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Connessioni tra discipline, saperi e culture

Giulio Xhaet

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  1. 192 páginas
  2. Italian
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  4. Disponible en iOS y Android
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Connessioni tra discipline, saperi e culture

Giulio Xhaet

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Citas

Información del libro

Muoversi tra discipline, saperi e culture diverse: una capacità che sta acquisendo sempre più importanza rispetto al passato.Sono nate università e scuole di formazione dove la contaminazione viene praticata e che si stanno rivelando le più adatte per affrontare le sfide dei nostri tempi.I contaminati sono la risposta a una vita professionale più lunga, intensa e incerta.Sono la risposta umana all'intelligenza artificiale che spopola nelle aziende. Le loro qualità sono sempre più richieste, perché riescono a spingersi in luoghi inaccessibili agli algoritmi.Questo libro è dedicato a chi ama le diversità e non vuole smettere di imparare, a chi si mette a caccia di connessioni inaspettate, a chi desidera collegare le proprie passioni al lavoro, a chi sfrutta il digitale come un nuovo terreno di gioco ibrido tra tecnica e umanistica, a chi vuole sviluppare il proprio "quoziente di contaminazione".

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Información

Editorial
Hoepli
Año
2020
ISBN
9788820395865
Categoría
Business
CAPITOLO 1
ATOMI SCHERMATI. BIT SFOGLIATI
LA VITA DI UNA PERSONA SI È FATTA PIÙ LUNGA, E più intensa.
Si passa dall’infanzia all’adolescenza molto prima, e si diventa anziani molto dopo. Qualcuno obietterà che l’adolescente non diventa più adulto. Ma solo se intendiamo ‘l’adulto’ nel senso novecentesco del termine, quando un individuo aveva meno scelte, le nuove generazioni stavano meglio delle precedenti, e la rivoluzione digitale attendeva ancora all’orizzonte.
Anche il “vecchio adolescente” del nuovo millennio deve cercare un lavoro, e spesso lo fa da vecchio adolescente precario: le classiche regole per intraprendere un percorso professionale stanno cedendo. Regole nuove che funzionino davvero, nessuno le ha ancora messe a terra.
Abbiamo anche più tempo per invecchiare. Da anni Amazon e Google investono nel sistema sanitario per servire una fascia di individui che lavoreranno più tempo rispetto al passato, e che anche in pensione avranno energie e voglia di impegnarsi in nuovi progetti.
Più lunghezza, e soprattutto più densità. La tratta dai 20 a i 70 anni nel secolo scorso si presentava lineare, e prevedeva un numero di fermate intermedie che si riusciva a contare con le dita di una mano. Poi, a un certo punto, gli scali e le coincidenze hanno preso a moltiplicarsi.
Oggi hai giusto il tempo di sistemare i bagagli ed ecco che il paesaggio dal finestrino già ti osserva come a proporti di saltare giù e cambiare il biglietto. Raggiungiamo più successi, a volte minuscoli a volte importanti, e ci schiantiamo su più fallimenti.
Cambiare non sempre è più facile, ma è più fattibile. Di conseguenza, la tentazione di fuggire da ciò che siamo e abbiamo in un momento qualsiasi della vita si affaccia da ogni angolo. Il cambiamento è insieme la condanna e la salvezza di quest’epoca. Lo spirito dei tempi, lo Zeitgeist di tre-quattro generazioni che coabitano il mercato del lavoro, scalpitando frenetiche e disincantate.
Inutile lamentarsi o voler tornare indietro, perché indietro non si torna. Così come è folle evangelizzare il cambiamento fine a se stesso, perché tra le sue pieghe si nascondono i mostri: stress, ansia, angoscia, depressione. Bisogna capire come farselo amico questo dannatissimo cambiamento, andarci d’accordo, giocarci insieme e addomesticarlo.
E fin qui, diciamocelo, niente di nuovo. Poi una sera ho rivisto un vecchio amico.
BASTARDI MEZZOSANGUE
Durante gli ultimi dodici mesi ho trascorso molto tempo in compagnia di professionisti e imprenditori. Persone che hanno iniziato negli anni Settanta, Ottanta, Novanta o nei primi Duemila. Quando entravo in confidenza, diventavo curioso e chiedevo come avessero vissuto i mutamenti degli ultimi anni. Un fatto mi ha stupito subito: quanto le opinioni fossero polarizzate. Da una parte gli alfieri dei “bei tempi andati a misura d’uomo”, dall’altra gli entusiasti del futuro.
Molti si sono dovuti reinventare da zero, cambiando non solo azienda, ma a volte attività, settore, riabilitando la propria esistenza. Altri con ostinazione hanno cercato di trasformare una passione nata per curiosità in qualcosa di più solido. Ho visto gruppi di amici dirsi “ma perché no?” lanciandosi in avventure apparentemente improbabili e in qualche modo riuscire a portare a casa dei risultati. Tra cui il più importante: svegliarsi la mattina con il sorriso largo e l’animo leggero.
Un’altra cosa mi ha stupito, più particolare della prima. Una costante che ho iniziato a notare, in particolare tra i reiventati e gli appassionati: sapevano o avevano imparato a muoversi in campi diversi, anche molto distanti tra loro.
Forse era una mia impressione.
Poi, come ho detto, rividi il mio vecchio amico. Non lo incontravo e non lo sentivo da oltre un lustro. Capite bene che di questi tempi di solitudine interconnessa il primo fatto sia comune, il secondo raro. Per questo eravamo affamatissimi di conversazione, brindisi e risate.
“Così appena finita informatica inizio a fare il web designer, poi parto per Londra e lavoro in un’agenzia di marketing, e ora sono tornato a cercare finanziamenti per mettere in piedi un’agenzia per la sostenibilità ambientale. Non è facile, lo sai. Ma ci credo in questa agenzia. Sono convinto del suo scopo.”
Mi guardò, con il suo solito sorriso beffardo.
“Lo sento ripetere da un sacco di gente. Trentenni, quarantenni, cinquantenni. Ci sono quelli che si lamentano: il mondo è frenetico, si sta infilando in un buco nero privo di umanità, eccetera eccetera.”
“Cioè quelli che vorrebbero tornare indietro?”, gli chiesi.
“In parte. O che vorrebbero cambiare di nuovo tutto. Ma non sanno come. Poi ci sono quelli come te, che si lanciano, che si infilano dentro ai cambiamenti come spifferi sotto le porte.”
“Le tue solite metafore eleganti… mi sento una palla di polvere.”
“Non sto scherzando. Ultimamente incontro persone che cambiano settore con cognizione di causa, in modo diverso dal solito. Anche tu sembri capace a muoverti a cavallo tra le cose.”
Fece una pausa. Me la ricordo, la sua pausa.
“Vuoi sapere come mi sento, professionalmente parlando? Un bastardo. Come quel tale della serie TV con i draghi di cui parlano tutti.”
Conosco Games of Thrones, quindi risposi: “Jon Snow?”.
“Esatto. Ha imparato a cavarsela partendo senza radici, ha messo insieme cose diverse. Un po’ da una casata, un po’ da un’altra. Un ibrido, sempre in movimento. Appartiene a se stesso, a nessuna casata, a nessun continente.”
Gli ibridi non hanno mai goduto di grande reputazione. Come scoprii qualche settimana dopo, ibrido deriva dal latino hybrida, cioè “bastardo” o “mezzosangue”, che a sua volta arriva dal greco hybris: “eccessivo” o “indegno”.
“Sarà”, lo canzonai io, “ma lo sai come è finita. Altro che bastardo, aveva più sangue blu lui nelle vene che birra tu in corpo in questo momento”.
“Lascia perdere draghi e meta-lupi, torniamo sulla terra. Ancora non l’hai capito che le persone ibride sono tra le meglio sintonizzate con il mondo degli ultimi anni?”
“Inizio a sospettarlo”, ammisi.
“Anche tu sei un ibrido. Forse è l’unica cosa che sai fare”, rise, “dovresti scriverci uno dei tuoi libri.”
“E intitolarlo… Gli ibridati?”
“Puoi fare di meglio.”
“Mmm… Ci penserò su.”
“Bravo.”
Quella sera tornai a casa tardi, perché il tempo passato con un amico ritrovato è merce preziosa.
Ma ci andai di corsa, perché dovevo assolutamente iniziare queste pagine.
QUADERNI E BICICLETTE
Mi svegliai alle cinque per la pioggia battente sui vetri. Iniziai a studiare il soffitto. Le gocce d’acqua si schiantavano dolcemente sul mondo fuori. Un miscuglio di vecchi ricordi rimasti sottochiave da decenni si mescolò a memorie recenti, alle quali non avevo attribuito particolare importanza.
Uno dopo l’altro gli elementi si collegarono tra loro, svelandomi una mappa tanto evidente quanto sorprendente.
Di seguito gli snodi principali.
Sono undicenne in bicicletta, mentre sfreccio da Biella al lago di Viverone: più di 30 chilometri di strada (quando i miei genitori lo scoprirono, io scoprii cosa significassero le parole “punizione olimpionica”). Un pensiero improvviso mi investe come una libellula in pieno volto: “Allora, io da grande voglio fare lo scrittore di fantascienza, e poi voglio fare l’inventore di giochi da tavolo, e poi il musicista rock! Quindi… mi toccherà fare l’inventore-musicista-scrittore. Ottimo, domani devo capire come si fa”. Dopo una manciata di curve me ne dimentico, non è mica tempo di imbastire simili progetti. A 11 anni il futuro si conta ancora in minuti e l’orizzonte in metri. Ho di meglio da fare che andare avanti con riflessioni da mini-startup-di-me-stesso.
Sedicenne, nella mia cameretta. Sto compilando con cura il mio quaderno più prezioso. Suddiviso in categorie e sottocategorie per ordine alfabetico, aggiorno costantemente e in tempo reale i dati statistici delle cose davvero importanti: i CD di musica rock che sono riuscito ad acquistare, quelli che mi mancano ancora, quelli in uscita, quelli stranieri e quelli italiani, quelli che mi hanno sorpreso e quelli che mi hanno schifato, divisi per genere, sottogenere, nazionalità. Obiettivo: cercare correlazioni per capire il CD giusto da comprare (i soldi scarseggiano e una scelta sbagliata significa un errore fatale). Non sono certo un analista, ma mi piace impilare liste e tabelle, mi piace aggregare le informazioni: penso che potrei fare l’informatico, forse quello è il mio destino. C’è solo un problema: mi piace anche suonare.
Dalla maggiore età a circa 24 anni. Con alcuni amici metto in piedi una band e, nonostante una voce mediocre (se l’X-factor vocale è qualcosa di innato, allora io sono nato senza), a forza di provarci e riprovarci riusciamo a strappare un contratto discografico importante: il successo sembra a portata di mano. Per diversi motivi, il sogno non si avvera (tra questi: l’arrivo del digitale che decide di scardinare per primo proprio il settore musicale). È il fallimento più clamoroso del mio passato, e quello più utile per il futuro. Mentre dedico le giornate alla musica sviluppo una competenza “secondaria”: l’uso dei social media per comunicare le attività della band.
Intorno ai 25. Nel mentre scrivo dei racconti, e le prime bozze di quello che diventerà un romanzo. Se la musica è una medicina che permette di sfogarmi, la scrittura appaga la necessità di introspezione. Nasce poi un esperimento ibrido: da una decina di racconti provo a estrarre dei testi, che diventano canzoni. Collaborando con alcuni amici (tra cui un bravissimo ex docente di letteratura), mettiamo in piedi uno spettacolo dove leggiamo alcuni racconti e suoniamo le canzoni che ne sono scaturite. Da lì scrivo una sceneggiatura teatrale, imbastendo una storia collegata ai racconti e alle canzoni dello spettacolo.
29 anni. Inizio a lavorare nel digitale.
Qui la mappa si srotola sul soffitto sotto la pioggia, nel mattino di un anno fa.
Mi rendo conto che ciò che so fare lo devo in gran parte alle esperienze e alle attitudini “collaterali” che ho sviluppato. Ecco alcune tra le zone della mappa dove emergono questi collegamenti:
ho imparato a usare i social media per la band, così sono finito a gestirli per un’agenzia di comunicazione;
mi piaceva buttare giù liste, analizzare dati e scoprire correlazioni: così ho integrato i social media con la web analytics e il digital marketing;
ho imparato a stare sul palco, scoprendo poi che un palco musicale non è così diverso dai palchi della formazione delle business school e delle academy aziendali;
ho co-fondato una band, e poi due startup: una fallisce, la seconda viene acquisita;
da piccolo provavo a inventare giochi da tavolo, poi ho scritto un romanzo e una sceneggiatura. Oggi lavoro in Newton, un’azienda che sviluppa prodotti innovativi per la formazione: in parte esperienze immersive, in parte serie online in stile Netflix che sfruttano ambienti narrativi scritti a più mani tra persone con competenze di consulenza manageriale, scrittura, psicologia, filosofia, regia, drammaturgia.
Cosa ho fatto in questi quasi quattro decenni? In maniera più o meno inconsapevole mi sono mosso a cavallo tra settori e gruppi di persone molto diversi tra loro. Amo mixare e remixare capacità in settori che a volte non si parlano. Mi piace far incontrare persone in gamba da ambiti diversi, e godo come un matto quando quelle persone vanno d’accordo.
A furia di comportarmi in questo modo, ho sviluppato una certa esperienza nel collegare puntini che se ne stanno lontani per i fatti loro. A volte nella mia testa, a volte in un progetto, a volte in un team di lavoro. Non dico di riuscire sempre a combinare qualcosa di buono. Tante volte sbaglio, perdo tempo, prendo cantonate. Ma chi ha mai detto che debba essere facile?
Allenando la mia porosità tendo ad assimilare e rimescolare con una certa frequenza ambiti, competenze, persone.
Come il mio amico, come altre persone che ho conosciuto, mi sento un ibrido, un bastardo.
Mi sento un contaminato.
Un’emergente necessità interdisciplinare
“Contaminare” deriva dal verbo latino tange...

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