Il lavoro non è una merce
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Il lavoro non è una merce

Contro la flessibilità

Luciano Gallino

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Il lavoro non è una merce

Contro la flessibilità

Luciano Gallino

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Sono così rare di questi tempi le voci fuori del coro che seguirne qualcuna allarga mente e spirito, per giunta ben articolata per scrupolo d'analisi, solidità degli argomenti, capacità di disvelamento di diffuse ma anche false credenze. Tanto più se l'originalità dell'approccio riguarda un tema – il mercato del lavoro – oggi cruciale. È questo il caso di Luciano Gallino.Massimo Riva, "la Repubblica"Un libro chiaro, ricco di dati e di riflessioni critiche; un libro anticonformista contro il conformismo della flessibilità ad ogni costo; e antiretorico contro le retoriche della flessibilità come virtù.Lelio Demichelis, "Tuttolibri"Non solo non è giusto che il precariato oggi sia merce di scambio dell'economia globalizzata, ma nemmeno intelligente per una società che voglia congiungere allo sviluppo economico lo sviluppo umano.

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Information

Year
2011
ISBN
9788858102176

1. Le molte facce (e i tanti numeri) della flessibilità

Nel nostro paese come in altri dell’Unione Europea, Francia e Germania in testa, organizzazioni e personaggi autorevoli chiedono ogni giorno, ormai da alcuni lustri, che sia accresciuta la «flessibilità del lavoro». La richiesta si presenta in ogni contesto immaginabile. La avanzano o la difendono, nel corso dell’intero periodo, i saggi dei maggiori centri di ricerche economiche; i discorsi del governatore della Banca d’Italia, non importa se quello in carica o quello di prima; le dichiarazioni dei presidenti della Confindustria; gli articoli di fondo dei maggiori quotidiani; le pagine dei più reputati organi economici, a partire dal «Sole-24 Ore»; le interviste tv degli uomini politici del centro-destra come del centro-sinistra; le dichiarazioni di ministri economici e di presidenti del Consiglio d’una dozzina di governi almeno. Visto che sono citatissimi dalle suddette fonti – di solito con il codicillo che una maggior flessibilità del lavoro «ce la chiede l’Europa», oppure «ce la chiedono i mercati» –, si dia anche un’occhiata ai documenti della Commissione europea, dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) o del Fondo monetario internazionale. Una volta compiuta una simile rassegna, più o meno esaustiva in funzione del tempo disponibile, non ci si potrà sottrarre alla conclusione che l’aumento della flessibilità del lavoro – con il quale s’intende una maggior diffusione dei lavori flessibili – rappresenti in assoluto uno dei bisogni più seri e urgenti dell’economia italiana, nel quadro delle crescenti interdipendenze tra questa e l’economia mondiale.
Ma qual è propriamente il senso dell’espressione «flessibilità del lavoro», che nei testi di cui sopra non sempre viene esplicitato? Si usano definire flessibili, in generale, o così si sottintendono, i lavori o meglio le occupazioni che richiedono alla persona di adattare ripetutamente l’organizzazione della propria esistenza – nell’arco della vita, dell’anno, sovente perfino del mese o della settimana – alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano o si offrono di occuparla, private o pubbliche che siano. Tali modi di lavorare o di essere occupati impongono alla gran maggioranza di coloro che vi sono esposti per lunghi periodi un rilevante costo umano, poiché sono capaci di modificare o sconvolgere, seppure in varia misura, oltre alle condizioni della prestazione lavorativa, il mondo della vita, il complesso dell’esistenza personale e familiare.
Allo scopo di poter discutere con qualche rigore sia di flessibilità che del suo costo umano, occorre però cercar di precisare quel che sovente, quando si legge o si sente parlare di flessibilità, rimane nel vago. Anzitutto, occorre stabilire quali sono le particolari forme che essa può assumere e quante sono realmente le persone che vi sono esposte. Per contare queste ultime occorre far fronte a numerose difficoltà di ordine metodologico e statistico. In secondo luogo, va rilevato che i costi umani del lavoro flessibile variano notevolmente, come entità e tipologia, in funzione dei sistemi lavorativi, o modi di lavorare, nel cui ambito si applica al lavoratore un dato tipo di flessibilità. Infine, è possibile che lo stesso tipo di flessibilità configuri per una persona oneri notevolmente diversi a seconda del suo livello di qualificazione, della professione, della fascia di età, del genere, dello stato di salute, della storia lavorativa, perfino delle sue origini etniche. Questi diversi aspetti della flessibilità sono trattati nei successivi capitoli; in questo ci si sofferma invece su definizione e numeri della flessibilità.
Negli studi e in una parte delle statistiche relative al lavoro flessibile si usa distinguere tra due specie principali di flessibilità, che gli esperti sogliono denominare, in modo alquanto criptico, numerica oppure funzionale, quantitativa oppure qualitativa, esterna o interna1. Per maggior chiarezza converrebbe invece parlare per un verso di flessibilità dell’occupazione, per l’altro di flessibilità della prestazione. La flessibilità dell’occupazione consiste nella possibilità, da parte di un’impresa, di far variare in più o in meno la quantità di forza lavoro utilizzata, ossia il numero dei lavoratori cui paga a un dato momento un salario, in relazione stretta con il proprio ciclo produttivo; ciò che dovrebbe avvenire idealmente in tempo reale, ovvero con un ritardo minimo, approssimantesi a zero, rispetto al profilarsi dei picchi e delle valli del ciclo stesso. Detta possibilità si realizza al meglio quando sussista un’ampia libertà di licenziare o, in mancanza di questa, la possibilità di occupare salariati (di proposito non scriviamo qui «assumere») facendo fronte al minor grado concepibile, nel contesto locale, di norme del diritto del lavoro che tendono a rendere duratura l’occupazione.
In effetti, codeste norme sono viste in generale da molte imprese, e dalle loro maggiori associazioni, quali la Confindustria, come un preoccupante fattore di rallentamento del flusso di lavoratori in entrata e in uscita da un’azienda. Tra il polo della libertà di licenziamento e quello del divieto di licenziare se non per gravi motivi, la possibilità di avere a disposizione buon numero di lavoratori occupabili con un grado elevato di flessibilità rappresenta per le imprese un compromesso accettabile, che molte di esse provano, ad ogni buon conto, a sospingere verso il primo polo.
La flessibilità dell’occupazione si traduce prevalentemente, allorché rientra nel quadro del diritto del lavoro – ciò che per molte persone non avviene, come vedremo subito –, in una variegata tipologia di contratti lavorativi, che sono detti atipici per distinguerli dal normale o tipico contratto di lavoro di durata indeterminata e a tempo pieno. Vanno perciò considerati come indicatori di flessibilità dell’occupazione anzitutto i diversi contratti per dipendenti di durata determinata, o a termine, che possono variare da pochi mesi a due-tre anni; poi i contratti a tempo parziale; i contratti di lavoro in affitto, che un tempo si chiamava interinale, mentre il decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, attuativo della legge 30/2003, lo chiama «in somministrazione», e può applicarsi a individui o a gruppi di lavoratori; i contratti di collaborazione coordinata e continuativa, che sotto il profilo giuridico configurano un lavoro autonomo, però designato sovente «parasubordinato» per distinguerlo dal lavoro realmente indipendente dell’artigiano o del professionista; di lavoro a progetto (idem); i contratti di lavoro ripartito (in questo caso due persone si dividono nel giorno o nella settimana un unico posto di lavoro a tempo pieno); ancora, i contratti di lavoro intermittente e di prestazione occasionale. Tutti questi contratti atipici coesistono in numerose imprese a fianco dei contratti a tempo indeterminato, che continuano ad applicarsi alla maggioranza dei lavoratori dipendenti in attività, mentre per quanto riguarda i nuovi ingressi al lavoro, come media nazionale, dal 2005 in poi, i contratti atipici hanno rappresentato oltre la metà del totale.
La flessibilità della prestazione si riferisce per contro all’eventuale modulazione, da parte dell’impresa, di vari parametri della situazione in cui i salariati che al suo interno operano – a cominciare dai dipendenti a tempo indeterminato e orario pieno, ma compresi pure gli atipici – prestano la loro attività. Sotto questa rubrica vengono quindi collocati: l’articolazione differenziale dei salari, praticata per ancorarli ai meriti individuali o alla produttività di reparto o di impresa; le modificazioni degli orari, intese ad accrescere vuoi l’utilizzazione degli impianti, vuoi l’aderenza alle singolarità del ciclo produttivo, su archi temporali che vanno da poche ore durante il giorno (come nel caso degli orari che permettono di scegliere l’ora di ingresso o di uscita) sino a un intero anno (come nel caso della cosiddetta annualizzazione, degli orari pluriperiodali, delle «banche del tempo»).
Rientrano quindi nella rubrica delle prestazioni flessibili l’introduzione, le diverse tipologie e le variazioni cicliche di modalità quali: il lavoro a turni; gli orari slittanti, per cui capita ogni tot settimane di dover lavorare il sabato e la domenica; gli orari pluriperiodali o annualizzati, in base ai quali la media «normale» delle 40 ore settimanali può venire raggiunta, nell’anno, lavorando per tot settimane con orari molto più lunghi e per altre con orari molto più brevi; lo straordinario e le sue ricorrenti variazioni; le improvvise variazioni d’orario comprese entro una fascia di ore e/o giorni in cui il lavoratore ha dato la propria disponibilità (comuni nella grande distribuzione, dove si cerca di far coincidere il numero di addetti presenti con il flusso quotidiano della clientela); le variazioni delle condizioni di lavoro, ivi compresa la condivisione del posto o dei mezzi di produzione (macchina utensile, scrivania, sportello o pc in rete che siano); le improvvise variazioni del ritmo, del tipo e del luogo di lavoro che appaiono necessarie per fare fronte a occasionali disfunzioni del ciclo produttivo; i trasferimenti di personale tra reparti o tra sedi; gli spostamenti del luogo di lavoro (come nel telelavoro) ovvero la soppressione d’un luogo definito in cui il lavoro debba venire svolto (come nei casi più avanzati di «ufficio mobile», ma anche in molti casi più tradizionali di attività di trasporto).
La flessibilità della prestazione viene regolata vuoi dai contratti collettivi imprese-sindacati a livello nazionale e a livello integrativo, vuoi dalle norme inserite in ciascuna tipologia di contratto atipico. I lavoratori toccati da queste forme di flessibilità qualitativa sono parecchi milioni, posto che esse si applicano tanto a molti lavori a tempo pieno e durata indeterminata quanto a gran parte delle occupazioni flessibili di genere quantitativo menzionate prima. Peraltro le sovrapposizioni delle diverse modalità di organizzazione del lavoro – per cui può capitare, ad esempio, che un certo numero di lavoratori facciano un turno di notte, con un paio d’ore di straordinario, nella notte tra una domenica e un giorno festivo, numero che il mese dopo può essere maggiore o minore – rendono difficile pervenire a una stima più precisa della quantità di persone coinvolte in forme di flessibilità della prestazione.
Di certo è provato che anche questa forma di flessibilità lavorativa comporta per chi vi è esposto costi rilevanti, in specie quando succede che essa si combini, in capo alla stessa persona, con la flessibilità dell’occupazione. È altresì noto che molte imprese, piccole e grandi, impongono dosi addizionali di flessibilità della prestazione facendo capire a coloro i quali hanno un contratto a termine, come dipendenti o parasubordinati, che dalla disponibilità ad accettarla può dipendere il rinnovo del contratto in essere. È forse questo l’incubo principale dei lavoratori che hanno un’occupazione sottoposta alle leggi economiche e alla legislazione della flessibilità.
Nel seguito si tratterà soprattutto dei temi connessi alla flessibilità dell’occupazione, poiché è su questi ultimi che si è concentrata da anni l’attenzione delle famiglie e dei sindacati da un lato, delle imprese, della politica e degli esperti di economia e di diritto del lavoro dall’altro. Nondimeno, visto che la flessibilità della prestazione, quella che incide direttamente sulle condizioni in cui si trova a operare chi un lavoro ce l’ha, si cumula sovente con la flessibilità dell’occupazione a carico delle stesse persone, e che tra le due vi sono rapporti di scambio – poiché in molti casi se non si accetta quella si rischia maggiormente di cadere sotto questa – saranno spesso introdotti anche riferimenti alla prima.
Sin qui abbiamo parlato di occupazione instabile o discontinua perché i relativi contratti, regolati dalle leggi vigenti, presentano una scadenza o un’altra atipicità, come il part time, a prescindere dal fatto che riguardino un dipendente a termine o un parasubordinato. Esiste però anche l’instabilità o discontinuità dell’occupazione dovuta al fatto che il contratto non esiste, ovvero è soltanto verbale o implicito. Mi riferisco a quell’universo parallelo di lavori flessibili costituito dall’economia sommersa, che per sua natura non è né regolato né regolabile. Comprende milioni di persone che non soltanto lavorano totalmente o parzialmente in situazioni irregolari, dal punto di vista contributivo e fiscale, ma sono anche – e questo è l’aspetto cui andrebbe attribuito un maggior peso – totalmente prive di diritti.
Nell’economia sommersa concetti quali ferie, festività, assistenza sanitaria, misure di sicurezza e tutela della salute sul luogo di lavoro, previdenza, condizioni che l’ambiente lavorativo deve rispettare, protezioni e vertenze sindacali, lavoro e compenso ordinario e straordinario, sono tutte parole prive di senso. In essa è estrema la subordinazione al datore di lavoro, che ogni singolo giorno può esercitare la facoltà di assumere o licenziare, chiedere più o meno ore, aumentare o diminuire la retribuzione. Inoltre, è ben noto a chi lo osserva da vicino – a cominciare dagli ispettori del lavoro, ma anche da molti imprenditori – che esso è strettamente intrecciato con l’economia formale. A tal punto che, ove simile universo venisse improvvisamente a mancare, l’economia regolare entrerebbe in crisi entro breve tempo.
Appare insomma del tutto improprio discutere di flessibilità, quando non si prenda in considerazione sistematica questa larga parte del mercato del lavoro che della flessibilità italiana è elemento inseparabile. Non da ultimo, tale considerazione congiunta appare necessaria perché sono massicci e rapidi i passaggi da un bacino all’altro del mercato del lavoro, il regolare e l’irregolare, il formale e l’informale; passaggi da cui derivano cospicue opacità e ambiguità delle statistiche sull’occupazione. Tra il 1992 e il 1994, ad esempio, scomparvero dalle rilevazioni dell’Istat 1.300.000 occupati. Tutti disoccupati? Non proprio. Gran parte...

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