Genealogia del cinema italiano contemporaneo
“Più reale del reale” è una formula efficace con cui si potrebbe sintetizzare la tradizione del nostro cinema, a partire dal neorealismo per giungere ai giorni nostri.
Qui cercheremo di delineare lo spazio di un raccordo fra gli esempi più alti del nostro cinema contemporaneo e alcuni momenti della nostra tradizione cinematografica, per individuare alcuni tratti specifici, che hanno definito un modo unico di mettere in immagine il reale, anche in rapporto alla storia sociale, culturale e politica del nostro Paese.
Ci sono due modi, in linea di massima, che hanno regolato l’accesso del reale a rappresentazione estetica, uno che lo ha declinato attraverso le forme dell’azione, un altro che, saltando la mediazione di quest’ultima, ha composto l’emergenza del reale in una forma di eccedenza “visionaria”.
Nel primo caso, fin dalla Poetica di Aristotele, la saldatura fra il reale e la sua rappresentazione è stata sancita dall’azione e dalla narrazione come forma di “oggettivazione” dell’azione. L’idea arendtiana che l’azione esiste solo nelle storie che la raccontano è di diretta derivazione aristotelica, emana dall’idea del mythos come mimesis praxeos. Dalla saldatura fra realtà dell’azione e realtà dell’intreccio discendono le grandi forme generiche, che Aristotele suddivide in due, a partire dalla tipologia sociale dei personaggi rappresentati e dalle loro capacità d’azione: la tragedia e la commedia. La prima riguarda personaggi al di sopra di noi, capaci di compiere grandi azioni, la seconda personaggi come noi alle prese con azioni ordinarie e quotidiane. In entrambi i casi è l’intreccio a mediare la restituzione “estetica” del mondo. E in entrambi i casi è l’azione il modo di prendere corpo del reale e la forma di espressione della soggettività.
Una complicazione di questo schema, che separa l’“alto mimetico” (la tragedia) dal “basso mimetico” (la commedia) avviene, ce lo dice Auerbach nel suo grande studio sul realismo in letteratura, Mimesis, a partire dalle Sacre Scritture, dove la distinzione dei livelli viene messa in questione, proiettando, di fatto, il livello tragico su situazioni ordinarie e quotidiane. Questo ha dato vita al tragico basso-mimetico, cioè alla forma del pathos, come l’ha chiamata Frye in Anatomia della critica.
Diciamo subito che, per quanto riguarda il cinema italiano, la restituzione del reale in immagine ha scartato dalla codificazione dei generi classici e dalle forme dell’azione, grande o piccola, ad essi connessa; cioè ha scartato dalle forme della costruzione di intrecci come “oggettivazioni” verosimili della sfera della prassi.
Se pensiamo al nostro grande genere, la commedia all’italiana, a partire dagli anni sessanta, la vediamo rifuggire dalla saldatura fra azione ed intreccio in una triplice direzione: dominanza dell’episodico (fino al film ad episodi vero e proprio, come I mostri di Risi), sostituzione della maschera al personaggio (ancora I mostri, e per rimanere a Risi Il sorpasso), iscrizione della morte nella commedia: il primo morto della nostra commedia è ne I soliti ignoti, poi in Il sorpasso.
Naturalmente, tutti questi tratti li ritroviamo negli esempi più recenti del nostro cinema, nel moltiplicarsi dei fili narrativi di Gomorra e nelle maschere de Il caimano e Il divo.
Ma anche quando pensiamo alla declinazione nostrana di un genere fondativo del cinema americano, come il western, anche, dunque, nel caso, per esempio, di Sergio Leone, vediamo la determinazione di un tratto iperbolico e visionario nella scelta e nel raccordo dei dettagli, nel rapporto con la musica, che manifesta uno svuotamento (anche dai tratti parodici) della verosimiglianza dell’azione.
Dunque, e in sintesi, nelle declinazioni “all’italiana” di alcuni generi, siano essi la commedia o il western, vediamo la messa in questione di quel modello classico, mimetico, di saldatura tra forme dell’azione e tipologia d’intreccio. Diciamo che l’emergenza del reale eccede i confini, effettivi o possibili, della verosimiglianza narrativa e pragmatica, e prende una direzione eccessiva, visionaria, non contenibile nella struttura logica del mythos (e questo riguarda anche la “piega” visionaria e l’ipertrofia del dettaglio che troviamo nel melodrammatico viscontiano).
Abbiamo detto che, rispetto al modello classico di distribuzione gerarchica dei generi, secondo un asse verticale dell’alto e del basso, a partire dalle Sacre Scritture abbiamo una complicazione di questo modello: l’iscrizione del tragico nel basso-mimetico, secondo la formula del pathos e il motivo del capro espiatorio. Ebbene, in questa formula vediamo l’esplicita iscrizione di un momento rituale nelle forme estetiche, cioè queste ultime si fanno carico di un momento della prassi, nel carattere fondativo della ritualità, che le mette in contatto con una dimensione del reale senza le mediazioni delle forme d’azione e della loro restituzione verosimile. Il rituale ha sempre un carattere istitutivo e mai ricognitivo, ed istituisce dopo aver fatto emergere la minacciosità del caos, della distruzione, controllandola. Un esempio di questo tragico basso-mimetico, lo troviamo in Pasolini, nei primi due film, Accattone e Mamma Roma. Nel pathos del dittico pasoliniano c’è un modo di farsi carico del reale che eccede l’ordine mimetico e che si inscrive in quello del rituale (e che non è distante neanche da motivi profondi dell’imagerie grottesca, come quando nel finale Accattone vede in sogno la sua morte, il suo funerale).
Adesso facciamo un passo indietro, e partiamo da quel momento di trasformazione decisiva delle forme cinematografiche e del loro rapporto con il reale, che è stato il neorealismo, dove il problema del rapporto del cinema con il reale è svincolato da ogni subordinazione al mimetico, al diegetico e al verosimile. L’emergenza del reale in tutta la sua dirompente flagranza nel secondo dopoguerra italiano non trova argini nella forma della prassi, interdetta o impossibile per soggetti troppo deboli (disoccupati, Ladri di biciclette, pensionati, Umberto D., bambini, Sciuscià), e si colloca in una prospettiva di fatto “visionaria”, che Deleuze, all’inizio de L’immagine-tempo, definisce in termini di erranza e di veggenza. Se l’azione presuppone la determinatezza della situazione rispetto alla quale si colloca un soggetto capace di modificarla, il soggetto neorealista, posto in uno stato di debolezza e impossibilitato ad agire perché collocato in una situazione troppo dispersiva, si dispone ad un incontro percettivo, ottico e sonoro, con il mondo. Questo incontro fa sì che il soggetto rimanga segnato e trasformato da ciò che vede (un’immagine icastica di questo, Deleuze la ritrova nel finale di Germania anno zero, quando il bambino si copre gli occhi prima di suicidarsi: muore di ciò che vede). Questo spostare la prospettiva da uno schema senso-motorio, orientato dalla prassi, ad uno ottico-sonoro puro, prevede un emergere del reale non più contrassegnato in senso funzionale e dunque secondo i meccanismi astraenti e selettivi della prassi, ma nelle forme impreviste, dense e singolari di un evento. Il reale non è già-dato, ma è quello che si dà in un incontro con un soggetto disponibile ad accoglierlo. Non c’è nulla prima di quest’incontro e tutto ne consegue (è il «pensare du...