Cristo si è fermato a Eboli
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Cristo si è fermato a Eboli

Carlo Levi, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino

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Cristo si è fermato a Eboli

Carlo Levi, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino

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«La peculiarità di Carlo Levi sta in questo: che egli è il testimone della presenza di un altro tempo all'interno del nostro tempo, è l'ambasciatore d'un altro mondo all'interno del nostro mondo. Possiamo definire questo mondo il mondo che vive fuori della nostra storia di fronte al mondo che vive nella storia. Naturalmente questa è una definizione esterna, è, diciamo, la situazione di partenza dell'opera di Carlo Levi: il protagonista di Cristo si è fermato a Eboli è un uomo impegnato nella storia che viene a trovarsi nel cuore di un Sud stregonesco, magico, e vede che quelle che erano per lui le ragioni in gioco qui non valgono piú, sono in gioco altre ragioni, altre opposizioni nello stesso tempo piú complesse e piú elementari». Italo Calvino

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2014
ISBN
9788858414996

Cristo si è fermato a Eboli

Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia. Spinto qua e là alla ventura, non ho potuto finora mantenere la promessa fatta, lasciandoli, ai miei contadini, di tornare fra loro, e non so davvero se e quando potrò mai mantenerla. Ma, chiuso in una stanza, e in un mondo chiuso, mi è grato riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
– Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli –. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla piú che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto piú profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiú il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Sono arrivato a Gagliano un pomeriggio di agosto, portato in una piccola automobile sgangherata. Avevo le mani impedite, ed ero accompagnato da due robusti rappresentanti dello Stato, dalle bande rosse ai pantaloni e dalle facce inespressive. Ci venivo malvolentieri, preparato a veder tutto brutto, perché avevo dovuto lasciare, per un ordine improvviso, Grassano, dove abitavo prima, e dove avevo imparato a conoscere la Lucania. Era stato faticoso dapprincipio. Grassano, come tutti i paesi di qui, è bianco in cima ad un alto colle desolato, come una piccola Gerusalemme immaginaria nella solitudine di un deserto. Amavo salire in cima al paese, alla chiesa battuta dal vento, donde l’occhio spazia in ogni direzione su un orizzonte sterminato, identico in tutto il suo cerchio. Si è come in mezzo a un mare di terra biancastra, monotona e senz’alberi: bianchi e lontani i paesi, ciascuno in vetta al suo colle, Irsina, Craco, Montalbano, Salandra, Pisticci, Grottole, Ferrandina, le terre e le grotte dei briganti, fin laggiú dove c’è forse il mare, e Metaponto e Taranto. Mi pareva di aver intuita l’oscura virtú di questa terra spoglia, e avevo cominciato ad amarla; e mi dispiaceva di cambiare. È nella mia natura sentire dolorosi i distacchi, perciò ero mal disposto verso il nuovo paese dove dovevo acconciarmi a vivere. Mi rallegrava invece il viaggio, la possibilità di vedere quei luoghi di cui avevo tanto sentito favoleggiare e che fingevo nella immaginazione, di là dai monti che chiudono la valle del Basento. Passammo sopra il burrone dove era precipitata, l’anno prima, la banda di Grassano, che tornava a tarda sera dopo aver suonato nella piazza di Accettura. Da allora i morti suonatori si ritrovano a mezzanotte, in fondo al burrone, e suonano le loro trombe; e i pastori evitano quei paraggi, presi da un reverenziale terrore. Ma quando ci passammo era giorno chiaro, il sole brillava, il vento africano bruciava la terra, e nessun suono saliva dalle argille.
A San Mauro Forte, poco piú in alto sul monte, avrei ancora veduto, all’ingresso del paese, i pali a cui furono infisse per anni le teste dei briganti, e poi saremmo entrati nel bosco di Accettura, uno dei pochi rimasti dell’antica foresta che copriva tutto il paese di Lucania. Lucus a non lucendo, veramente, oggi: la Lucania, la terra dei boschi, è tutta brulla; e il rivedere finalmente degli alberi, e il fresco del sottobosco, e l’erba verde, e il profumo delle foglie, era per me come un viaggio nel paese delle fate. Questo era il regno dei banditi, e ancor oggi, per il solo e lontano ricordo, lo si attraversa con curioso timore; ma è un regno assai piccolo, e lo si abbandona ben presto per salire a Stigliano, dove il vecchissimo corvo Marco sta da secoli sulla piazza, come un dio locale, e svolazza nero sulle pietre. Dopo Stigliano si scende alla valle del Sauro, con il suo grande letto di sassi bianchi, e il bell’uliveto del principe Colonna nell’isola dove un battaglione di bersaglieri fu sterminato dai briganti di Boryes che marciavano su Potenza. Qui, arrivati a un bivio, si lascia la strada che porta alla valle dell’Agri, e si prende a sinistra, per una straducola fatta da pochi anni.
Addio Grassano, addio terre vedute di lontano o immaginate! Siamo dall’altra parte dei monti e si sale a balzelloni a Gagliano, che non conosceva, fino a poco fa, la ruota. A Gagliano la strada finisce. Tutto mi era sgradevole: il paese, a prima vista, non sembra un paese, ma un piccolo insieme di casette sparse, bianche, con una certa pretesa nella loro miseria. Non è in vetta al monte, come tutti gli altri, ma in una specie di sella irregolare in mezzo a profondi burroni pittoreschi; e non ha, a prima vista, l’aspetto severo e terribile di tutti gli altri paesi di qui. C’è, dalla parte da cui si arriva, qualche albero, un po’ di verde; ma proprio questa mancanza di carattere mi dispiaceva. Ero avvezzo ormai alla serietà nuda e drammatica di Grassano, ai suoi intonaci di calce cadente, e al suo triste raccoglimento misterioso; e mi pareva che quell’aria di campagna con cui mi appariva Gagliano, suonasse falso in questa terra che non è, mai, una campagna. E poi, forse è vanità, ma mi pareva stonato che il luogo dove ero costretto a vivere non avesse in sé un’aria di costrizione, ma fosse sparso e quasi accogliente; cosí come al prigioniero è di maggior conforto una cella con inferriate esuberanti e retoriche piuttosto che una che assomigli apparentemente a una camera normale. Ma la mia prima impressione era soltanto parzialmente fondata.
Scaricato e consegnato al segretario comunale, un uomo magro e secco, duro d’orecchio, con dei baffi neri a punta sul viso giallo, e la giacca da cacciatore, presentato al podestà e al brigadiere dei carabinieri, salutati i miei custodi che si affrettavano a ripartire, rimasi solo in mezzo alla strada. Mi accorsi allora che il paese non si vedeva arrivando, perché scendeva e si snodava come un verme attorno ad un’unica strada in forte discesa, sullo stretto ciglione di due burroni, e poi risaliva e ridiscendeva tra due altri burroni, e terminava sul vuoto. La campagna che mi pareva di aver visto arrivando, non si vedeva piú; e da ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come librate nell’aria; e d’ognintorno altra argilla bianca, senz’alberi e senz’erba, scavata dalle acque in buche, coni, piagge di aspetto maligno, come un paesaggio lunare. Le porte di quasi tutte le case, che parevano in bilico sull’abisso, pronte a crollare e piene di fenditure, erano curiosamente incorniciate di stendardi neri, alcuni nuovi, altri stinti dal sole e dalla pioggia, sí che tutto il paese sembrava a lutto, o imbandierato per una festa della Morte. Seppi poi che è usanza porre questi stendardi sulle porte delle case dove qualcuno muore, e che non si usa toglierli fino a che il tempo non li abbia sbiancati.
In paese non ci sono veri negozi, né albergo. Ero stato indirizzato dal segretario, in attesa di trovare una casa, ad una sua cognata vedova, che aveva una camera per i rari viandanti di passaggio, e che mi avrebbe anche dato da mangiare. Erano pochi passi dal municipio, una delle prime case del paese. Cosí, prima di dare una occhiata piú approfondita alla mia nuova residenza, entrai dalla vedova, per una delle porte a lutto, con le mie valige ed il mio cane Barone, e mi sedetti in cucina. Migliaia di mosche anneravano l’aria e coprivano le pareti: un vecchio cane giallo stava sdraiato in terra, pieno di una noia secolare. La stessa noia, e un’aria di disgusto, di ingiustizia subita e di orrore, stavano sul viso pallido della vedova, una donna di mezza età, che non portava il costume, ma l’abito comune delle persone di condizione civile, soltanto con un velo nero sul capo. Il marito era morto tre anni prima, di una brutta morte. Era stato attratto da una strega contadina con dei filtri d’amore, ed era diventato il suo amante; Era nata una bambina; e poiché egli, a questo punto, aveva voluto troncare la relazione peccaminosa, la strega gli aveva dato un filtro per farlo morire. La malattia era stata lunga e misteriosa, i medici non sapevano che nome darle. L’uomo aveva perse le forze, ed era diventato scuro nel volto, finché la sua pelle divenne del colore del bronzo, sempre piú nera, ed egli morí. La moglie, una signora, era rimasta sola, con un ragazzo di dieci anni, e poco denaro, con cui doveva ingegnarsi a vivere. Per questo affittava la stanza: la sua condizione era cosí intermedia tra quella dei galantuomini e quella dei contadini; aveva insieme, degli uni e degli altri, le maniere e la povertà. Il ragazzo era stato messo in collegio dai preti, a Potenza; e ora era in casa per le vacanze; silenzioso, ubbidiente e mite, già segnato dall’educazione religiosa, con i capelli rasi e il vestitino grigio del collegio abbottonato fino al collo.
Ero da poco nella cucina della vedova e le chiedevo le prime notizie del paese, quando si batté alla porta, e alcuni contadini chiesero timidamente di entrare. Erano sette o otto, vestiti di nero, con i cappelli neri in capo, gli occhi neri pieni di una particolare gravità. – Tu sei il dottore che è arrivato ora? – mi chiesero. – Vieni, che c’è uno che sta male –. Avevano saputo subito in Municipio del mio arrivo, e avevano sentito che io ero un dottore. Dissi che ero dottore, ma da molti anni non esercitavo; che certamente esisteva un medico nel paese, che chiamassero quello; e che perciò non sarei venuto. Mi risposero che in paese non c’erano medici, che il loro compagno stava morendo. – Possibile che non ci sia un medico? – Non ce ne sono –. Ero molto imbarazzato: non sapevo davvero se sarei stato in grado, dopo tanti anni che non mi ero occupato di medicina, di essere di qualche utilità. Ma come resistere alle loro preghiere? Uno di essi, un vecchio dai capelli bianchi, mi si avvicinò e mi prese la mano per baciarla. Credo di essermi tratto indietro, e di essere arrossito di vergogna, questa prima volta come tutte le altre poi, nel corso dell’anno, in cui qualche altro contadino ripeté lo stesso gesto. Era implorazione, o un resto di omaggio feudale? Mi alzai, e li seguii dal malato.
La casa era poco discosta. Il malato era sdraiato in terra, vicino all’uscio, su una specie di barella, tutto vestito, con le scarpe e il cappello. La stanza era buia, a malapena potevo discernere, nella penombra, delle contadine che si lamentavano e piangevano: una piccola folla di uomini, di donne e di bambini erano sulla strada, e tutti entrarono in casa e mi si fecero attorno. Capii dai loro racconti interrotti che il malato era stato portato in casa da pochi minuti, che arrivava da Stigliano, a venticinque chilometri di distanza, dove era stato condotto sull’asino per consultare i medici di là, che c’erano si dei medici a Gagliano, ma non si consultavano perché erano medicaciucci, non medici cristiani; che il dottore di Stigliano gli aveva detto soltanto di tornare a morire a casa sua; ed eccolo a casa, e che io cercassi di salvarlo. Ma non c’era piú nulla da fare: l’uomo stava morendo. Inutili le fiale trovate a casa della vedova, con cui, per solo scrupolo di coscienza, ma senza nessuna speranza, cercai di rianimarlo. Era un attacco di malaria perniciosa, la febbre passava i limiti delle febbri piú alte, l’organismo non reagiva piú. Terreo, stava supino sulla barella, respirando a fatica, senza parlare, circondato dai lamenti dei compagni. Poco dopo era morto. Mi fecero largo; e me ne andai, solo, sulla piazza, donde la vista si allarga per i burroni e le valli, verso Sant’Arcangelo. Era l’ora del tramonto, il sole calava dietro i monti di Calabria e, inseguiti dall’ombra, i contadini, piccoli nella distanza, si affrettavano per i sentieri lontani nelle argille, verso le loro case.

La piazza non è veramente che uno slargo dell’unica strada del paese, in un punto piú piano, dove finisce Gagliano di Sopra, la parte alta. Di qui si risale un altro po’, e si ridiscende poi, attraversando un’altra piazzetta, a Gagliano di Sotto, che termina sulla frana. La piazza ha case da una parte sola; dall’altra c’è un muretto basso sopra un precipizio, la Fossa del Bersagliere, cosí chiamata per esservi stato buttato un bersagliere piemontese, sperdutosi in questi monti al tempo del brigantaggio e fatto prigioniero dai briganti.
Era il crepuscolo, nel cielo volavano i corvi, e nella piazza arrivavano per la conversazione serale i signori del paese. Essi passeggiano qui ogni sera, si fermano a sedere sul muretto, e, voltando la schiena all’ultimo sole, aspettano il fresco accendendo le loro sigarette economiche. Dall’altra parte, addossati alle case, stanno i contadini, tornati dai campi, e non si sentono le loro voci.
Il podestà mi riconosce e mi chiama. È un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. È il professor Magalone Luigi: ma non è professore. È il maestro delle scuole elementari di Gagliano; ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i confinati del paese. In quest’opera egli pone (avrò poi modo di constatarlo) tutta la sua attività e il suo zelo. Non è egli forse stato definito da S. E. il Prefetto, come subito trova modo di dirmi con una vocetta acuta da castrato, che esce sottile e compiaciuta da quel suo corpaccione, il piú giovane e il piú fascista fra i podestà della provincia di Matera? Non posso fare a meno di compiacermene con il professore. E il professore mi dà subito notizie sul paese, e sul modo con cui mi conviene comportarmi. Ci sono qui alcuni confinati, una diecina in tutto. Non devo vederli, perché è proibito. Del resto sono gentaglia, operai, robetta. Io invece sono un signore, si vede subito. Mi accorgo che il professore è orgoglioso di potere, per la prima volta, esercitare la sua autorità su un signore, un pittore, un dottore, un uomo di cultura. Anch’egli è un uomo colto, ci tiene a farmelo sapere. Con me egli vuol essere gentile, siamo dello stesso rango. Ma come mai mi sono fatto mandare al confino? E proprio in quest’anno, che la Patria diventa cosí grande. (Ma c’è un po’ di timore nella sua affermazione. La guerra d’Africa è appena all’inizio. Speriamo che tutto vada bene. Speriamo). Ad ogni modo qui mi troverò bene. Il paese è salubre e ricco. Un po’ di malaria, cosa da nulla. I contadini sono quasi tutti piccoli proprietari, nell’elenco dei poveri non c’è quasi nessuno. È uno dei paesi piú ricchi della provincia. Soltanto devo stare attento, perché c’è molta gente cattiva. Bisogna diffidare di tutti. Intanto io non frequenti nessuno. Egli ha molti nemici. Ha saputo che ho curato quel contadino. È una fortuna che io sia arrivato, e che possa fare il medico. Preferisco di no? Devo farlo assolutamente. Egli ne sarà davvero molto lieto. Ecco che arriva, in fondo alla piazza, suo zio, il vecchio dottor Milillo, medico condotto. Non devo aver paura, ci penserà lui a fare si che suo zio non si dispiaccia della mia concorrenza. Del resto, suo zio non conta. Quanto all’altro medico che vedo passeggiare solitario laggiú, debbo fare attenzione: è capace di tutto: ma se potrò togliergli tutta la clientela sarà una cosa ben fatta, e il professore mi difenderà.
Il dottor Milillo si avvicina a piccoli passettini. Ha una settantina d’anni o poco meno. Ha le guance cascanti e gli occhi lagrimosi e bonari di un vecchio cane da caccia. È imbarazzato e lento nei movimenti, piú per natura che per l’età. Le mani gli tremano, le parole gli escono balbettanti, tra un labbro superiore enormemente lungo, e uno inferiore cadente. La prima impressione è di un buon uomo, completamente rimbecillito. È chiaro che egli non è molto lieto del mio arrivo: ma io cerco di rassicurarlo. Non intendo fare il medico. Sono andato oggi dal malato soltanto perché era un caso d’urgenza e ignoravo l’esistenza dei medici del paese. Il dottore è contento di sentirmi parlare cosí, e anch’egli, come il nipote, si sente obbligato a mostrarmi la sua cultura, cercando negli angoli bui della memoria qualche antiquato termine medico rimasto là dagli anni dell’Università, come un trofeo d’armi dimenticato in soffitta. Ma attraverso il suo balbettío capisco una cosa sola: che egli di medicina non sa piú nulla, se pure ne ha mai saputo qualcosa. I gloriosi insegnamenti della celebre Scuola Napoletana si sono dileguati nella sua mente, e confusi nella monotonia di una lunga, quotidiana indifferenza. I rottami delle perdute conoscenze galleggiano senza piú senso, in un naufragio di noia, su un mare di chinino, medicina unica per tutti i mali. Lo traggo dal terreno pericoloso della scienza, e gli chiedo del paese, degli abitanti, della vita di qui.
– Buona gente ma primitiva. Si guardi soprattutto dalle donne. Lei è un giovanotto, un bel giovanotto. Non accetti nulla da una donna. Né vino, né caffè, nulla da bere o da mangiare. Certamente ci metterebbero un filtro. Lei piacerà di sicuro alle donne di qui. Tutte le faranno dei filtri. Non accetti mai nulla dalle contadine –. Anche il podestà è dello stesso parere. Questi filtri sono pericolosi. Berli non è piacevole. Disgustoso anzi. – Vuol sapere di che cosa li fanno? – E il dottore mi si china all’orecchio, balbettando a bassa voce, felice di aver ricordato finalmente un termine scientifico esatto. – Sangue, sa, sangue ca-ta-meniale, – mentre il podestà ride di un suo riso di gola, come una gallina. – Ci mettono anche delle erbe, e pronunciano delle formule, ma l’essenziale è quello. Son gente ignorante. Lo mettono dappertutto, nelle bevande, nella cioccolata, nei sanguinacci, magari anche nel pane. Catameniale. Stia attento –. Quanti filtri, ahimè, avrò bevuto senza saperlo, nel corso dell’anno? Certamente non ho seguito i consigli dello zio e del nipote, e ho affrontato ogni giorno il vino e il caffè dei contadini, anche se chi me lo preparava era una donna. Se c’erano dei filtri, forse si sono vicendevolmente neutralizzati. Certo non mi hanno fatto male; forse mi hanno, in qualche modo misterioso, aiutato a penetrare in quel mondo chiuso, velato di veli neri, sanguigno e terrestre, nell’altro mondo dei contadini, dove non si entra senza una chiave di magía.
Scende su di noi, dal monte Pollino, l’ombra della sera. I contadini sono ormai tutti rientrati in paese, si accendono i fuochi nelle case, giungono da ogni parte voci, rumore di asini e di capre. La piazza è ormai piena di tutti i signori del luogo. Il nemico del podestà, il medico che passeggia solitario, ha certo una grande curiosità di conoscermi. Egli ci gira intorno in cerchi sempre piú stretti, come un nero can barbone diabolico. È un uomo anziano, grosso, panciuto, impettito, con una barba grigia a punta e dei baffi che piovono su una bocca larghissima, piena zeppa di denti gialli e irregolari. L’espressione del suo viso è quella di una diffidenza astiosa, e di un’ira continua e mal repressa. Porta gli occhiali, una specie di cilindro nero in capo, una redingote nera spelacchiata, e dei vecchi pantaloni neri lisi e consumati. Brandisce un grosso ombrello nero di cotone, quell’ombrello che gli vedrò poi portare sempre aperto, con sussiego, in modo perfettamente verticale, estate e inverno, con la pioggia e col sole, come il sacro baldacchino sul tabernacolo della propria autorità. Il dottor Gibilisco è furente. La sua autorità, ahimè, pare assai scossa. – I contadini non ci dànno retta. Non ci chiamano quando sono malati, – mi dice con l’aria velenosa e collerica di un pontefice che stigmatizzi un’eresia. – Oppure non vogliono pagare. Vogliono essere curati, ma pagare, niente. Ma se ne accorgeranno. Ha visto oggi, quel tale, non ci aveva chiamati. È andato a Stigliano. Ha chiamato lei. È morto e gli sta bene –. Su questo punto, per quanto con piú moderazione, era d’accordo anche il dottor Milillo, che confermava: – Sono ostinati come muli. Eh! Eh! Vogliono fare di testa propria. Si dà il chinino, si dà il chinino, ma non lo vogliono prendere. Non c’è nulla da fare –. Cerco di rassicurare anche Gibilisco sulle mie intenzioni di non fargli concorrenza: ma i suoi occhi sono pieni di diffidenza e di sospetto, e la sua ira non è sbollita. – Non si fidano di noi: non si fidano della farmacia. Si sa, non ci può esser tutto; ma si può sopperire. Se manca la morfina, si può usare l’apomorfina –. Anche Gibilisco, come Milillo, ci tiene a mostrarmi la sua sapienza. Ma mi accorgo presto che la sua ignoranza è molto peggiore di quella del vecchio. Egli non sa assolutamente nulla, e parla a caso. Una sola cosa egli sa, che i contadini esistono unicamente perché Gibilisco li visiti, e si faccia dare denaro e cibo per le visite; e quelli che gli capitano sotto devono pagarla per gli altri che gli sfuggono. L’arte medica per lui non è che un diritto, un diritto feudale di vita e di morte sui cafoni; e perché i poveri pazienti si sottraggono volentieri a questo jus necationis, un continuo furore, un odio di bestia feroce contro il povero gregge contadino. Se le conseguenze non sono spesso mortali, non è certo mancanza di buone intenzioni, ma soltanto il fatto che, per uccidere con arte un cristiano, ci vuol pure una qualche briciola di scienza. Usare questa o quella medicina gli è indifferente: egli non ne conosce e non si cura di conoscerne nessuna, esse sono per lui null’altro che le armi del suo diritto: un guerriero può cingersi, per farsi rispettare, a suo solo arbitrio, di archi o di spadoni o di scimitarre o di pistolacci o magari di kriss malesi. Il diritto di Gibilisco è ereditario: suo padre era medico, suo nonno anche. Suo fratello, morto l’anno prima, era, naturalmente, farmacista. La farmacia non ha trovato successori e avrebbe dovuto esser chiusa; ma è stato ottenuto attraverso qualche amico alla Prefettura di Matera che essa possa continuare a funzionare, per il bene della popolazione,...

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