Il segreto di mio figlio
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Il segreto di mio figlio

Perché Carlo Acutis è considerato un santo

Antonia Salzano Acutis

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Il segreto di mio figlio

Perché Carlo Acutis è considerato un santo

Antonia Salzano Acutis

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«In tanti mi chiedono quale sia il segreto nascosto dietro la figura di mio figlio Carlo, che in pochi anni ha saputo conquistare l'amicizia e l'affetto di una moltitudine di persone che nella preghiera chiedono la sua intercessione. Perché un semplice ragazzino, morto a quindici anni, è invocato in tutto il mondo? Perché la Chiesa lo ha proclamato beato? Quale, insomma, il "mistero di luce" che lo accompagna?
Tanti hanno voluto raccontare Carlo, ma non è semplice riuscire a cogliere l'individualità di una persona se non si è entrati in relazione diretta con lui.
Se è vero che "l'essenziale è invisibile agli occhi e non si vede bene che con il cuore", come madre di Carlo ho voluto provare a scrivere un libro con il cuore, per aiutare i suoi tanti devoti a conoscerlo e ad amarlo.
Un fortissimo e innato senso religioso portava mio figlio ad aprirsi agli altri, in particolare agli ultimi, ai poveri e ai deboli. Carlo ha vissuto sempre proteso verso Dio. Diceva che "la conversione è un processo di sottrazione: meno io per lasciare spazio a Dio". Come un faro in una notte buia, ha squarciato e illuminato le tenebre che mi tenevano prigioniera e mi ha indicato un cammino in chiave di eternità.
L'Infinito era la sua meta, non il finito.
Gesù era il centro della sua vita.
Sono questi i tesori che provo qui a svelare, i tesori di Carlo, il suo segreto.»

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Information

Year
2021
ISBN
9788858527429
1

«Io da qui non esco vivo, preparati»

Settembre 2006. Dopo alcune settimane trascorse prima a Santa Margherita Ligure, poi ad Assisi dove ci recavamo per diversi mesi all’anno, eravamo ormai giunti al termine delle nostre vacanze. Mio figlio Carlo, come tutti gli anni, prima di ripartire si recò alla tomba di san Francesco per raccomandarsi e chiedere la sua protezione per il nuovo anno scolastico. Rimase molto male perché non lo fecero entrare. Avevano chiuso la basilica anticipatamente, ma pregò lo stesso da fuori. Milano ci accolse con il suo consueto brulicare. Le strade erano già piene di gente affaccendata in mille occupazioni. Avanti e indietro. Il lavoro quotidiano non aveva tardato a ripartire dopo la sosta agostana.
Carlo amava ricominciare. Aveva quindici anni. E come sempre visse i primi giorni del mese di settembre senza particolare nostalgia per l’estate che andava scemando, piuttosto con una grande attesa. Voleva rivedere gli amici, i compagni di scuola, i professori. Desiderava rimettersi in gioco. Attesa, era questa una delle parole che lo descriveva meglio di altre, l’atteggiamento di chi sa che ogni istante può dare qualcosa, può essere avvenimento.
Entrati in casa trovammo fra la corrispondenza un libro inviatoci da un amico editore e dedicato ai santi giovani. Carlo lo volle leggere subito. Prendendolo fra le mani mi disse: «Mi piacerebbe tanto fare una mostra dedicata a queste figure».
Le mostre erano una sua passione. Ne aveva create di diverse, una in particolare molto apprezzata in tutto il mondo era dedicata ai miracoli eucaristici. Le creava al computer e poi lasciava che facessero il loro corso, che venissero richieste anche lontano da Milano, in giro per il globo. Creare mostre era una sua strategia per soddisfare il suo grande desiderio di annunciare a tutti «la buona Novella». Era animato da un insopprimibile desiderio di portare continuamente alla luce la bellezza dei contenuti della fede cristiana, di essere propositivo nel bene in tutte le circostanze della vita, di mantenersi sempre originale a quel progetto unico e irripetibile che Dio sin dall’Eternità ha pensato per ognuno di noi. «Tutti nascono originali, ma molti muoiono come fotocopie», è non a caso una delle sue frasi più conosciute.
Quel libro lo colpì particolarmente. Venivano raccontate storie di eroismo, vite di giovani spezzate in tenera età e allo stesso tempo offerte. A emergere era principalmente la fede di questi ragazzi, il loro saper credere pur nelle difficoltà a una positività di fondo, in un Dio che nonostante permetta sofferenza e contraddizioni, ci ama infinitamente e non ci abbandona mai. La vita aveva regalato loro spesso fatiche e dolori, ma nel loro cuore erano riusciti a rimanere lieti e a trovare vie di luce.
Questo messaggio affascinava Carlo. Vi ci si ritrovava. Ricordo, fra l’altro, che proprio in quei giorni aveva voluto stare vicino in particolar modo a una sua compagna di scuola che si era ammalata. I suoi genitori si erano molto preoccupati perché inizialmente non avevano capito che cosa avesse. Si sospettava una leucemia. Carlo le aveva telefonato spesso durante l’estate. Le diceva di affidarsi al Signore e insieme di stare tranquilla. Alla fine, per fortuna, la malattia si rivelò essere una semplice mononucleosi. «Il Signore ti vuole ancora qui», commentò scherzosamente parlando al telefono con lei.
Anche mio figlio durante quelle settimane non si sentiva particolarmente bene. Aveva dei piccoli dolori alle ossa. Qualche minuscolo livido sulle gambe. Nulla, tuttavia, che ci facesse sospettare qualcosa di grave. Faceva tanto sport e pensavamo che i fastidi fossero causati da questo. Lui stesso, del resto, tendeva molto a minimizzare. E così non ci preoccupammo più di tanto.
La scuola iniziò a metà settembre. Furono giorni che ricordo come particolarmente luminosi. Milano era ancora in piena estate, l’autunno sembrava non voler arrivare. Le serate erano soleggiate, amavamo concederci lunghe passeggiate al parco Sempione. Iniziavamo l’anno scolastico con un senso di spensieratezza. I miei sentimenti, in particolare, erano di gioia e di serenità. Tutto avrei immaginato potesse capitarmi, potesse capitarci, davvero tutto, tranne quella tempesta che venne, inaspettata e violenta, a travolgere la nostra vita, a investirci come un improvviso temporale estivo. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
L’ultimo giorno di scuola di Carlo fu il 30 settembre, un sabato. Quando uscì mai avrei immaginato che non vi sarebbe più rientrato. Eppure fu così che andarono le cose. Frequentava il liceo classico all’Istituto Leone XIII, retto dai padri Gesuiti. Arrivò da scuola particolarmente affaticato. Aveva avuto un’ora di educazione fisica e il professore gli aveva fatto fare dei giri di corsa del grande campo da calcio. Pensavamo fossero stati quelli a farlo stancare. Di pomeriggio, in ogni caso, trovò le energie per uscire di casa insieme a me per portare Briciola, Stellina, Chiara e Poldo, i nostri amati quattro cani, al parco per una passeggiata.
La mattina successiva, insieme a mio marito e a mia madre, decidemmo di andare a mangiare fuori. Ci avevano suggerito una trattoria vicino a Venegono, il paese dove la diocesi di Milano fa studiare i suoi futuri sacerdoti. Quando Carlo scese in cucina per fare colazione notai che aveva nell’occhio destro, all’interno della parte bianca, una piccola macchia rossa. Sembrava un banale colpo di freddo. Anche in questo caso non mi preoccupai più di tanto.
Prima di partire per Venegono andammo a Messa. Alla fine della funzione, Carlo volle recitare insieme a noi la Supplica alla Madonna di Pompei. Era una preghiera alla quale era particolarmente devoto. Ormai conoscevamo bene nostro figlio. Fin da piccolo viveva uno stretto rapporto con la Vergine Maria. Ne parlava spesso. La pregava sempre e invitava anche noi a farlo. Lo assecondammo. Mio marito e io ci eravamo da alcuni anni riavvicinati alla fede. L’avevamo scoperta grazie a Carlo. Fu lui a portarci vicini al Signore. Nella mia vita, prima che ciò avvenisse, ero andata a Messa soltanto tre volte: il giorno del mio Battesimo, il giorno della prima Comunione e il giorno del Matrimonio. E così, di fatto, anche mio marito, anche se a differenza mia, avendo i genitori più praticanti, frequentava ogni tanto la Chiesa. Non che fossimo contrari alla fede. Semplicemente ci eravamo abituati a vivere senza. Eravamo come molte persone intorno a noi, riempivamo le giornate di tante attività ma non ne conoscevamo fino in fondo il senso, il significato. Seneca sintetizza bene questo modo di impostare l’esistenza: «Una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo» (Lettere a Lucilio, I, 1, 1).
L’avvento di Carlo nella nostra vita, in questo senso, fu come una profezia, un invito a guardare da un’altra parte, a essere diversi, ad andare in profondità.
Dopo la Messa salimmo in macchina. Arrivammo a Venegono dove mangiammo all’aperto. C’erano con noi anche Briciola, Stellina, Chiara e Poldo. Dopo pranzo facemmo una passeggiata nei boschi circostanti e raccogliemmo delle castagne. Riempimmo una busta intera. Fra i rami degli alberi filtrava un po’ della luce del sole che rendeva tutta l’atmosfera quasi fiabesca. Avevamo sciolto i cani che ricordo andavano avanti e indietro spensierati fra i cespugli. Carlo ogni tanto lanciava loro dei rami e si divertiva a farseli riportare. Sorrideva. Era felice. Di quella giornata conservo un bellissimo ricordo. Luce e serenità sono i sentimenti che più ritornano nella mia mente. Rientrati a casa, verso sera, a Carlo salì la febbre. Arrivò a 38 gradi. Gli diedi una Tachipirina. E decisi che il giorno seguente non sarebbe andato a scuola.
Lunedì 2 ottobre. Telefonai alla pediatra e le chiesi se poteva passare a visitare Carlo. Arrivò subito e notò soltanto che aveva la gola un po’ arrossata. Gli prescrisse un semplice antibiotico e ci salutò. Ancora non ero preoccupata. Infatti, mi era arrivata notizia che mezza classe era influenzata. Pensai che anche Carlo fosse incappato nel medesimo malanno.
Mio figlio trascorse il resto della giornata tranquillo. Recitò il rosario insieme a me, come mi chiedeva di fare spesso. Era una cosa naturale per lui, interrompere le attività della giornata per pregare. Il rapporto con Dio era continuo, incessante, faceva tutto pensando al Signore, riferendosi a Lui. Le preghiere erano un aiuto, così diceva, per riprendere le energie e ricominciare con più forza e serenità le occupazioni di tutti i giorni. Fece i compiti e lavorò un po’ al computer per le sue mostre. La febbre non lo lasciava ma riusciva comunque a essere attivo e presente.
Ci riunimmo tutti insieme per fargli compagnia mentre lui cenava nella sua camera da letto a causa della febbre. D’improvviso, se ne uscì con questa frase: «Offro le mie sofferenze per il Papa, per la Chiesa, per non fare il Purgatorio e andare dritto in Paradiso».
Lì per lì pensammo che ci stesse prendendo in giro. Carlo era sempre allegro e giocoso. Credevamo che volesse scherzare e non prestammo particolare importanza a queste parole che sembrava avesse volutamente pronunciato per farci sorridere un po’. La febbre, fra l’altro, anche se non accennava a diminuire non peggiorava. Altre volte Carlo, fin da piccolo, aveva avuto episodi di mal di gola. E sempre aveva impiegato almeno una settimana, se non di più, a rimettersi del tutto. Anche per questo continuavamo a non preoccuparci.
Mercoledì 4 ottobre. Doveva essere presentato a tutta la scuola il sito web che Carlo aveva realizzato durante l’estate per aiutare le opere di volontariato dei Gesuiti in favore degli ultimi e dei bisognosi. Chiesero a Carlo di farlo, perché aveva dimestichezza coi computer e i programmi informatici complessi, e anche perché, essendo giovane, pensavano che con il suo coinvolgimento gli altri ragazzi lo avrebbero seguito più volentieri, imitandolo nel donare il proprio tempo libero gratuitamente a favore degli altri. I Gesuiti mi raccontarono che quando si svolsero le riunioni della commissione del volontariato, composta da alcuni genitori della scuola, erano tutti rimasti molto colpiti dalla vivacità di esposizione di mio figlio, dalla passione che lo animava e dalla sua inventiva. Le mamme erano letteralmente affascinate dal modo di procedere e dalle capacità di leader di Carlo, dal suo stile così gentile e insieme vivo ed efficiente.
Carlo investiva già tante delle sue energie per coloro che erano nel bisogno. Lo faceva quotidianamente, sia in momenti prestabiliti sia quando le circostanze glielo permettevano. Per lui erano azioni naturali, scontate. Amava molto l’esempio dei santi che si erano dedicati agli ultimi. Si era trascritto alcune frasi di Madre Teresa di Calcutta che gli erano piaciute tanto: «Molti parlano dei poveri, ma pochi parlano con i poveri... Non cercate Gesù in terre lontane: Lui non è là. È vicino a voi. È con voi!... Se avrete occhi per vedere, troverete Calcutta in tutto il mondo. Le strade di Calcutta conducono alla porta di ogni uomo. So che magari vorreste fare un viaggio a Calcutta, ma è più facile amare le persone lontane. Non è sempre facile amare le persone che ci vivono accanto».
Decisero di presentare il sito sul volontariato anche senza Carlo. Nel primo pomeriggio gli telefonarono e gli dissero che era piaciuto a tutti. La presentazione era stata un successo. Carlo era raggiante, oltre che lusingato. Fare le cose per gli altri e farle bene era per lui motivo di gioia.
Uscii e comprai dei dolci al cioccolato per la festa di san Francesco. Lo facevo tutti gli anni. Carlo ne andava ghiotto. Anche quel giorno ne mangiò diversi e volentieri. Era ancora un po’ stanco, ma come sempre sorrideva e cercava di farci intendere che andava tutto bene.
Giovedì 5 ottobre. Mio figlio si svegliò con le parotidi un po’ gonfie. Chiamai di nuovo la dottoressa. Venne ancora a visitarlo e disse che probabilmente aveva una parotite. Ci consigliò di continuare con la terapia che stavamo seguendo e così facemmo.
Il giorno successivo, tuttavia, un’altra sorpresa. Carlo presentava dell’ematuria. La pediatra allora ci fece portare un campione di urine ad analizzare in un laboratorio clinico vicino a casa nostra. L’anamnesi fu confortante: sembrava davvero che non vi fosse nulla di grave.
Quando mio figlio aveva mal di gola e gli aumentava la temperatura, soffriva spesso di episodi di pavor nocturnus, una “perturbazione” non patologica del sonno piuttosto frequente nei bambini e negli adolescenti, che provocano parasonnie e incubi notturni. Per questo preferivo trascorrere le notti insieme a lui quando stava male. Dormivo su un materasso per terra, a fianco al suo letto. Ricordo che la notte a cavallo tra il 3 e il 4 ottobre sognai di trovarmi all’interno di una chiesa. Era presente san Francesco d’Assisi. Più sopra, sul soffitto, vidi il volto di mio figlio, un viso molto grande. San Francesco lo guardò e mi disse che Carlo sarebbe diventato molto importante nella Chiesa. Quindi mi svegliai.
Pensai tutta la mattina a quel sogno. Credetti fosse una piccola profezia circa il fatto che mio figlio sarebbe diventato sacerdote. Infatti, mi aveva più volte partecipato di questo suo desiderio. E mi convinsi che il sogno fosse legato a quello.
La notte successiva dormii ancora con lui. Prima di addormentarmi recitai un rosario. Nel dormiveglia sentii una voce che distintamente mi diceva queste parole: «Carlo muore».
Pensai che non fosse una voce che veniva dal bene. Che fosse un pensiero cattivo e da non assecondare. E così non gli diedi peso.
Sabato 7 ottobre. Carlo si svegliò presto. Voleva andare in bagno, ma si accorse che non riusciva a muoversi. Non poteva alzarsi dal letto. Non ne aveva le forze. Era colpito da una importante forma di astenia. Mi chiamò per essere aiutato. Con molta fatica, insieme a mio marito, riuscimmo a portarlo in bagno.
Ci allarmammo moltissimo. Decidemmo di chiamare il vecchio pediatra di nostro figlio, un noto professore di Milano che era ormai andato in pensione e di cui ci fidavamo ciecamente. Ci disse di portare Carlo subito alla clinica De Marchi dove lui era stato primario per tanti anni. Fu molto gentile con noi. Prima che arrivassimo in clinica allertò i medici. E, in particolare, avvisò il primario specializzato in ematologia pediatrica: doveva investigare subito e cercare di capire cosa stesse succedendo.
Fu impegnativo trasportare Carlo in ospedale. Rajesh, il nostro domestico, si era preso un giorno di vacanza. Così, insieme a mio marito, pensammo di far sedere nostro figlio sulla sedia a rotelle della sua scrivania. Riuscimmo a trasportarlo in qualche modo fino all’ascensore e poi a farlo salire in auto. Ricordo che Milano era transennata a motivo della maratona che si sarebbe svolta il giorno dopo. Fra mille peripezie riuscimmo comunque a raggiungere la clinica. Davanti all’ingresso due infermieri accorsero e trasportarono Carlo dentro. Da subito ci fecero sentire affetto e conforto. Furono premurosi con lui e con noi.
Sulla soglia della clinica i miei pensieri giravano vorticosi. Mi venne subito in mente che lì dentro c’ero già stata, quando il vecchio pediatra di Carlo l’aveva vaccinato contro l’epatite B. Era il 1996. La clinica mi era rimasta impressa perché era specializzata nelle malattie oncologiche dei bambini. Il professore mi aveva raccontato che le mamme che avevano i figli malati venivano supportate anche da alcuni volontari esterni che si mettevano a disposizione per portare loro conforto. Questi volontari partecipavano a corsi di formazione denominati “Gruppi Balint”, così chiamati dal nome del loro ideatore, Michael Balint, che aveva creato un metodo di lavoro destinato principalmente ai medici ma che in quella clinica avevano esteso anche a volontari esterni. Il lavoro, in sostanza, consisteva nell’aiutare psicologicamente i genitori dei bambini malati e anche i bambini stessi, stare loro vicino, essere presenti e cercare di supportarli in quella fatica e in quel dolore. Ricordo che il professore mi aveva detto che se volevo avrei potuto unirmi al gruppo. Quando me lo disse provai un fortissimo sentimento di angoscia e anche di paura. Il pensiero di quei bambini malati e delle loro mamme mi sconvolgeva profondamente. Non mi sentivo pronta per un impegno del genere. Essendo anche particolarmente ipocondriaca, la sola idea mi terrorizzava. Anche perché, per come sono fatta, sarebbe stato naturale mettermi al posto di quelle mamme e credo che ne avrei sofferto troppo. Ripensandoci bene, penso proprio che attraverso quella proposta, il Signore avesse in qualche modo voluto prepararmi alla malattia di mio figlio. Credo, infatti, che di tanto in tanto Dio permetta che si facciano delle esperienze che sono come un “assaggio” di ciò che poi successivamente dovremo sperimentare anche noi. Come ben sottolineava san Giovanni Paolo II bisogna ricordarsi sempre che «il futuro inizia oggi, non domani». Sono le prove di eventi che solo Lui conosce, di cui solo Lui sa la trama e anche il finale. La vita è un grande mistero. A volte dal Cielo ci arrivano dei segni. Oggi dico che le parole del professore furono come un primo avvertimento: è questo il dolore che anche tu dovrai attraversare.
Quel pensiero non fu l’unico di quella mattina. Mentre i due infermieri portavano Carlo dentro la clinica, infatti, mi girai d’istinto per guardare dalla parte opposta della strada. Notai la chiesa dei padri Barnabiti dove sono custodite le reliquie di sant’Alessandro Sauli. Conoscevo bene quella chiesa, ma quella mattina mi sentii come attratta da essa. Qualcosa mi disse: girati, guarda là. Immediatamente ne compresi il motivo. Sant’Alessandro Sauli era casualmente divenuto quell’anno compagno nella vita di Carlo. Ogni 31 dicembre a Milano, infatti, si usa fare “la pesca del santo”. Si dice che il santo che uscirà accompagnerà in modo speciale, per tutto l’anno, la persona che lo ha “pescato”. Per questo si è invitati a conoscere la sua storia, in qualche modo a farselo amico. Carlo aveva sempre pescato o la Sacra Famiglia, o Gesù, o la Madonna. Lo prendevamo in giro per questo: gli dicevamo che era “raccomandato”. Quell’anno, invece, gli capitò sant’Alessandro Sauli, un vescovo barnabita, vissuto nel 1500, patrono dei giovani, la cui festa cade l’...

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