Il mio nome è Nessuno - 2. Il ritorno
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Il mio nome è Nessuno - 2. Il ritorno

Valerio Massimo Manfredi

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Il mio nome è Nessuno - 2. Il ritorno

Valerio Massimo Manfredi

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Ci sono voluti dieci anni ininterrotti di guerra e di sangue, di amori feroci e di odio inestinguibile, per sconfiggere i Troiani. Ora Odysseo deve rimettersi in viaggio con i suoi uomini per fare ritorno a Itaca, dove lo attendono la moglie fedele, il figlio lasciato bambino, la ricompensa per tante sofferenze solida, grande e desiderata quanto il letto nuziale intagliato nel tronco d'ulivo. Ma il nòstos, il ritorno, è una nuova avventura: Odysseo deve riprendere la lotta, la sua sfida agli uomini, alle forze oscure della natura, al capriccioso e imperscrutabile volere degli dei. Vano è disporre gli animi alla gioia del ritorno: l'eroe e i suoi compagni dovranno affrontare imprese spaventose, prove sovrumane, nemici insidiosissimi come il ciclope Polifemo, i mangiatori di loto - il fiore che dà l'oblio - e poi la maga incantatrice che trasforma gli uomini in porci, i mostri dello Stretto, le Sirene dal canto meraviglioso e assassino... Il multiforme Odysseo, il coraggioso Ulisse, l'astuto Nessuno dovrà raggiungere i confini del mondo e addirittura evocare i morti dagli inferi, sperimentando lo struggimento più immedicabile al cospetto di chi ormai vive nel mondo delle ombre, e ancora finire su un'isola misteriosa dove una dea lo accoglierà e lo terrà avvinto in un abbraccio dolcissimo e pericoloso per lunghi anni...
Poi, finalmente, con il cuore colmo di dolore per i compagni perduti lungo la rotta, ecco compiersi il ritorno. Il giorno dell'esultanza. Il giorno della vendetta.
Dopo aver cantato la nascita e la formazione dell'eroe e la guerra sotto le alte mura di Pergamo, Valerio Massimo Manfredi dà voce nuova e potentissima al viaggio più straordinario di tutti i tempi: quello che sta all'origine di ogni narrazione dall'antichità a oggi, quello che da Dante a Joyce fino a noi colma di trepidazione tutti coloro che l'ascoltano. Il viaggio dell'ardimento e della conoscenza, il viaggio della perdizione e dell'amore, il viaggio di un eroe umanissimo e immortale. Tanto che Manfredi osa guardare verso l'orizzonte su cui i più grandi poeti si sono interrogati nei secoli: quello dell'Ultimo Viaggio di Odysseo. È mai davvero morto il re di Itaca, il figlio di Laerte, l'eroe vagabondo?

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Information

Publisher
Mondadori
Year
2013
ISBN
9788852043109

TRE

Dovetti legare i miei uomini al remo e ai banchi di voga e mettere al timone e al comando delle navi che avevamo trovato abbandonate i miei più fedeli compagni: Euriloco, Elpenore, Antifo e alcuni altri armati di tutto punto. Poi diedi il segnale di salpare. Non volevo restare un attimo di più in quel luogo. Il fascino di quella terra misteriosa e superba mi era entrato nel cuore e non volevo che altri si sentissero tentati dalla condizione meravigliosa dei mangiatori di fiori. Il desiderio del ritorno era ciò che mi teneva in vita, era la luce che mi guidava nella notte. Per nulla al mondo vi avrei rinunciato, né avrei permesso che vi rinunciassero i miei uomini. Mia era la responsabilità delle loro vite e del loro futuro, mio era il dovere di ricondurli ai genitori che si consumavano nell’attesa tenendo viva una speranza sempre più fievole. Li avevo portati in guerra, ne avevo già perduti tanti sui campi insanguinati di Ilio, non potevo perderne altri sulla via del ritorno.
Molte volte mi chiedevo se la notizia della caduta di Troia fosse già arrivata con i primi reduci sul suolo di Achaja, se avesse già raggiunto dal Pilo le sponde di Itaca e le stanze del mio palazzo accendendo le speranze di Penelope e di mio figlio Telemaco. Aspettatemi, vi prego, aspettatemi! Tornerò, come giurai partendo, a te, mia sposa, a te, figlio mio. Ma il vento mi spingeva altrove, il sole sembrava immobile al centro del cielo per un tempo interminabile per poi, d’un tratto, quasi precipitare sull’orizzonte come una meteora fiammeggiante. Le stelle notturne palpitavano rade, spesso si nascondevano dietro le nubi, e ogni giorno sembrava più difficile l’orientamento.
Cercavo di infondere sicurezza ai miei compagni, volevo far credere loro che sapevo in quale direzione stavamo navigando, ma il mare si faceva sempre più ampio e sempre più deserto. Mi rendevo conto che da quando la tempesta ci aveva portati lontano dal capo Malea non avevamo mai incontrato un’altra nave, né barche di pescatori. Il mondo era cambiato, il cielo e il mare non li riconoscevo più né loro riconoscevano me. Neppure la mia dea mi parlava più, né si faceva vedere. Forse il suo sguardo non aveva potuto penetrare il muro di nebbia che nascondeva il mondo delle origini, la purezza degli uomini innocenti e inermi.
Navigammo tutto il giorno e quello seguente e, dopo che il sole fu tramontato, proseguimmo con le vele per metà imbrogliate per prudenza. A prua le vedette cercavano di scrutare l’oscurità per scoprire pericoli e insidie o per cercare un approdo. Non volevamo trascorrere la notte in mare perché la luna, che dapprima ci aveva guidati, si era nascosta fra le nubi, una nebbia fitta ci aveva avvolto dovunque, non c’era nemmeno un po’ di luce. Accendemmo dai bracieri delle torce e cercammo con quelle di illuminare a prua la superficie del mare. Ordinai di imbrogliare completamente le vele e di procedere a remi. Ci davamo voce, da una nave all’altra, per tenerci in contatto e farci coraggio. Poi, a un tratto, il mare si fece improvvisamente piatto davanti a noi.
«Siamo entrati in uno spazio protetto» dissi a Euriloco. «Alle spalle si sente il rumore del mare che frange, ma a prua è liscio come l’olio.»
«Si direbbe un porto naturale. Vedi qualcosa?»
«No.»
La torcia si spense, ma procedemmo lentamente nella nebbia fitta e nella più completa oscurità finché la nostra prora non urtò la sponda, bassa e sabbiosa. Un dio doveva averci guidati: non sarebbe stato possibile altrimenti.
«Venite avanti» gridai agli altri che seguivano, «c’è l’approdo!»
Una dopo l’altra le mie navi appoggiarono la prora sulla sabbia; ci sdraiammo sui nostri mantelli e ci addormentammo. L’aria era cambiata, era tiepida adesso, non troppo umida. Le nubi si erano assottigliate e il debole chiarore del cielo rivelava profili bassi e scuri, un luogo disabitato. Slegai i compagni che avevo riportato dalla terra dei mangiatori di fiori rossi.
Dissi: «L’ho fatto perché non vi riconoscevo più e ho pensato che aveste smarrito il senno. Io ho la responsabilità delle vostre vite. Abbiamo già perso troppi compagni, non avrei avuto cuore di annunciare ai vostri genitori che avevate dimenticato il ritorno e disprezzato il loro dolore». Non risposero, e mi fece male al cuore il loro cupo silenzio. Sembravano aver perduto l’unico bene rimasto della loro vita. Ma tutto era strano quella notte: la nebbia, l’oscurità, i rumori e poi, più tardi, richiami lontani, voci rauche come ringhi di leoni che vagano nel buio profondo ma diverse, quasi umane, mai udite prima da nessuno di noi.
Ci svegliammo quando l’Aurora salì a illuminare il mare e la terra. Mi guardai intorno: i compagni si alzavano uno dopo l’altro e poi si radunavano e parlavano insieme. Eravamo ancora tanti, un esercito. Con la luce tutto era diverso, più naturale, e mi resi conto con loro che eravamo su un’isola, bassa, fertile ma non coltivata. C’erano solo capre selvatiche in gran numero e la vegetazione era abbondante. Percorsi la costa tutto attorno e vidi che la terraferma era vicina, vasta, coperta da alberi e cespugli rigogliosi. Ordinai ai compagni di prendere archi e frecce e andare a caccia di capre sull’isola. Io e gli uomini della mia nave saremmo andati in terraferma.
Cercarono di dissuadermi, mi chiesero di aspettare che fosse pronto cibo abbondante, carne arrostita sulle braci a cui avremmo accompagnato il vino rosso e forte che ancora riempiva le nostre anfore. Ma io desideravo visitare la terra grande e sconosciuta che ci stava davanti, scoprire chi mai l’abitasse, se fossero uomini che rispettavano le leggi e gli dei o selvaggi violenti e feroci che conoscevano solo la legge del più forte. Ma anche se così fosse stato non mi curavo del pericolo. La notte prima mi ero addormentato pensando a Penelope, ai miei genitori e a mio figlio, cercando di immaginare che aspetto avesse. La notte buia e senza luna, il luogo sconosciuto e avvolto nella nebbia non mi spaventavano; ogni suono, ogni odore, ogni pietra di quell’isola destavano la mia curiosità, mi facevano capire quanto grande fosse la terra che gli dei delle origini avevano creato, quanto piccola la nostra conoscenza. Quanto avrei potuto scoprire nei dieci anni trascorsi invece a combattere sotto le mura di Ilio, respirando solo la polvere e l’odore del sangue in uno spazio esiguo stretto fra il mare e la città!
Salpai nel pomeriggio con i miei compagni dopo aver preparato e caricato la mia nave, e lasciai a Euriloco il comando di tutti i restanti, che ci avrebbero aspettati sull’isola. Portai con me anche alcuni di quelli che erano stati fra i mangiatori di loto perché il movimento, e forse l’avventura, li riscuotessero dal loro torpore. Attraversammo il braccio di mare che ci separava dalla terraferma e a mano a mano che ci avvicinavamo potevamo vedere che si trattava di una terra rigogliosa ma che non aveva traccia alcuna di villaggi e nemmeno di case. Solo in prossimità di un promontorio si vedeva una caverna mezzo nascosta da alberi e cespugli.
Prendemmo terra in una piccola insenatura sovrastata da un’alta rupe, quasi una montagna, e ci portammo dietro un otre di vino per farne omaggio agli abitanti di quella terra, se mai ne avessimo incontrati, per propiziarceli. Il ronzio delle cicale era l’unico rumore che si udiva. Non c’erano imbarcazioni, né reti e nemmeno capanne di frasche che offrissero riparo dal sole, dagli animali selvatici, o dalla pioggia d’inverno. A volte, ancora mi chiedo se io abbia realmente vissuto quell’avventura, se abbia provato quei sentimenti e visto quelle immagini… C’erano viti ma erano selvatiche anch’esse, con grappoli di grossi acini, duri e aspri. Uno dei compagni che si erano spinti in avanti tornò dicendo che aveva trovato un sentiero battuto. Lo seguimmo. Ma è così che ogni volta la storia ritorna alla mia mente, così che le immagini infestano i miei sogni e mi costringono a svegliarmi, madido di sudore freddo.
Arrivammo all’ingresso della caverna che avevamo visto in lontananza dal mare. E finalmente vedemmo segno di vita umana: l’interno era diviso in recinti con agnelli e capretti. Dappertutto c’erano grandi forme di formaggio distese sui graticci a stagionare. Ma tutto era di enormi dimensioni: i vasi pieni di latte cagliato e di siero, la scure per abbattere gli alberi… Chi mai abitava in quella spelonca? I compagni, appena se ne resero conto, si spaventarono e avrebbero voluto prendere tutto quello che era possibile portare via e tornare di corsa alla nave.
Ma ormai era tardi.
Si udivano i belati di un gregge numeroso e un passo pesante che faceva tremare la terra. Una catasta di tronchi d’albero fu gettata da una forza sovrumana dentro la caverna come fosse un fascio di sarmenti. Legna per il fuoco. Poi vidi sui volti di tutti i compagni il panico. Nel vano d’ingresso si stagliava un gigante, solo una sagoma scura, senza volto né espressione.
Cercammo scampo negli anfratti della caverna, ma non passò molto tempo che il signore di quel luogo tremendo accese il fuoco. La fiamma divampò illuminando tutto lo spazio e fu impossibile nascondersi. Ma anche impossibile stare fermi. Il mostro vide alcuni di noi muoversi e, con una specie di ruggito (erano quelle le voci rombanti che avevo udito nella notte sull’isola?), domandò: «Chi siete, stranieri? Naviganti o pirati? E dov’è la vostra nave?». Ero nella condizione in cui si comprende con altre orecchie e si vede con altri occhi una delle mille realtà possibili che in un solo istante diventa l’unica ed esclude tutte le altre. Il terrore mi prese perché ora anche lui era visibile. Aveva un solo occhio sotto la fronte, ardente come una brace ma fisso e apparentemente inerte, una capigliatura lunga e crespa, incolta, un petto enorme, braccia pelose, piedi sporchi del fimo di pecore e capre. Esalava un fetore insopportabile. Senza venire troppo allo scoperto risposi che eravamo naufraghi e che eravamo entrati per chiedere aiuto e ospitalità in nome degli dei. Athena… perché non mi parlavi più? Scoppiò a ridere, una risata fragorosa che terminò in un ringhio gorgogliante, di bestia affamata. Quando compresi era troppo tardi. Aveva afferrato due dei miei compagni, uno per ciascuna mano. Uno lo stritolò, il rumore di ossa spezzate mi trapassò il cuore. L’altro lo sbatté contro la pietra e il cervello schizzò fino sui nostri volti. Li divorò. Il suono dei corpi massacrati, della carne cruda masticata a bocca aperta mi fa ribollire il sangue anche ora che ho tanto freddo… Guardavamo inorriditi la sua barba intrisa di sangue ma io solo, credo, mi ero accorto di chi mancava, di chi veniva maciullato sotto i denti del mostro. Erano due fra i compagni che avevano assaggiato i fiori di loto. Erano rimasti impietriti alla vista del gigante ed era stato facile per lui afferrarli. Non avevano neppure tentato di sottrarsi, di nascondersi in qualche anfratto della grotta. E questo pensiero mi fece salire agli occhi il pianto. Avevano conosciuto un modo diverso di esistere, lontano dai crucci e dalle angosce, e averli strappati alla dolcezza dell’oblio era stato per loro fatale. Li avevo portati con me perché pensavo che esplorare una nuova terra, incontrare genti e animali sconosciuti, affrontare forse anche gravi pericoli li avrebbe fatti uscire dal torpore e dall’indifferenza. Mi ero sbagliato; eppure, mentre la spelonca echeggiava dei rutti del mostro che si era coricato, non mi pentivo di averlo fatto. Ero certo che non è da uomini rinunciare ai ricordi, ai volti delle spose e dei figli, alla terra in cui si è nati; è da vili separarsi dal resto dei nostri simili per condurre una vita senza scopo né significato. Ma mi affliggeva la loro fine ignominiosa, il pensiero delle loro spoglie digerite ed espulse da quel corpo fetido e immane. Privi di esequie, del fuoco della pira e dell’ultimo rito. L’orrore mi azzannava il cuore.
Fu quella la notte più atroce, così amara che a volte penso sia stata un incubo, di quelli che possono uccidere perché sono più veri della stessa realtà. In quelle terre sconosciute e diverse oltre ogni immaginazione mi ero abituato al pensiero che non esistesse più ciò che ero solito considerare realtà ma un turbine di sentimenti e di passioni senza inizio e senza fine, senza luogo né tempo. Possibile e impossibile si fondevano in una unica condizione e il tempo era come la rotta di quelle navi che, perduto l’orientamento, navigano in ampio cerchio e il nocchiero pensa di star percorrendo una linea retta perché non vi sono terre in vista, né brillano le stelle nel cielo e la nebbia tutto avvolge.
Così trascorremmo la notte. I miei compagni stretti gli uni agli altri atterriti e sgomenti certo mi maledicevano, in cuor loro. Io, solo, stringevo l’impugnatura della spada e avrei voluto avvicinarmi al mostro e conficcargliela nella gola fino all’elsa e poi ruotarla per tagliare e squarciare le vie del respiro, del cibo e del sangue, ma ucciderlo avrebbe causato anche la nostra morte. Per questo il ciclope poteva addormentarsi senza darsi pensiero di noi. Esaurito il cibo sarebbe presto sopraggiunto il nostro ultimo giorno perché non c’era via di uscita dalla grotta. L’ingresso era chiuso da un macigno enorme che nemmeno la forza di cento uomini avrebbe potuto smuovere. L’altra apertura, un foro alla sommità della caverna che lasciava uscire il fumo, era troppo in alto, irraggiungibile. Fu allora che la mia mente mi soccorse o forse la dea Athena mi ispirò un saggio consiglio, pur senza mostrarsi né farsi sentire come era solita fare. L’unica cosa di cui ero certo era che il mio pensiero fosse più vasto e complesso di quello del mostro e che avrei dovuto renderlo incapace di nuocere ma senza privarlo della forza: senza di essa non avremmo rivisto la luce del giorno né respirato di nuovo l’aria aperta.
Mi avvicinai allora ai compagni e dissi: «Non perdetevi d’animo, io vi salverò».
«E come?» rispose uno di quelli che avevano mangiato il fiore rosso. «Non c’è modo di sfuggirgli.»
«Sì invece, lui può guardare in una sola direzione. Dobbiamo dividerci cosicché, mentre lui guarderà da una parte, gli altri potranno cercare un riparo. Ora dobbiamo soltanto sopravvivere fino alla prossima notte.»
Riuscii così a far prendere loro un poco di riposo. Io li vegliai come un padre veglia sui propri figli e nel mio cuore meditavo la rovina del mostro crudele, sprezzante degli ospiti protetti da Zeus. Lo pregai nel silenzio profondo della notte: «Grande Zeus che proteggi i viandanti e gli ospiti, concedimi di vendicare la morte orribile dei miei compagni! Avevano scampato i pericoli della guerra nei campi insanguinati di Ilio per morire in questa terra selvaggia di una morte infame».
Dopo avere così pregato trovai un riparo fra le pieghe della roccia e cercai di riposare pur senza abbandonarmi al sonno.
Mi destarono la voce del ciclope che scendeva dal suo giaciglio e il rumore del suo passo che si avvicinava al fondo della grotta. Sotto i suoi piedi la terra tremava. Vidi di nuovo il terrore negli occhi dei miei compagni, ma misero in atto i miei suggerimenti dividendosi in gruppi separati. Per un po’ ciò che avevo previsto si verificò. Il ciclope era costretto a volgere continuamente lo sguardo da una parte e dall’altra e non riusciva a ghermire nessuno, ma poi la situazione lo fece infuriare e rivolse la sua attenzione a un solo gruppo confinandolo in un angolo. I compagni chiedevano aiuto con lo sguardo, inutilmente. In quel momento ero impotente come loro. Il gigante ne afferrò due, strappò le loro membra una dopo l’altra mentre straziati urlavano, e infine divorò il tronco informe. Anche loro erano stati dei mangiatori di loto, forse lo erano ancora. Erano rimasti isolati dagli altri e raggelati dal terrore. Non potei trattenere il pianto. Le lacrime mi scendevano lungo le guance e il cuore in petto abbaiava come un cane rabbioso. Finito che ebbe il suo...

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