia il Mistero della elargizione, della spoliazione di sé operato dalla Divinità nell’Incarnazione, che l’esempio di povertà concretamente testimoniata a proposito della vita del Cristo e degli Apostoli nei Vangeli. La povertà come Mistero divino, la povertà come precetto evangelico vengono tradotte, articolate, specificate dalle analisi che l’Ordine conduce dal 1250, sia per regolare la propria presenza sociale che per rispondere alle accuse di praticare una vita impossibile. Il cuore giuridico della dottrina francescana, non sempre semplice, che si viene snodando fra questioni e trattati in questi anni, è forse identificabile con la limpida definizione offerta da Bonaventura nella apologia pauperum del 1269. È infatti in questo scritto decisivo che il generale dell’Ordine afferma che la paupertas francescana è una forma di vita quotidianamente praticabile poiché, a differenza di quanto sosteneva il corrente pensiero giuridico invocato dagli avversari dell’Ordine, si può far uso di un bene economico, anche di un bene immobile, astenendosi dall’averlo in proprietà, si può dunque fare di esso un semplice uso, averne cioè il possesso temporaneo. Questa possibilità stabilita da Bonaventura di separare l’uso di un oggetto economico, mobile o immobile, dalla proprietà di esso, dal dominio permanente, di spiegare la povertà come uso momentaneo, come possesso transitorio di beni economici di cui altri (privati, istituzioni, la Santa sede stessa) sono i proprietari effettivi, è basato, fra l’altro, da Bonaventura sulla normativa che nel diritto romano si riferisce al figlio sotto tutela o al servo che usa, appunto, di beni di cui solo il paterfamilias, il dominus è proprietario effettivo.
Bisogna far...