L'ISIS non è morto
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L'ISIS non è morto

Alessandro Orsini

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L'ISIS non è morto

Alessandro Orsini

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Comprendere il fenomeno dell'Isis e capire quanto sia pericoloso per l'Italia e per l'Occidente non è mai stato facile. Non lo era già nel 2014 quando, con un'avanzata travolgente in Iraq e in Siria, sconvolgeva il mondo, apparendo come un mostro spaventoso. Non lo è nemmeno oggi dopo la caduta di Raqqa - la capitale dello Stato islamico - e delle altre roccaforti, avvenuta a fine 2017. Come se quel mostro spaventoso fosse stato un grande bluff. Studioso di terrorismo alla LUISS di Roma e al MIT di Boston, Alessandro Orsini analizza rigorosamente la situazione attuale, aiutandoci a sfatare l'immagine distorta dell'Isis che spesso ci hanno offerto i media, ora ingigantendone la potenza ora banalizzandone i reali moventi e obiettivi, la preparazione bellica e gli strumenti militari a disposizione. Partiamo da un fatto: secondo Orsini, nonostante lo Stato islamico sia crollato, l'Isis continua ancora oggi a rappresentare un pericolo per le città in Occidente. Ed è un pericolo che ha assunto diversi, nuovi, imprevedibili volti che Orsini ci illustra per cercare di prevederne i futuri movimenti: dai lupi solitari, come l'autore della strage di Nizza, alle cellule autonome più o meno addestrate, come quella che ha colpito a Barcellona e che per fortuna era molto impreparata. Al tempo stesso Orsini ci illumina sui rapporti tra Isis e al-Qaeda, la cui evoluzione influenzerà il terrorismo in Occidente. Questo libro offre un'analisi originale e, coniugando un approccio scientifico e un'esposizione chiara a tutti, si pone come uno strumento unico e prezioso per leggere uno dei fenomeni più complessi e inquietanti del nostro tempo.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2018
ISBN
9788858692592

1

Tutta la verità sull’Isis (diversamente da quello che ci hanno raccontato i media)

L’Isis è cambiato molto negli ultimi tre anni. Nel giugno 2014 aveva sconvolto il mondo con la sua avanzata travolgente iniziata in Iraq con la conquista di Falluja, il 4 gennaio, e proseguita in Siria; dopo poco più di tre anni, non può più contare su un’organizzazione parastatale di riferimento. Il 17 ottobre 2017 è caduta la sua capitale, Raqqa, e dopo poche settimane sono state liberate tutte le roccaforti minori.
In Italia la gente è disorientata e si chiede come ciò sia stato possibile.
La risposta è semplice: l’Isis era travolgente senza essere forte. L’esercito messo in piedi da al-Baghdadi è sempre stato un fenomeno militarmente irrilevante. Avanzava perché l’esercito siriano e l’esercito iracheno, ormai allo sbando, si ritiravano anziché combattere.
I nostri media, però, attribuivano le conquiste dell’Isis alla sua ferocia e a una presunta abilità nel combattimento. Tutto falso. Quando gli eserciti della Siria e dell’Iraq si sono riorganizzati, l’Isis ha iniziato ad arretrare inesorabilmente.
In due parole: l’Isis è avanzato facilmente quando non ha trovato nessuno davanti a sé, ed è arretrato facilmente quando ha trovato qualcuno che gli si contrapponeva. Se gli italiani avessero conosciuto meglio la storia dell’Isis – che non è la storia di una grande forza, ma di una grande debolezza – si sarebbero risparmiati molte crisi di panico.
In questo capitolo, in cui cercherò di illustrare con chiarezza vicende complesse e quasi del tutto sconosciute in Occidente (perché, appunto, i nostri media non ne hanno parlato), ve ne fornirò le prove.
Cominciamo con un momento emblematico.
Mosul, la città da cui al-Baghdadi proclamò la nascita dello Stato Islamico, il 29 giugno 2014, non fu certo conquistata dal potente esercito dell’Isis. La verità è che fu abbandonata dai soldati iracheni, che si confusero tra i civili dopo aver gettato armi e divise. Dunque, altro che l’inarrestabile armata jihadista raccontata dai media.
Un articolo del “New York Times” pubblicato nel giorno della presa di Mosul, il 10 giugno 2014, raccontava che i soldati iracheni si erano confusi tra la popolazione per mettersi in salvo. L’esercito iracheno si era “sgretolato” davanti all’assalto, mentre i soldati gettavano le armi, si toglievano le uniformi per indossare gli abiti civili e si confondevano con le masse in fuga. I miliziani dell’Isis, senza trovare opposizione, liberavano migliaia di prigionieri e prendevano il controllo di basi militari, stazioni di polizia, banche e direzioni degli uffici provinciali, prima di alzare la bandiera nera dello Stato Islamico sugli edifici pubblici. I corpi dei soldati, dei funzionari di polizia e dei civili giacevano per le strade.1
Il “New York Times” utilizzava il termine più appropriato per descrivere la reazione dell’esercito iracheno davanti all’avanzata dell’Isis a Mosul: «Sgretolamento». Parleremo dettagliatamente del modo in cui si è verificato tale sgretolamento e dei suoi responsabili, ma voglio procedere con ordine elencando le cause fondamentali che hanno consentito l’ascesa dell’Isis, lasciando per ultima quella più interessante.

Perché l’Isis ha avuto successo?

Le divisioni tra i Paesi del Medio Oriente

L’Isis è stato favorito dalle rivalità tra il blocco anti-Isis guidato dagli Usa e quello guidato dalla Russia. Non è possibile individuare la data d’inizio di questo “gioco” tra le grandi potenze sulla pelle dei siriani, ma possiamo dire che è certamente durato dal 29 giugno 2014, giorno della proclamazione dello Stato Islamico, fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca, il 20 gennaio 2017. Da allora, il nuovo presidente americano ha deciso di abbandonare la presa sulla Siria per due ragioni principali: la prima è che Putin ha operato in favore dell’elezione di Trump contro Hillary Clinton e la seconda è che Trump è giunto alla conclusione, assolutamente corretta a mio avviso, che l’esercito di Putin fosse in una posizione di enorme vantaggio strategico in Siria. Vantaggio talmente grande da rendere vano qualunque tentativo di strappare quel Paese all’influenza della Russia.
A proposito della rivalità tra il blocco anti-Isis guidato dagli Usa e quello guidato dalla Russia, sarò molto sintetico, giacché ho fornito tutte le informazioni fondamentali nel mio libro precedente.2 Qui mi limiterò ad alcuni brevi richiami per aiutare i lettori a riprendere il filo del discorso, ma anche per aggiornarli sui fatti più importanti avvenuti negli ultimi due anni.
Il vero problema di Obama e Putin, e dei loro alleati regionali, non era sconfiggere l’Isis, bensì conquistare la città di Damasco per fagocitare un pezzo importantissimo di Medio Oriente che si chiama Siria. Mentre gli italiani pensavano che la vera emergenza fosse la liberazione della città siriana di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico da cui al-Baghdadi pianificava gli attentati contro Parigi, Obama e Putin pensavano che la vera emergenza fosse quella di approfittare del crollo dello Stato in Siria per ricostruire il Paese a loro vantaggio.
Nacquero così due coalizioni anti-Isis che si ostacolavano a vicenda anziché cooperare. Contro Bashar al-Assad si schierarono Stati Uniti, Arabia Saudita, Turchia e Qatar; in favore, Russia, Iran e milizie sciite di Hezbollah.
Qui vorrei aggiungere altri due elementi che hanno assunto maggiore centralità negli ultimi due anni. In primo luogo, l’Isis è stato favorito dai cattivi rapporti tra Turchia e Iraq, che si sono ostacolati a vicenda nella lotta contro al-Baghdadi. Questi due Paesi, anziché unire le forze, si sono divisi. Vediamo il perché.
La Turchia, guidata da Erdogan, sconfinò nel Nord dell’Iraq per avvicinarsi a Mosul e sparare contro i militanti dell’Isis. In teoria il governo iracheno avrebbe dovuto ringraziare per l’aiuto e invece s’infuriò al punto che, il 5 dicembre 2015, poche settimane dopo la strage di Parigi del 13 novembre, ingiunse alla Turchia di abbandonare immediatamente il territorio iracheno, come scrisse “al-Jazeera” in un articolo dettagliato. L’Iraq, essendo un Paese sciita, non voleva ricevere alcun aiuto dalla Turchia, che è un Paese sunnita. Di più: il governo dell’Iraq annunciò che, se la Turchia si fosse azzardata a proseguire la sua penetrazione sul territorio nazionale per combattere contro l’Isis, sarebbe stata considerata alla stregua di un Paese invasore. Significava che i soldati iracheni si riservavano il diritto di sparare contro i soldati turchi. Al-Baghdadi gioiva davanti a simili divisioni che prolungavano la vita del suo Stato Islamico. A ribadire i pessimi rapporti tra i due Paesi, il 18 ottobre 2016 migliaia di manifestanti iracheni circondarono l’ambasciata della Turchia a Baghdad per protestare contro la presenza di soldati turchi in Iraq presso la base di Bashiqa, vicino a Mosul che, all’epoca, era ancora la capitale dell’Isis in Iraq. Un membro del Parlamento iracheno, Ali Abd al-Salman, propose di boicottare i prodotti d’importazione turca; un altro, Rahim al-Darraji, lanciò l’idea di bruciare per le strade i loro beni.3

L’odio tra Israele e la Siria ha favorito l’Isis

Oltre che dalle tensioni tra Turchia e Iraq, l’Isis è stato favorito dai cattivi rapporti tra Israele e Siria che si odiano in modo profondo. Questi due Paesi hanno iniziato a farsi la guerra nel 1948 e, di fatto, non hanno mai smesso. La Siria non riconosce lo Stato di Israele, mentre l’esercito israeliano continua a occupare alcuni territori siriani, le alture del Golan, che invece dovrebbe abbandonare per via di una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il risultato è che i soldati israeliani bombardano periodicamente i soldati di Bashar al-Assad e le milizie sciite di Hezbollah che combattono contro l’Isis. Israele non vuole che Assad ammassi le truppe sul confine, la Siria risponde che deve ammassarle per combattere l’Isis, Israele replica sganciando le bombe.
Laura Cianciarelli, una giovane interprete di arabo, firma del quotidiano online “Sicurezza Internazionale”, è colei che scrive più copiosamente su questo tema in Italia. Un suo articolo del 5 settembre 2017 raccontava che l’esercito israeliano aveva iniziato le manovre militari più grandi degli ultimi vent’anni al confine con Siria e Libano.4 L’esercitazione ha coinvolto venti contingenti militari di tutti i settori delle forze di difesa israeliane, ovvero l’aviazione, la marina, le forze di terra, l’intelligence e la cyber security, con l’obiettivo di migliorare la capacità di coordinarsi in caso di una possibile guerra con il Libano o la Siria. Due giorni dopo le esercitazioni, all’alba del 7 settembre 2017, Israele ha bombardato le postazioni di Bashar al-Assad nei pressi della città di Masyaf – nel governatorato di Hama, non lontano dal confine con Israele – uccidendo due soldati siriani. Israele si spinge addirittura a condurre bombardamenti nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco, come è accaduto nella notte tra il 21 e il 22 settembre 2017. In un altro articolo, inoltre, Cianciarelli racconta che Israele ha condotto tre attacchi missilistici contro la Siria in data 9 gennaio 2018 contro alcuni obiettivi situati nell’area di Qutayfeh, che si trova nella campagna a nord-est di Damasco.
Quando Israele indebolisce l’esercito siriano e le milizie di Hezbollah a colpi di bombe fa un favore all’Isis, anche se in modo indiretto e non voluto. Con questo non intendo dire che Israele sia cattivo e Bashar al-Assad buono. Non lo penso affatto. Intendo semplicemente spiegare che l’Isis è potuto avanzare non perché fosse inarrestabile, bensì per una serie di intricate circostanze internazionali che, almeno all’inizio, sono state tutte favorevoli alla sua ascesa.

Il ruolo della Turchia contro l’Isis

A questi due elementi che, come abbiamo visto, hanno favorito l’Isis, negli ultimi due anni se n’è aggiunto un terzo di segno opposto che è il più importante tra tutti e ha danneggiato gravemente l’Isis: si tratta della decisione della Turchia di inviare truppe di terra per aggredirlo.
Passata in un tempo relativamente breve da un atteggiamento cauto e attendista verso l’Isis a una guerra frontale, il 26 agosto 2016 la Turchia ha invaso il Nord della Siria per andare a snidare i jihadisti e combatterli corpo a corpo.
L’operazione militare di Erdogan, denominata “Scudo dell’Eufrate”, è terminata il 29 marzo 2017 ed è stata coronata da notevoli successi, contribuendo a liberare alcune roccaforti jihadiste, tra cui Dabiq (16 ottobre 2016), un luogo simbolo dell’Isis. Secondo un hadith, ovvero un aneddoto sulla vita di Maometto, Dabiq è la città in cui avrà luogo l’Apocalisse e cioè lo scontro finale tra le forze del Bene, rappresentate dall’Islam, e le forze del Male, rappresentate dagli infedeli. Dabiq era centrale nella propaganda dell’Isis al punto che al-Baghdadi aveva deciso di attribuire questo nome alla rivista ufficiale dell’organizzazione, la cui pubblicazione è stata interrotta dopo la liberazione della città.
Per comprendere come mai la Turchia sia passata da una linea di cauta opposizione all’Isis a una di scontro aperto, è innanzitutto necessario conoscere i rapporti tra questo Paese e i curdi, un gruppo etnico molto numeroso – tra i venti e i trenta milioni di persone sparse in vari Paesi, in primo luogo la Turchia – ma privo di sovranità nazionale. Alcuni movimenti curdi, compresi quelli che ricorrono al terrorismo, vorrebbero costruire uno Stato sovrano su una porzione di territorio che oggi appartiene alla Turchia.
Posta una simile premessa, il ragionamento di Erdogan diventa più comprensibile: se i combattenti curdi fossero riusciti a liberare il Nord della Siria dall’Isis, avrebbero potuto fondare un loro Stato in quel territorio, potendo contare anche sull’alleanza con gli Stati Uniti. Erdogan non vuole che i curdi siriani fondino uno Stato vicino al confine turco perché teme che i curdi turchi possano unirsi ai curdi siriani e aiutarsi a vicenda per espandersi a spese del territorio turco. Perciò Erdogan ha pensato: “Meglio che sia l’esercito turco a liberare il Nord della Siria dall’Isis piuttosto che i combattenti curdi”.
Non a caso, una volta sconfinato nel Nord della Siria, ha sparato a più non posso contro i curdi, costringendoli ad abbandonare alcune aree. Tuttavia, ha sparato anche contro i jihadisti dell’Isis, dando un contributo importante nella liberazione di alcune roccaforti, come quella di al-Bab, che si trova a soli trenta chilometri dal confine con la Turchia, strappata all’Isis il 23 febbraio 2017.

Il cinismo delle grandi potenze

Se fra i lettori c’è qualche idealista, convinto che nella politica internazionale prevalgano la solidarietà e la compassione verso il prossimo, farebbe bene a non leggere questo paragrafo dedicato alla terza causa che ha favorito l’ascesa dell’Isis.
Stati Uniti e Russia, a differenza dell’Europa, non avevano un incentivo forte a porre rapidamente fine alla guerra civile in Siria, scoppiata il 15 marzo 2011, per almeno tre ragioni. La prima è che i profughi siriani si riversavano in massa in Europa. Quindi la Casa Bianca e il Cremlino avevano semmai un interesse ad alimentare le divisioni tra i Paesi dell’Unione Europea, i quali avevano iniziato a minacciarsi a vicenda e a chiudersi le porte in faccia nel tentativo di scaricare i profughi siriani verso gli altri Paesi.
L’Unione Europea – Regno Unito incluso – ha il più alto Pil del mondo, più alto persino di quello degli Stati Uniti, e gli americani temono che questa enorme ricchezza possa essere trasformata in potenza politica. Agli Stati Uniti piace la ricchezza dell’Europa, nella misura in cui essa può rimanere un ottimo partner commerciale, ma piace soltanto se l’Europa resta divisa politicamente, perché così è più facile controllarla.
Dal canto suo, la Russia subisce le sanzioni dell’Unione Europea per via dell’annessione della Crimea. Nessun russo vorrebbe vedere i Paesi europei prosperare in un’unione compatta e possente. Meglio che i leader europei litighino il più possibile nella speranza di aprire una breccia politica nel loro fronte.
Per tutti questi motivi Russia e Stati Uniti, anziché fare di tutto per arrestare la guerra civile in Siria, hanno fatto di tutto per alimentarla, o almeno così è stato dal 2011 al 2017, quando Russia e Usa hanno iniziato a rendere più costruttivi i loro incontri per definire alcune zone cuscinetto al fine di ridurre l’intensità della guerra civile siriana.
Nessuno si stupisca del cinismo di Stati Uniti e Russia verso i profughi siriani: la politica internazionale è il luogo in cui si mettono in atto i comportamenti più spietati. Questa volta è toccato al popolo siriano; domani toccherà ad altri. In quest’ottica, l’importante, per uno Stato, è saper combinare buone alleanze con un esercito potente, in modo da avere maggiori possibilità di essere spietato verso gli altri senza subire la spietatezza altrui.
Oggi la fortuna dell’Isis in Medio Oriente si è esaurita. Gli Stati Uniti hanno capito che non potranno mai rovesciare Assad perché Putin lo protegge con estrema determinazione e, soprattutto dopo l’elezione di Trump, hanno iniziato a ridurre il loro impegno in Siria, favorendo una certa distensione. La foto di Bashar al-Assad che, il 27 novembre 2017, abbraccia Putin a Sochi è l’immagine del fallimento americano. La Casa Bianca aveva cercato di rovesciare il regime siriano per avanzare in Medio Oriente, ma è stata sconfitta dall’intervento militare di Russia e Iran.
Tuttavia, resta il problema degli attentati nelle città europee, del quale ci occuperemo nel prossimo capitolo.

Le responsabilità di Nuri al-Maliki

L’ascesa impetuosa dell’Isis ha avuto un protagonista negativo che non viene mai menzionato nel dibattito pubblico in Italia: la politica settaria di Nuri al-Maliki, primo ministro sciita dell’Iraq dal 2006 al 2014. Particolarmente nefasto fu il suo rifiuto di integrare circa centomila soldati sunniti nel nuovo esercito, come richiesto dagli americani. Ma vediamo, passo dopo passo, come si sono sviluppati gli eventi.
Per rendere tutto più semplice e non perdere gli ascolti, in Italia i media hanno la tendenza a fare soltanto due nomi: Putin e Trump. Qualunque cosa accada di negativo o di positivo in Siria e in Iraq, Putin e Trump vengono citati come protagonisti. Invece Nuri al-Maliki ha svolto un ruolo molto più importante del presidente russo e di quello americano nella storia delle ultime sciagure mediorientali. Sono pochi in Italia ad aver sentito il suo nome e nessuno lo associa all’Isis. Eppure, tutti dovrebbero conoscerlo. Coloro che non amano le cautele del linguaggio accademico preferiscono dire che al-Maliki si è ricavato un posto nella storia perché è stato uno degli uomini politici più corrotti e incapaci del Medio Oriente. Per capire come l’Isis, passo dopo passo, sia arrivato fino a Parigi, dobbiamo capire come al-Maliki, errore dopo errore, abbia contribuito ad alimentare questo mostro politico.
L’ascesa dell’Isis non è stata favorita dai servizi segreti americani, da Israele o dal capitalismo in cerca di petrolio. L’Isis è un fenomeno sociale complesso che nasce dal basso, ovvero dal ventre della società irachena e della società siriana. La prima causa che ha favori...

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