Lutero e il diritto
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Lutero e il diritto

Certezza della fede e istituzioni ecclesiali

Nicola Reali

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Lutero e il diritto

Certezza della fede e istituzioni ecclesiali

Nicola Reali

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Il 10 dicembre 1520 a Wittenberg Lutero brucia, insieme alla bolla di scomunica di Papa Leone X, il corpus iuris canonici: la più disprezzata struttura della chiesa cattolica romana.
Pur tuttavia, l'identificazione di un profilo evangelico del diritto mondano non è assente negli scritti di Lutero, e neppure la
definizione degli strumenti giuridici che debbono essere conservati nella chiesa.
Come può dunque convivere in Lutero la convinzione dell'inutilità del diritto con la consapevolezza che persino la comunità cristiana non può farne a meno? Il volume tenta di rispondere a questa domanda.

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1. Verso la Gerusalemme celeste

L’enfasi sul diritto naturale, propiziata dall’influsso di Aristotele nella filosofia e teologia del secolo XIII, ha forse messo troppo in ombra il processo di interpretazione degli scritti agostiniani che ha accompagnato il pensiero politico ecclesiale del Medio Evo. È importante metterlo in luce, fosse solo per il fatto che in quell’epoca nessuna affermazione dottrinale si sarebbe potuta dare prescindendo dal vocabolario e dalle sentenze del vescovo Ippona, il quale godeva di un’autorità pressoché identica a quella del Vangelo. Non è certo possibile riprendere qui tutto il problema delle varie fasi di ricezione del pensiero di Agostino nel Medio Evo: nella loro ricchezza e nelle loro contradizioni questi passaggi hanno fecondato sia il pensiero teologico in senso stretto sia quello giuridico occidentale nelle sue radici. Il nodo centrale, per quel che concerne il presente studio, diventa il commento al De civitate Dei e in particolare il rapporto tra la civitas Dei e quella terrena . Forse l’idea che può maggiormente aiutare a capire in sintesi il clima intellettuale che consente alla riflessione teologico-politica di ricevere la benedizione del vescovo di Ippona sul progetto di evocato nel paragrafo precedente è quella che tende a identificare ciò che Agostino chiama civitas terrena o civitas diaboli unicamente col paganesimo della Roma antica. Data l’inconciliabilità che Agostino stabilisce tra le due città, si preferisce procedere a questa assimilazione al fine di evitare che il magistero del vescovo di Ippona costituisca un giudizio sullo stato in quanto tale. L’interesse particolare di questa interpretazione, tra le molteplici che sono state date, sta nel fatto che in questo modo la coscienza ecclesiale di una distinzione tra le due città è potuta sopravvivere insieme alla consapevolezza che si potesse (e si dovesse) intervenire nel processo di edificazione della città degli uomini, poiché quest’ultima – quando prende forma “cristiana” o “evangelica” – non è più la “città del diavolo” come la societas improborum romana, ma si avvicina moltissimo alla civitas Dei , stabilendo delle analogie tra il regno celeste e quello terreno sempre più strette. Per i sostenitori in genere del diritto della chiesa di determinare l’orientamento della città degli uomini, pur riconoscendo un dualismo giuridico di fondo tra il potere spirituale e quello temporale, Agostino diventa così l’ auctoritas teologica da affiancare alla filosofia aristotelica per dare corpo al progetto ecclesiale di impedire ogni forma di concorrenza tra l’ordinamento divino e quello umano .
Certamente, dal punto di vista giuridico, è stata la nozione di diritto naturale a influenzare maggiormente il rapporto della chiesa con il potere mondano, dal momento il cristianesimo medievale, ha pensato il diritto vigente tra gli uomini non come semplice diritto umano, ma come ciò che, pur distinguendosi dal diritto canonico, si erige e si fonda su un diritto natural-divino, condiviso con l’ordinamento ecclesiastico. Infatti è proprio il diritto naturale a porsi come anello di congiunzione tra lo ius divinum e lo ius humanum, rendendo necessaria una reciproca cooperazione della chiesa e dello stato nel perseguire un “bene comune” immanente alla civitas terrena, la quale, più o meno christiana, ha così il compito di realizzare storicamente un’aliquale forma di beatitudine. Tuttavia, l’aver ricordato Agostino è fondamentale per inquadrare il pensiero di Lutero, non solo perché escludere il riferimento ad Agostino renderebbe impervio – e, forse, perfino impossibile – accostare l’insegnamento di colui che fu un monaco agostiniano, ma anche perché aiuta a mettere insieme gli elementi ai quali fare riferimento per illustrare il suo rapporto col diritto. Se, infatti, da un certo punto di vista, la tradizione cattolica ha fatto leva quasi esclusivamente sul concetto di natura e di legge naturale per legittimare una «apologia dello stato […] orientata da san Tommaso e determinata dal principio dell’ analogia entis…» [1] , la chiesa/e protestante/i ha/hanno costruito un rapporto con l’ordinamento civile che, nonostante abbia anch’esso risentito dell’influsso del diritto naturale, trova nel De civitate Dei il suo indiscusso e decisivo punto di riferimento.
In questo immenso quadro, indagare il pensiero di Lutero sul diritto significa cercare di cogliere come questi due rimandi convivano nei suoi scritti. Non è certo una novità: esiste una letteratura abbondante e autorevolissima. Quel che, se è possibile, vuole apparire originale è scegliere un punto di vista che apparentemente non facilita il compito: cosa ha significato il pensiero di Lutero in rapporto al tentativo del cristianesimo medievale – sbozzato nel paragrafo precedente – di ripensare il proprio ruolo nei confronti delle istituzioni mondane sulla base del concetto aristotelico-tomista di bonum commune? La “Dottrina dei due regni ( Zweireichelehre)” [2] ha sicuramente operato una distinzione tra il regno celeste e quello mondano che, come unanimemente riconosciuto, ha rafforzato lo stato e la legislazione positiva, sottraendoli alla “cupidigia” della gerarchia ecclesiastica. Nello stesso tempo la preoccupazione di delineare le linee guida dell’organizzazione della città degli uomini è tutt’altro che assente nel pensiero del Riformatore, il quale, così facendo, non soltanto ha voluto mantenere la chiesa come istituzione (a differenza di tutti gli Schwärmer che lo hanno preceduto e seguito), ma anche cercato di mettere in rilievo il suo compito di indirizzare lo stato a perseguire un bene immanente alla città degli uomini. In questo modo se è inutile andare in cerca del lemma ( bonum commune, Gemeinwohl, Gemeinnutz) negli scritti di Lutero, non altrettanto si può dire dell’idea di “bene comune”, la quale, anticipando le conclusioni, diventa per il Riformatore la finalità principale cui deve indirizzarsi l’ordinamento secolare per non confliggere col diritto divino.
Chiedersi – come recita il titolo di questo capitolo – se esiste per Lutero un fondamento teologico al diritto civile, significa pertanto tenere sullo sfondo la questione del “bene comune” così come il pensiero teologico-politico medievale lo ha concepito: mantenendo costante il riferimento sia ad Agostino sia al diritto naturale, la legge positiva per Lutero non è solo lo strumento squisitamente secolare che garantisce un ordine mondano, ma deve anch’essa caratterizzarsi in chiave teologico-escatologica per accompagnare gli uomini verso la Gerusalemme celeste.


[1] J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, tr. it., Milano 1978, 280.
[2] Von weltlicher Obrigkeit, 1523, WA 11, in particolare 249-254. Sulla “Dottrina dei due regni” è noto il giudizio di uno dei maggiori storici della Riforma (Johannes Heckel) che la definì un autentico “labirinto ( Irrgarten)”, dove grano e zizzania, buone e cattive interpretazioni erano cresciute insieme indiscriminatamente ( Im Irrgarten der Zwei-Reiche-Lehre. Zwei Abhandlungen zum Reichs- und Kirchenbegriff Martin Luthers, München 1957). Su questa tematica, tra l’abbondante letteratura, cf. F. Lau, „Äußerliche Ordnung“ und „Weltlich Ding“ in Luthers Theologie, Göttingen 1933; U. Duchrow, Christenheit und Weltverantwortung. Traditionsgeschichte und systematische Struktur der Zweireichelehre, Stuttgart 1983; A. Maffeis, «Vangelo e società. La dottrina dei due regni nel dibattito teologico della prima metà del XX secolo» in Aa.Vv., Chiesa e politica, Brescia 2000, 75-127; V. Mantey, Zwei Schwerter - Zwei Reiche. Martin Luthers Zwei-Reiche-Lehre vor ihrem spätmittelalterlichen Hintergrund, Tübingen 2005; V. Leppin, «Das Gewaltmonopole der Obrigkeit: Luthers sogenannte Zwei-Reiche-Lehre und der Kampf zwischen Gott und Teufel», in Krieg und Christentum. Religiöse Gewalttheorien in der Kriegserfahrung des Westens, Hrsg. von A. Holzem, Paderborn 2009, 403-414.

2. Due regni, due governi

Senza ombra di dubbio Lutero è stato colui che più di tutti ha energicamente difeso una separazione e distinzione tra lo ius divinum e quello humanum a cui corrispondeva un altrettanto netta divisione tra la chiesa e lo stato. Nella già evocata “Dottrina dei due regni” Lutero sosteneva con forza, infatti, che questi due regni fossero governati da due differenti autorità o governi ( Regimenten ) di modo che la Zwei-Reiche-Lehre era in realtà anche una Zwei-Regimenten-Lehre . Al regno di Dio ( Reich Gottes, regnum Dei ) appartengono i veri credenti che «…non hanno bisogno di alcuna spada secolare né di leggi […] perché essi hanno nel cuore lo Spirito Santo, che li ammaestra…» [1] , mentre al regno del mondo ( Reich der Welt, Teufels Reich, regnum diaboli ) appartengono «…tutti coloro che non sono cristiani e che sono sottoposti alla legge […] Dio ha stabilito per loro – esclusa la cristianità e il regno di Dio ( ausser dem Christlichen stand vnnd Gottis reych ) – un altro governo ( regiment ) e li ha sottoposti alla spada […] Dio ha stabilito due governi: quello spirituale ( geystliche ), che mediante lo Spirito Santo suscita cristiani e uomini retti sotto l’autorità di Cristo; e quello temporale ( welltliche ), che tiene a bada i non-cristiani e i malvagi» [2] . Il diritto divino si trova unicamente nelle Sacre Scritture [3] , tutto il resto (comprese le Decretali papali) sono « decreta hominum » [4] che non possono confondersi con l’insegnamento di Dio. Pertanto, nessun stato può pretendere di costituire sulla terra ciò che Dio ha riservato a coloro che credono – neppure il papa e i vescovi [5] . Il rogo del Decretum Gratiani e dei tomi del Corpus iuris canonici del 10 dicembre 1520 alla Elstertor di Wittenberg, da questo punto di vista, non fu una sorpresa [6] .
Di conseguenza è chiaro per Lutero che l’unico modo per non essere sudditi della civitas terrena consiste nel seguire i consigli di quella forma di vita spirituale che è la vita cristiana, dal momento che quanti non li seguono si trovano, anche senza saperlo, all’intero del regno di Satana. Per questo la civitas Dei va meticolosamente distinta da quella terrena, anche se – si affretta a precisare Lutero – entrambi i regni sono stati posti da Dio e, pertanto, sono ambedue necessari. Anzi Lutero arriva a dire che sarebbe da folli pensare di governare il mondo solo con il Vangelo (senza legge né spada) perché in quel caso verrebbero «… tolte le briglia alla malvagità …» e si darebbe «…spazio a ogni scelleratezza …» [7] , perché il mondo nella sua interezza non può né ricevere né comprendere la legge di Dio. Per questo «…bisogna distinguere accuratamente questi due regni e lasciar sussistere entrambi: uno rende giusti, l’altro procura la pace esteriore e impedisce le opere malvagie. Nel mondo nessuno dei due è sufficiente senza l’altro» [8] .
Come si vede, l’idea di Lutero non è quella di un generico antinomismo: egli vede l’esigenza di un governo nel mondo retto da leggi che, ponendo dei limiti al comportamento disordinato degli uomini, consentono la coesistenza nella civitas terrena. L’ineludibile presenza del peccato nella vita dell’uomo è così la premessa sulla quale Lutero può disegnare la necessità che la Obrigkeit civile governi con la legge e la spada g...

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