Suicidio occidentale
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Suicidio occidentale

Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori

Federico Rampini

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Suicidio occidentale

Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori

Federico Rampini

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Se un attacco nel cuore dell'Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione. Il disarmo strategico dell'Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L'ideologia dominante, quella che le élite diffondono nelle università, nei media, nella cultura di massa e nello spettacolo, ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare. Questo è il suicidio occidentale. L'aggressione di Putin all'Ucraina, spalleggiato da Xi Jinping, è anche la conseguenza di questo: gli autocrati delle nuove potenze imperiali sanno che ci sabotiamo da soli.

Sta già accadendo in America, culla di un esperimento estremo. Questo pamphlet è una guida per esplorare il disastro in corso; è un avvertimento e un allarme.

Gli europei stentano ancora a capire tutti gli eccessi degli Stati Uniti, eppure il contagio del Vecchio continente è già cominciato. Nelle università domina una censura feroce contro chi non aderisce al pensiero politically correct, si allunga la lista di personalità silenziate, cacciate, licenziate. Solo le minoranze etniche e sessuali hanno diritti da far valere; e nessun dovere. L'ambientalismo estremo, religione neopagana del nostro tempo, demonizza il progresso economico e predica un futuro di sacrifici dolorosi oppure l'Apocalisse imminente.

I giovani schiavizzati dai social sono manipolati dai miliardari del capitalismo digitale. L'establishment radical chic si purifica con la catarsi del politicamente corretto. È il modo per cancellare le proprie responsabilità: quell'alleanza fra il capitalismo finanziario e Big Tech pianificò una globalizzazione che ha sventrato la classe operaia e impoverito il ceto medio, creando eserciti di decaduti. Ora quel mondo impunito si allea con le élite intellettuali abbracciando la crociata per le minoranze e per l'ambiente. La questione sociale viene cancellata. Non ci sono più ingiustizie di massa nell'accesso alla ricchezza. C'è solo «un pianeta da salvare», e un mosaico di identità etniche o sessuali da eccitare perché rivendichino risarcimenti.

In America questo è il Vangelo delle multinazionali, a Hollywood e tra le celebrity milionarie dello sport. In Europa il conformismo ha il volto seducente di Greta Thunberg e Carola Rackete. Le frange radicali non hanno bisogno di un consenso di massa; hanno imparato a sedurre l'establishment, a fare incetta di cattedre universitarie, a occupare i media. Possono imporre dall'alto un nuovo sistema di valori. La maggioranza di noi subisce quel che sta accadendo: non abbiamo acconsentito al suicidio.

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III

Antirazzismo

È il 29 aprile 2015 – penultimo anno della presidenza di Barack Obama – quando mi avventuro dove comandano le gang afroamericane di Baltimora. Incontro Jamal, con la bandana rossa come il sangue perché sta nella banda dei Bloods. E poi Charles Shelley, barba a pizzo, codino rasta, berretto da baseball blu: lui è dei Crips. Dietro ci sono due della Black Guerrilla Family. Le potenze rivali di Baltimora. Eccole riunite in una sorta di summit d’emergenza, alleate per «riprendersi la città». E ristabilire un ordine, dopo il caos e il terrore. Forse solo loro possono farlo? «La polizia è arrivata qui,» dice Mo Jackson, 22 anni «ha preso possesso del nostro quartiere come una forza di occupazione, ha fermato tutto. Un animale braccato e bloccato, se non ha via d’uscita, diventa aggressivo.» Non sono sicuro se stia parlando dei suoi compari o degli agenti di polizia.
West Baltimore, Sandtown, l’incrocio tra Pennsylvania Avenue e North Street sono i teatri di una fragile tregua. Il coprifuoco è in vigore fino al weekend, dalle 22 alle 5, per impedire nuove fiammate di violenza. Quest’area della città è stata devastata, con assalti ai negozi, saccheggi, violenze, dopo la morte del venticinquenne afroamericano Freddie Carlos Gray jr. Arrestato perché in possesso di un pugnale, Gray aveva subito lesioni fatali durante il trasporto al commissariato su un furgone della polizia. La perizia medica aveva evocato un omicidio colposo (in seguito i sei poliziotti coinvolti verranno incriminati, processati e assolti).
Il coprifuoco non rappresenta un controllo stabile del territorio. Quello è nelle mani di Black Guerrilla Family, Bloods, Crips non appena l’emergenza finisce e la Guardia nazionale schierata dal governatore si ritira. «I ragazzi che si sono lanciati nell’assalto ai negozi» dice Shelley «non li abbiamo aizzati noi. Erano cani sciolti, adolescenti esasperati dagli abusi della polizia. Bisogna capirli. Qui nei nostri quartieri, quando gli agenti vedono un gruppo di neri per strada, sfoderano le armi per primi.»
Il summit dell’armistizio dopo l’orgia di violenza del 2015 ha dei protagonisti sconcertanti per chi viene da fuori, da un’America dove governano le istituzioni, la legge e l’ordine. Un’America che può essere anche vicinissima, a pochi chilometri in linea d’aria, la Baltimora ricca del porto turistico o della Johns Hopkins University. Qui a West Baltimore, invece, si ritrovano da una parte i ministri delle Chiese più importanti (battisti), dall’altra i capi delle tre gang: tatuati, con anelli e catene, le loro divise di guerra. La pace delle gang viene siglata a New Shiloh, la stessa chiesa dove si è celebrato il funerale di Freddie Gray. Sono presenti alcuni politici locali, tutti afroamericani. Il presidente del consiglio comunale, Bernard Young, elogia i capigang: «Sono coraggiosi a farsi avanti». L’ex sindaco Sheila Dixon: «Sono un pezzo della nostra comunità, una voce da ascoltare». Tutti sperano che «i ragazzi» – quegli adolescenti che pochi giorni prima hanno trasformato West Baltimore in un inferno, terreno di incendi, rapine di massa, raid di guerriglia urbana contro la polizia impreparata – vengano ascoltati. Il reverendo Errol Gilliard jr ne è convinto pure lui: «Non sono state le gang a orchestrare il caos, ma ragazzini sconvolti».
Il meccanismo messo in atto è esemplare, tutto affidato ai social media. Poco prima dell’orario di chiusura delle scuole, parte questo messaggio: «A tutti i licei, alle tre parte lo sfogo, da Mondawmin all’Avenue». È proprio lo shopping mall Mondawmin che dalle tre in poi viene assaltato, quindi le razzie dilagano verso Pennsylvania Avenue. Lo «sfogo» del messaggio è il titolo di un film di fantapolitica con Ethan Hawke – The Purge, in italiano La notte del giudizio –, cult-movie degli adolescenti che narra un futuro distopico dove per una notte ogni anno c’è il blackout della legalità, rapine, stupri e omicidi sono permessi per sfogare rabbie represse.
«Tutto è gratis!», le videocamere del drugstore Cvs rimandano l’immagine di una ragazzina che lancia questo urlo di guerra, trascinando i compagni nel saccheggio. Quando visito il quartiere, del Cvs restano solo pareti fumanti, un soffitto pericolante, calcinacci carbonizzati. La speranza dei maggiorenti afroamericani è che le gang possano «rimettere il genio dentro la bottiglia», riprendere il controllo della situazione dal basso. È quello che loro non riescono a fare, perché non sanno come raggiungere i ragazzi della rivolta. È impressionante il gap generazionale, balza agli occhi. All’incrocio tra Pennsylvania e North Street vedo schierati i capi della Nation of Islam, la comunità musulmana radicale che fu di Malcolm X e ora è di Louis Farrakhan: un tempo (una o due generazioni fa) era influente proprio tra la gioventù più arrabbiata. Oggi quei capi islamici scesi in piazza, elegantissimi, in giacca e cravatta, sembrano dignitari stranieri in visita: un’era geologica li separa dai teenager, non sanno in che linguaggio parlarsi.
Kevin Shurd, ventenne che si autodefinisce «ex spacciatore», ha un’idea precisa sulla manovalanza dei saccheggi: «Sedicenni. E non chiamateli teppisti o delinquenti. Conosco le facce dei delinquenti, quelli lì erano diversi. Inutile criminalizzarli, se si usano questi termini si perde di vista il problema vero». Il reverendo Gregory Perkins, pastore battista, è convinto che la pace concordata dalle gang abbia una chance: «Loro hanno le orecchie in strada. Possono aiutarci a calmare il quartiere». Dalle testimonianze affiora la vera situazione di West Baltimore: in questi isolati, dove si susseguono le case abbandonate, pignorate, con vetri e porte sfondate, tavole di legno compensato al posto delle pareti, l’economia che tira è la droga. Il governo ombra che controlla alcuni isolati sono le gang, perché gestiscono il business più profittevole. La biografia di Freddie Gray è la norma: figlio di una eroinomane analfabeta, il ragazzo non aveva mai avuto lavori regolari; aveva collezionato arresti, fino a due anni di carcere, per spaccio. Shelley della gang dei Crips parla il linguaggio del capitalista: «A noi non convengono il caos e il saccheggio, con quest’armata di poliziotti che ci portano in casa. Abbiamo un business da gestire». Un altro membro di gang, Trey, conferma l’armistizio siglato sotto gli occhi dei notabili: «Noi possiamo unirci per qualcosa di positivo. La maggior parte dei giovani qui ha bisogno di un lavoro, è questo che bisogna capire».
In quella primavera del 2015 l’emergenza Baltimora entra nella campagna presidenziale. Ne parla Hillary Clinton: «Va riformata la nostra giustizia penale, è malata». Mille americani muoiono uccisi dalla polizia, ogni anno. Il 96 per cento sono neri. Il repubblicano Rand Paul prende spunto dalla mamma resa celebre per aver trascinato via dalle razzie suo figlio sedicenne a suon di ceffoni, la Toya Graham immortalata su YouTube. «Fantastica madre,» ha detto il candidato conservatore «ma dove sono i padri di quei ragazzi?» Giusto, dove sono gli uomini di casa? I membri delle gang rispondono con un ghigno. I padri? Disoccupati, spariti nell’impossibilità di pagare gli alimenti alle ex mogli. Spesso in carcere. Lo conferma Hillary: «Un milione e mezzo di maschi neri sono missing in action, scomparsi».
Nel 2015 la questione razziale è già uno dei temi caldi nella campagna elettorale, molto prima dell’insediamento di Trump. La sua importanza non si limita agli Stati Uniti. Il dramma dei black americani è una macchia permanente sull’immagine della superpotenza occidentale nel resto del mondo. Negli anni seguenti nutrirà una corrente polemica che è diventata dominante all’interno dell’America stessa; la Critical Race Theory e il «1619 Project» (di cui parlerò più avanti) dettano legge in molti programmi scolastici e condensano tutta la storia americana in una sola dimensione: lo schiavismo delle origini. Da Mosca a Pechino questa narrazione viene ripresa con enfasi per delegittimare l’intero Occidente, alla cui guida, secondo la propaganda dei regimi autoritari, c’è una «superpotenza immorale». Era stato così negli anni Sessanta, quando il leader delle battaglie per i diritti civili Martin Luther King aveva vinto il premio Nobel per la pace e aveva girato il mondo denunciando la piaga della segregazione. Nella prima guerra fredda russi e cinesi, cubani o algerini denunciavano la «finta democrazia» che trattava i neri come cittadini di serie B. L’Occidente, con le sue tare del colonialismo e dello schiavismo, veniva processato tutti i giorni dalla stampa comunista come un monumento d’ipocrisia e falsità: altro che «mondo libero». Sono passati altri sessant’anni, gli Stati Uniti hanno eletto e poi rieletto il loro primo presidente afroamericano, che nel 2015 inizia il suo settimo anno alla Casa Bianca, eppure sembrano risucchiati verso un passato che non passa mai.
Nei commenti di Hillary e di Rand Paul affiora un tema tabù, lo sfascio delle famiglie nella comunità nera, le troppe madri single, i ragazzi che crescono senza un padre e quindi senza un modello maschile, con il rischio di cercare quella figura paterna in un capogang che li inizia al business criminale. Cito un’indagine ormai classica compiuta nel 1996 per la Brookings Institution da due economisti di sinistra, non ideologicamente propensi a enfatizzare il valore della famiglia tradizionale: «Nel 1965 il 24 per cento dei bambini neri e il 3,1 per cento dei bianchi nascevano da una madre single, in una famiglia monoparentale. Nel 1990 queste percentuali erano salite al 64 per cento per i bambini neri e al 18 per cento per i bianchi». Oggi tra gli afroamericani siamo al 70 per cento di nascite senza un padre ufficiale. Ogni anno almeno 1 milione di bambini americani nascono da una madre single e non conosceranno il padre, o avranno con lui rapporti sporadici, difficili, dal tenore educativo a dir poco problematico. La maggior parte di questi bambini sono black. La conseguenza? Cito ancora lo studio della Brookings Institution: «Se c’è una sola cosa che dovremmo aver imparato negli ultimi venticinque anni è questa: per chi nasce al di fuori di una famiglia con due genitori la probabilità di una vita nella povertà è molto alta». Gli autori di quello studio sono una coppia celebre: il marito, George Akerlof, ha vinto il premio Nobel per l’economia nel 2001; la moglie è Janet Yellen, nominata presidente della Federal Reserve da Barack Obama, poi segretaria al Tesoro di Joe Biden.
Il tema della disintegrazione familiare viene sollevato ancora più di recente dall’opinionista afroamericano Jason Riley sul «Wall Street Journal», partendo da un tragico fatto di cronaca avvenuto nel 2021 nella città degli Obama, Chicago. Un ragazzino di tredici anni, Adam Toledo, è morto in uno scontro a fuoco con la polizia. Girava alle due di notte su un’auto guidata da un pregiudicato ventunenne, con una fedina penale carica di crimini di sangue. Erano armati tutti e due, sparavano a casaccio su altri automobilisti, prima che qualcuno chiamasse la pattuglia di polizia. «Quando un ragazzo di seconda media» scrive Riley «gira armato in piena notte con un criminale, non dovrebbe essere lecito discutere il ruolo dei genitori? Ma oggi dire la verità è proibito, quando si parla di minoranze etniche come le vittime della sparatoria di Chicago. Dobbiamo far finta che gli alti livelli di violenza criminale siano da attribuire interamente a un razzismo sistemico, mentre gli individui non avrebbero alcuna responsabilità. È difficile capire come potremo affrontare le più gravi ingiustizie sociali, se ci è vietato avere una conversazione onesta sulle loro cause.» Intanto le minoranze etniche, quando possono, votano anche «con i piedi»: abbandonano città e quartieri dove le regole del gioco sono stabilite dai clan dell’antirazzismo militante. Chicago nel decennio 2010-20 ha perso 85.000 residenti afroamericani.
La disintegrazione familiare è un dramma che venne studiato all’epoca di Martin Luther King, quando il presidente Lyndon Johnson lanciò il maggiore programma di lotta alla povertà nella storia; poi fu accantonato perché evocare il ruolo formativo della famiglia tradizionale non era politically correct nemmeno allora. Inoltre, spostare l’attenzione sui modelli educativi, sull’etica dello studio e del lavoro rischiava di intralciare il grande accaparramento di spesa pubblica in nome dell’antirazzismo. Fin dagli anni Sessanta alcune élite si sono specializzate nel captare fondi statali da destinare agli afroamericani, con risultati molto simili alle politiche meridionaliste in Italia: corruzione, sprechi, parassitismo e clientele, consolidamento di culture assistenziali.
La coppia Barack e Michelle ha provato a proporsi nei comportamenti e nella comunicazione come una «famiglia modello» per i valori trasmessi alle figlie; ma lo ha fatto a suo rischio e pericolo: attirandosi l’ostilità delle frange radicali del movimento Black Lives Matter. Di nuovo, nelle tensioni razziali che esplodono durante l’era Obama, riaffiora un’altra analogia con gli anni Sessanta. È il ruolo delle élite più radicali, i «parassiti» della questione nera: quelli che vivono di rendita sulle sofferenze degli afroamericani più poveri o emarginati, ne fanno il trampolino di lancio per le loro carriere politiche, mediatiche. Le stesse gang fanno parte del gioco: come per la genesi storica della mafia italiana, si vantano di essere i datori di lavoro e i protettori dei poveri. Come in quel 2015 a Baltimora, a volte garantiscono una sorta di ordine pubblico nelle zone che controllano; altre volte lasciano che la piazza divampi, per sfruttare il caos. C’è un mondo, nella stessa comunità black, che ha interesse a perpetuare la tragedia razziale.
Un altro tabù, tema proibito nel mondo progressista, riguarda la cosiddetta violenza Black on Black, cioè i crimini degli afroamericani contro chi ha la pelle dello stesso colore. Prendiamo una delle città più violente d’America: Chicago. Nel 2021 quattro neri furono uccisi in scontri a fuoco con la polizia (erano tutti armati); sono solo lo 0,5 per cento delle 777 vittime di omicidi in quella città e in quell’anno. Gli afroamericani costituiscono l’83 per cento delle vittime di sparatorie a Chicago ed esattamente la stessa percentuale tra gli assassini, pur essendo solo il 30 per cento della popolazione cittadina. Allarghiamo lo sguardo all’intera nazione. In tutti gli Stati Uniti nel 2021 sono morti 18 neri disarmati, uccisi dalla polizia. (La cifra dei 1000 morti all’anno citata da Hillary Clinton nel 2015 includeva i deceduti in scontri a fuoco in cui ambedue le parti erano armate e quindi non sono da classificare come abusi della polizia.) Nel 2020 sono stati uccisi 9941 neri, per la stragrande maggioranza vittime di criminali dello stesso gruppo etnico. Una percentuale rilevante soccombe alla violenza nel nucleo domestico. Non a caso, il movimento #MeToo ebbe all’origine una precisa identità razziale: fu lanciato nel 2006 da Tarana Burke, un’attivista afroamericana del Bronx, indignata dal fatto che gli abusi sessuali tra membri della sua comunità venissero coperti da un’omertà etnica.
Alla luce di questi dati si capisce perché l’estremismo di Black Lives Matter – con la demonizzazione indiscriminata delle forze dell’ordine – sia ben lungi dal raccogliere consensi unanimi all’interno della comunità nera. Se davvero «le vite dei neri contano», allora tra i problemi da affrontare c’è la cultura della violenza esaltata dai guru giovanili come i rapper; ci sono le organizzazioni criminali che hanno messo radici in quell’ambiente. Quando la «maggioranza silenziosa» degli afroamericani ha l’occasione di esprimersi, vota per moderati come Obama, salva il centrista Biden dalla débâcle delle primarie nel 2020, elegge un sindaco-sceriffo come Eric Adams a New York. Non può dirlo, perché l’élite che vive di rendita sull’estremismo antirazzista scatenerebbe il linciaggio mediatico, ma la maggioranza silenziosa in cuor suo crede allo slogan «Law and Order».
Purché il volto della legge e dell’ordine non sia quello di Derek Chauvin, l’agente bianco che ha torturato e ucciso per soffocamento George Floyd. Il 25 maggio 2020 una pattuglia di polizia ferma questo afroamericano di quarantasei anni, dopo la chiamata del commesso di una tabaccheria che lo accusa di aver pagato con una banconota falsa. Seguono 8 minuti e 46 secondi di una tortura feroce, ripresa in video, una scena angosciante e ormai tragicamente nota: l’agente Chauvin che preme il ginocchio sul collo di Floyd, provocandone la morte. Quelle immagini orrende scatenano proteste in America e nel mondo, segnano una ripresa del movimento Black Lives Matter, entrano nello scontro elettorale Biden-Trump. A esasperare la rabbia, oltre alle immagini della crudeltà di Chauvin, c’è una realtà incontrovertibile: Trump spesso usa toni razzisti, mostra indulgenza verso i suprematisti bianchi, ne accetta il sostegno. Torna in primo piano una situazione agghiacciante: nelle forze di polizia sono incrostati nuclei di veri razzisti, talvolta simpatizzanti delle milizie di estrema destra. Godono di immunità, complicità, indulgenze. Anche perché in un mestiere di prima linea come quello del poliziotto e in una nazione armata fino ai denti, perfino i colleghi non apertamente razzisti possono essere tentati da un’interpretazione brutale della propria missione. Non è raro che a usare le maniere dure siano poliziotti di colore, anche loro esasperati dagli atteggiamenti di sfida e provocazione di tanti ragazzi neri o ispanici. Ma quel che ha fatto Chauvin a Floyd è mostruoso, ha travalicato ogni confine di umanità. Grazie a una testimone che ha immortalato con un telefonino quella lenta morte per asfissia, l’America è rimasta attonita, incredula, tramortita di fronte allo spettacolo di sadismo e crudeltà.
La reazione arriva seguendo un copione tristemente prevedibile. Dal 25 maggio 2020, per molte settimane di seguito, ogni sera in numerose città americane il buio porta il caos e la paura, ogni notte è scandita da scontri con la polizia, violenze e saccheggi. Dal focolaio originale di Minneapolis, in Minnesota, la rabbia per la morte di George Floyd dilaga in settantacinque città. Più di venti finiscono sotto coprifuoco, una situazione che si verificò solo nel 1968 dopo l’assassinio di Martin Luther King. Bruciano alcuni quartieri di Los Angeles, si spara a Detroit e Indianapolis, auto della polizia vengono incendiate a Chicago, la tensione assedia New York. Un’America che in quella tarda primavera del 2020 è già stremata da oltre centomila vittime del coronavirus, e ha visto salire a 40 milioni i disoccupati per la pandemia, assiste sgomenta a questo terzo fronte di crisi. Nella protesta s’infiltrano i provocatori, le gang, i professionisti degli scontri di piazza e del furto organizzato. Molte catene della grande distribuzione devono chiudere e lanciano appelli accorati: siamo rovinati, dopo i lockdown ci mancavano solo le razzie.
I leader storici delle comunità afroamericane tentano di contenere le frange estreme al proprio interno. Le scene di Los Angeles, dove le razzie svuotano i negozi di lusso, riportano su tutti gli schermi una storia antica, la criminalità locale che approfitta dei disordini. Un importante punto di riferimento degli afroamericani, il deputato John Lewis, che fu compagno di battaglie di Martin Luther King, poco prima di morire aveva rivolto un appello accorato ai suoi: «Conosco la vostra rabbia e la vostra disperazione, ma incendiare e saccheggiare non è la soluzione». A New York il sindaco di sinistra Bill de Blasio tenta di minimizzare ma poi è costretto a cambiare versione sulla matrice delle violenze. All’inizio sostiene che le bande scatenate nelle aggressioni «vengono da fuori e non appartengono alla comunità di colore». Poi deve correggersi: «Sono anarchici organizzati, anche di New York, gente che ha ideologie distorte. Aggrediscono i poliziotti, che sono lavoratori».
Il sacco di quella città spacca i democratici. Il governatore Andrew Cuomo attacca il sindaco, suo compagno di partito, per le razzie che hanno sconvolto la Grande Mela: «È stata una vergogna». Cuomo punta il dito contro il New York Police Department e chi ne è alla guida: «Il sindaco e le forze dell’ordine non hanno fatto il loro lavoro». Tra le accuse del governatore democratico: nella serata dei saccheggi ai negozi era in piazza solo un quarto degli organici di polizia, mentre ne occorrevano molti di più. Le telecamere hanno ripreso bande di predatori all’assalto del grande magazzino Macy’s che agivano indisturbate svuotando la celebre sede di Herald Square, senza che la polizia fosse visibile nelle vicinanze. Ma se la presenza di troupe televisive ha mostrato al mondo intero il sacco dei quartieri celebri di Manhattan – da Soho alla Fifth Avenue –, il giorno dopo è risultato chiaro che vandalismo e furti in massa erano ben più estesi. Non hanno colpito solo le grandi catene o i negozi di lusso nei quartieri centrali; tra le zone più devastate dai saccheggi c’è il Bronx, dove risiede un’alta concentrazione di afroamericani e dove gli stessi proprietari di negozi depredati sono neri. Un giovane consigliere comunale del Bronx, l’afrolatino Ritchie Torres, si è fatto interprete dello sgomento di quel quartiere popolare. «Le nostre autorità» ha detto Torres «hanno perso il controllo della situazione.» L’associazione degli esercenti della Trentaquattresima Strada, l’area che include il grande magazzino Macy’s di Herald Square, ha calcolato che solo in quel pezzetto di Manhattan 20 negozi sono stati svuotati e il bottino è stato di centinaia di milioni di dollari.
Trump è svelto ad accusare chi governa la sua città, twittando: «Hanno lasciato che New York fosse fatta a pezzi». Alla fine C...

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