Aden Arabia
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Paul Nizan, Daria Menicanti

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Aden Arabia

Paul Nizan, Daria Menicanti

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"Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita"Scritto nel 1931, ma dimenticato per molto tempo dalla cultura ufficiale, questo diario di viaggio di Paul Nizan esprime la necessità di opporsi alla miseria del mondo rifuggendo dalla sterilità autoreferenziale del sapere. Ogni pagina sprigiona l'esperienza viva di un intellettuale che, trovandosi a contatto con una terra aliena, trova le ragioni di una critica permanente alla subdola civiltà occidentale. Rivolto ai ventenni, Aden Arabia è un invito a non restare calmi, a vivere il tempo con una proficua inquietudine.Paul Nizan (1905 – 1940). Nato il 7 febbraio 1905 a Tours da un padre ferroviere, nipote di un mezzadro, studiò al liceo Enrico IV di Parigi dove conobbe Sartre, suo compagno di classe, con il quale entrò all'École normale supérieure per studiare filosofia. Il suo viaggio a Aden, porto all'imboccatura del Mar Rosso all'epoca occupato dai britannici e oggi città dello Yemen, tra il 1926-27, gli permette di sottrarsi dalla vita soffocante del piccolo mondo universitario e intellettuale di Parigi. Tuttavia questo viaggio, fatto da un "figlio della paura" come si definisce lui stesso, non può essere confuso con una fuga rimbaudiana; la falsa libertà dei viaggiatori è subito denunciata: "fuggire, sempre fuggire, per non pensare più di essere mutilato?". Ad Aden, Nizan ritrova l'Europa che aveva sperato di lasciarsi alle spalle, condensata in una società coloniale della quale denuncerà la sclerosi in Aden Arabia, pubblicato nel 1931 da Rieder e poi nel 1960 da Maspero con una prefazione di Sartre. Tra le sue altre opere Antoine Bloyé (Grasset 1933, Bertani 1972), Il cavallo di Troia (Gallimard 1935, Bertani 1973), Cronaca di settembre (Gallimard 1939, Editori Riuniti 1981), I cani da guardia (Rieder e La nuova Italia 1970). Muore ad Audruicq, non lontano da Dunkerque e dal Pas-de-Calais, il 23 maggio del 1940.

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Información

Año
2018
ISBN
9788863572377
Categoría
Filosofía

1.

Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.
Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. È duro imparare la propria parte nel mondo.
Ma a che rassomigliava il nostro mondo? Pareva il caos che i greci collocano all’origine dell’universo fra le nebbie della creazione, con la sola differenza che noi credevamo di scorgervi il principio della fine, di una vera fine, e non di quella che prelude al principio di un principio. Dinanzi a quelle estenuanti metamorfosi delle quali un numero minimo di testimoni si sforzava di trovare la chiave, si poteva soltanto osservare che la confusione portava alla morte naturale di quanto esisteva. Tutto assomigliava a quel disordine che conclude le malattie; già prima della morte, che s’incarica di rendere invisibili tutti i corpi, l’unità della carne si fraziona, e ogni parte di questa moltiplicazione tira per il suo verso: la cosa finisce con la putrefazione che non ammette speranza di risorgere.
Pochissimi uomini si sentivano allora abbastanza chiaroveggenti per individuare le forze già al lavoro dietro i grandi rottami putrescenti; ma noi nulla sapevamo di quanto sarebbe stato necessario sapere e la cultura era troppo complessa per permetterci di capire altro che le rughe superficiali: essa si esauriva nelle sottigliezze di un mondo ordinato di ragioni e quasi tutti i suoi professionisti erano incapaci di compitare gli stessi testi che commentavano. L’errore è sempre meno semplice della verità.
C’era bisogno di un abc, di ciò che realmente importava, ma, in luogo di insegnare a leggere, quelli a cui un sincero tormento impediva talvolta di dormire, escogitavano delle conclusioni che si basavano tutte sullo studio delle decadenze comparate: l’invasione dei barbari, il trionfo delle macchine, le visioni di Patmo, il ricorso a Ginevra e a Dio. Come erano intelligenti tutti quanti!
Ma questi furboni tenevano gli occhi troppo in basso per poter vedere, al di sopra dei propri occhiali, più in là dei naufragi. E i giovani avevano fiducia in loro.
Le condanne erano inappellabili, le affermazioni perentorie: “Voi state per morire”. Quelli della mia età, a cui s’impediva di riprender fiato, oppressi come vittime a cui si tenesse la testa sott’acqua, si chiedevano se in qualche luogo rimanesse un po’ d’aria; tuttavia dovevano ingegnarsi a raggiungere le proprie specie di annegati.
Siccome io ero classificato tra gli intellettuali, non avevo incontrato mai altri che tecnici senza mezzi: ingegneri, avvocati, eruditi e professori: non riesco nemmeno più a ricordarmi quelle miserie.
I casi scolastici e qualche saggio consiglio mi avevano portato verso l’École normale e verso quell’esercitazione ufficiale che ancora va sotto il nome di filosofia: l’una e l’altra mi suscitarono ben presto tutto lo schifo di cui ero capace. Se poi mi si domandasse perché mai ci rimanessi, dovrei rispondere che era per pigrizia, per ignoranza di un mestiere e perché lo Stato mi dava da mangiare e da dormire, mi prestava i libri gratis e mi accordava cento franchi al mese.
L’École normale è un’istituzione che le altre nazioni invidiano alla nostra Repubblica; essa è una delle tante teste della Francia, che è provvista di capi come un’idra. Vi viene addestrata parte di quella orgogliosa milizia di maghi chiamata, da coloro che pagano per formarla, l’Élite, e che ha la missione di mantenere il popolo sulla retta via della compiacenza e del rispetto, virtù che rappresentano il Bene; vi regna lo spirito di corpo dei seminari e dei reggimenti, per cui si arriva facilmente a far credere ai giovani che la loro debolezza privata inclina all’orgoglio collettivo, che l’École normale è un’entità reale, fornita d’anima – e un’anima bella – e di una personalità morale più amabile della verità, della giustizia e degli uomini. In quel luogo abitato da entità trasparenti, come il Giardino della Rosa, Ipocrisia è regina. I più dei normalisti s’investono di quei criteri che affermano la loro partecipazione all’Élite: élite cristiana (molti di loro amano la messa), élite universitaria (se ne vedono alcuni che preparano, come se si trattasse di un lungo viaggio, le tappe di una bella carriera e a vent’anni progettano matrimoni con le figlie di celebri professori, mentre il “Bulletin de l’École normale” pubblica orgogliose e ridicole genealogie), élite politica (parecchi nuotano nelle sporche acque delle sezioni socialiste e delle leghe radicali con la destrezza di vecchi pesci). Ma sempre élites dello Spirito. Questi pensieri ambiziosi limitano la maggior parte delle meditazioni sul valore degli uomini.
Là, a degli adolescenti già stanchi di anni di liceo, corrotti dagli studi umanistici, dalla morale e dalla cucina borghese delle proprie famiglie, viene propinato l’esempio di predecessori illustri: Pasteur, Taine, Lemaître, Giraudoux, François-Poncet, e vengono promesse a tempo debito, e cioè quando saranno rimbecilliti, anche a loro la Croce e l’Accademia alla fine dei loro giorni; ma nessuno racconta a quei ragazzi la vita di Évariste Galois1.
Nel 1924 c’era ancora un uomo: Lucien Herr. Quando si vedeva quel gigante, curvo sopra una montagna di libri, con quei suoi occhi senza nebbie sotto una fronte gobba, simile a un severo frangente di pensieri, quando si udiva la sua voce, che non mentiva mai, enunciare i giudizi che non volevano che questo giusto fine, dare a ciascuno quel che gli spetta, si sapeva che non era pericoloso vivere in quella sudicia dimora. Ma morì: e non rimase che l’École normale, oggetto risibile e più spesso odioso, presieduta da un vecchietto patriottardo, ipocrita, autoritario e militarista.
Per anni ho udito in rue d’Ulm e nelle aule della Sorbona uomini importanti parlare in nome dello Spirito.
Si trattava di quei filosofi che insegnano saggezza nelle riviste, che scrivono opere di consultazione e di bei ragionamenti, che entrano nelle associazioni filosofiche e convocano congressi per decidere sui progressi che lo Spirito ha fatto in un anno e su quelli che gli restano da fare, che portano nastrini sui risvolti come vecchi gendarmi giubilati e inaugurano lapidi di marmo su case natali e su “case mortuarie” ai crocicchi in Olanda (siffatte commemorazioni fan conoscere loro altri paesi), che vivono quasi tutti nei quartieri occidentali di Parigi: Passy, Auteuil, Boulogne: quartieri tranquilli, con poco rumore, poca gente, dove le ragazze non regolarizzano la propria situazione con un anno di ritardo. Sono i Saggi del xvi arrondissement.
Eppure presentano idee ben ammaestrate, teorie i cui denti si sono limati sulla psicologia, sulla morale e sul progresso; astrazioni che mostravano già la corda ai tempi di Jules Simon o di Victor Cousin ma che servono ancora bene. Sono delle brave persone, dicono che la verità si acchiappa al volo come un uccellino ingenuo; lanciano messaggi sulla pace e sulla guerra, sull’avvenire della democrazia, sulla giustizia e sulla creazione di Dio, sulla relatività, sulla serenità, e sulla vita dello Spirito. Apprestano dei vocabolari perché hanno scoperto tutti insieme un postulato importante: i problemi cesseranno di esistere quando i termini ne saranno opportunamente definiti; allora cadranno in polvere: mai visti né conosciuti, e il porli equivarrà a risolverli. I filosofi saranno soltanto i cani da guardia del vocabolario e gli storici di quel Medioevo in cui le parole avevano più di un significato. In attesa, essi insegnano a mettere da parte i pensieri pericolosi per il giorno in cui i loro veleni saranno evaporati: la ragione ha tutto il tempo e li ritroverà alla sua ora, ora che non coincide con quella degli uomini.
Così esercitano la filosofia, e questa esige, tutto sommato, un sufficiente decoro e una certa diligenza perché sia cosa onorevole il consacrarvi una vita sottratta alla contabilità e alla compagnia di Gesù.
E quale eloquio! Sciorinano tanti giri di frase e massime e figure retoriche, che non so se, con l’aiuto dei silenzi, nutriti dai segreti chiarimenti del sonno, di conversazioni con passanti che si attardano sulle piazze o nelle caserme, spacci, officine, non so se saprò mai più ritrovare il senso giusto delle parole e delle semplici invenzioni degli uomini.
Tra di essi un gran pensatore: Léon Brunschvicg, uno che meglio degli altri sapeva nascondere il suo gioco e aveva più di un asso nella manica. Una precisione da orologiaio nei pensieri e una notevole disposizione nell’arte dell’illusionista facevano anzitutto pensare a un filosofo: ma alla fine non si trovava altro che un Robert Houdin facilmente misurabile e di cui si potevano computare le menzogne. Questo rivenditorello di sofismi aveva il fisico di un vecchio maître d’hotel, autorizzato a mettere su, col tempo, pancia e barba. La scaltrezza gli guizzava dall’angolo dell’occhio, guidava, nello spazio grigio, le brevi mosse delle mani leziose da mercante ebreo; lanciando, fra strizzatine di occhi, motti di spirito come decreti della ragione, insinuava in ogni discorso: lasciate fare a me, tutto si accomoderà, io aggiusto ogni cosa nelle anime e nelle scienze… e salutava il pubblico. E che nascosto appetito di incarichi, di sicurezza e di onori! Che sincero terrore della verità che minaccia, di quella che, per intendersi, avrebbe potuto attentare al portafoglio di quest’uomo ricco! E i discepoli, schierati attorno a lui, si tenevano pronti a risollevare dal suo cadavere la bandiera mercenaria dell’idealismo critico.
Eppure c’erano uomini che lavoravano in catene, poliziotti che marciavano per le vie, uomini che morivano in Cina di morte violenta, mentre nell’Alto Volta i lavori forzati uccidevano i negri come un’epidemia.
Così facevano quel che potevano per nasconderci l’esistenza dei nostri fratelli carnali affinché fossimo veramente agguerriti per il lavoro da curati ai quali ci destinavano. La borghesia ingrassa i suoi intellettuali nelle stie perché non siano tentati di amare il mondo. Così noi vivevamo alla piccola velocità del sonno (nessuno ignora che sono le grandi velocità a costare care) e ci muovevamo come ci avevano addestrati a muoverci, occupati nei giochetti di costruzioni che tutti quei funzionari ci avevano insegnato. Pure c’era gente dappertutto: nelle campagne e nei sobborghi; ma noi, noi guardavamo ai nostri maestri, per fare come loro, e ai nostri genitori tristemente accosciati in un angolo, ma che talvolta si rialzavano per far ridere i padroni o per dar loro un’ordinazione di illusioni, di argomenti o di giustificazioni. Pagliacci e complici: ecco le arti dello Spirito! Di quando in quando ci pregavano di portare pazienza: presto il mondo si sarebbe salvato.

1 Évariste Gallois (1811-1832) è stato un matematico francese di ideali repubblicani, morto poco più che ventenne in una sfida a duello, ma in circostanze ancora misteriose.

2.

Immaginatevi ora noi a vent’anni, mollati in un mondo inflessibile, muniti di poche arti ornamentali, quali il greco, la logica, e un vocabolario annacquato che neppure ci dà l’illusione di vedere chiaro, sperduti nella galleria delle macchine dei nostri padri, dove ogni angolo mal illuminato dissimula scontri cruenti, guerre coloniali, terrore bianco nei Balcani e assassinii americani applauditi dalle mani di tutti i francesi; la spaventosa ipocrisia degli uomini al potere non riesce a velarci la presenza di sciagure che noi non comprendiamo: sappiamo soltanto che queste sciagure esistono e che...

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