Un antidoto contro la solitudine
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Un antidoto contro la solitudine

David Foster Wallace, Sara Antonelli, Francesco Pacifico, Martina Testa

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Un antidoto contro la solitudine

David Foster Wallace, Sara Antonelli, Francesco Pacifico, Martina Testa

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La brillante originalità dello stile, e soprattutto la capacità di raccontare in maniera commovente e acuta le contraddizioni del nostro tempo - sia in forma narrativa che saggistica - hanno fatto di David Foster Wallace uno scrittore ammirato dai critici e amatissimo dai lettori. Benché la sua morte abbia tragicamente posto fine alla sua produzione letteraria, questa raccolta di interviste e conversazioni che ne ripercorre l'intera carriera ci permette di ascoltarne ancora una volta la voce. Dialogando di volta in volta con brillanti critici letterari, giovani editor o altri scrittori (fra cui un romanziere di culto come Richard Powers), Wallace racconta e analizza spassionatamente le proprie opere, espone le sue idee sulla scrittura e la letteratura, si lascia andare a commenti sulla società e la cultura americana e occidentale in genere: ne esce il ritratto di un intellettuale curioso e appassionato, lucidamente critico rispetto a se stesso e alla realtà contemporanea ma anche animato da un autentico amore per il suo lavoro e da una straordinaria generosità verso il lettore.

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Información

Editorial
minimum fax
Año
2018
ISBN
9788875215408

/
Un’intervista estesa
a David Foster Wallace

di Larry McCaffery
(1993)

Il tuo saggio che compare subito dopo questa intervista3 verrà letto da alcuni come una sostanziale difesa della televisione. Qual è la tua risposta alla tipica accusa secondo cui la televisione alimenta rapporti con versioni illusorie o simulate delle persone reali (Reagan ne è un esempio perfetto)?
Il mio è un tentativo di diagnosi complessiva, non una difesa. Il rapporto del pubblico americano con la tv è fondamentalmente puerile e di dipendenza, come tutti i rapporti basati sulla seduzione. Questa non è certo una novità. Ma quello che raramente si riconosce è quanto siano complesse e ingegnose le seduzioni della tv. Raramente si riconosce che il rapporto dei telespettatori con la tv è, per quanto degradato, comunque intricato e profondo. È facile, per gli scrittori di una certa età, lagnarsi dell’egemonia della tv sul mercato culturale americano, dire che il mondo è andato completamente a puttane, scrollare le spalle e fermarsi lì. Ma trovo che gli scrittori più giovani abbiano il dovere di darsi una spiegazione più articolata del motivo per cui la tv è diventata una forza così dominante nella coscienza della gente, anche solo per il fatto che noi sotto i quarant’anni abbiamo fatto parte per tutta la nostra vita cosciente del pubblico televisivo.
La tv sarà anche più complessa di quanto la gente in genere riesca a capire, ma raramente pare che tenti di mettere alla prova o disturbare il suo pubblico, come invece mi hai scritto che desideri fare tu. È questo senso di sfida e di dolore che rende la tua opera più «alta» della maggior parte dei programmi televisivi?
Uno dei miei insegnanti, che stimavo molto, diceva sempre che il compito della buona letteratura è tranquillizzare chi è turbato e turbare chi è tranquillo. Secondo me il compito della letteratura alta consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un po’ impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso, dicevo, tramite l’immaginazione, alla vita interiore di altri individui. Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro. Magari è tutto qui, semplicemente. Però a questo punto tieni presente che la tv e il cinema commerciale e tante forme di arte «bassa» – ossia arte il cui scopo principale è fare soldi – sono redditizi proprio perché capiscono che il pubblico preferisce un cento per cento di piacere alla realtà che tende a essere fatta per il 49 per cento di piacere e per il 51 per cento di dolore. Mentre l’arte «alta», quella che non punta principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere un derivato della fatica e del disagio. Perciò è difficile per il pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a livello intellettuale che di immaginario.
Chi ti immagini che siano i tuoi lettori?
Immagino che siano più o meno gente come me, suppergiù fra i venti e i quarant’anni, con quel tanto di esperienza o di istruzione che basta per essersi resi conto che la fatica che la letteratura alta richiede al lettore a volte viene ripagata. Gente che è cresciuta con la cultura di massa americana e ne è coinvolta, pervasa e affascinata, ma ha ancora fame di qualcosa che la produzione artistica più commerciale non può dare. Gli yuppie, direi, e i giovani intellettuali, o come vogliamo chiamarli. Sono queste, credo, le persone per cui scrivono un po’ tutti gli autori della mia età che ammiro: Leyner e Vollmann e la Daitch, Amy Homes, Jon Franzen, Lorrie Moore, Rick Powers, e anche gente come McInerney e Leavitt. Ma, lo ripeto, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a grandi cambiamenti nel modo in cui gli scrittori riescono a far presa sui lettori, in ciò che i lettori devono aspettarsi da ogni forma di arte.
Mi sembra che la cosa che ha modificato in maniera più drastica questo rapporto siano stati i media. È da così tanto tempo che forniscono alla gente cultura confezionata televisivamente che il pubblico ha disimparato a relazionarsi con la cultura alta.
Be’, è troppo facile starsene semplicemente lì a torcersi le mani dicendo che la tv ha rovinato i lettori. Perché la cultura televisiva americana non è nata dal nulla. Quello che la tv è estremamente brava a fare – e rendiamocene conto, non fa altro che questo – è individuare ciò che grandi masse di persone credono di volere, e fornirglielo. E dato che nella cultura americana c’è sempre stato un tipico e fortissimo rifiuto della frustrazione e della sofferenza, la tv le eviterà come la peste in favore di qualcosa che sia facile e anestetico.
Pensi davvero che questo rifiuto sia tipicamente americano?
Mi sembra tipico dell’Occidente industrializzato, quantomeno. In moltissime altre culture, se uno soffre, se ha un sintomo che gli causa sofferenza, lo si considera sostanzialmente qualcosa di sano e naturale, un segnale del fatto che il sistema nervoso sa che c’è qualcosa che non va. Per queste culture, liberarsi dal dolore senza affrontare la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d’allarme mentre l’incendio divampa ancora. Ma basta guardare la miriade di modi in cui in questo paese cerchiamo disperatamente di alleviare quelli che sono semplici sintomi – dai farmaci contro l’acidità di stomaco a effetto ultra-ultrarapido alla popolarità dei musical spensierati durante la Grande Depressione – e si vede una tendenza quasi compulsiva a ritenere che il problema sia il dolore in quanto tale. E così il piacere diventa un valore, un fine teleologico in sé e per sé. Probabilmente è più una cosa occidentale che soltanto americana. Se prendiamo l’utilitarismo – una teoria etica spiccatamente anglosassone – vediamo un’intera teleologia basata sull’idea che la migliore vita umana possibile è quella che raggiunge il più alto tasso di piacere rispetto al dolore. Oddio, lo so che il mio sembra un discorso da bacchettone. Ma voglio solo dire che dare la colpa alla tv è un atteggiamento miope. La tv è solo un sintomo come tanti altri. Non è stata la tv a inventare il nostro infantilismo estetico, così come non è stato il Progetto Manhattan a inventare l’aggressività. Le armi nucleari e la tv hanno semplicemente intensificato le conseguenze delle nostre tendenze, hanno alzato la posta in gioco.
Verso la fine di «Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso», ci sono un paio di righe su Mark in cui dici: «Ci vorrebbe un architetto capace di odiare abbastanza da appassionarsi abbastanza da amare abbastanza per commettere quel tipo particolare di crudeltà che solo un vero innamorato sa infliggere». È questo il tipo di crudeltà che ti sembra mancare nella scrittura di uno come Mark Leyner?
Mi sa che a questo punto devo chiederti a che tipo di crudeltà pensi che si riferisse il narratore.
Mi sembra che ci sia dietro l’idea che se uno scrittore ha abbastanza a cuore il suo pubblico – se lo ama abbastanza, e se ama abbastanza la propria arte – deve essere crudele nelle proprie pratiche di scrittura. «Crudele» come lo è un sergente addestratore dell’esercito quando decide di far passare le pene dell’inferno a un gruppo di reclute appena arrivate, sapendo che il trauma che sta infliggendo a quei poveracci, sul piano emotivo, fisico, psichico, è solo parte di un processo che alla lunga li renderà più forti, li preparerà a cose che ancora non riescono neanche a immaginare.
Be’, a parte la questione di che cazzo di autorità abbiano gli «artisti» per decidere loro al posto dei lettori per che cosa i lettori devono essere preparati, la tua idea mi sembra abbastanza aristotelica, no? Cioè, per te qual è lo scopo del creare un’opera letteraria? È sostanzialmente un’attività mimetica, volta a catturare una realtà proteiforme e darle ordine? O davvero dev’essere un’attività terapeutica nel senso aristotelico del termine?
Sono d’accordo con quello che hai detto in «Verso Occidente» sul fatto che la letteratura alta deve mettere in gioco una serie di esperienze: ad esempio, non può essere semplicemente «metanarrativa», deve vedersela con il mondo al di fuori della pagina, e in tanti modi diversi. Che differenza c’è fra i tuoi sforzi in questa direzione e quelli richiesti in genere dalla televisione o dalla narrativa commerciale?
Questo potrebbe essere un modo per cominciare a parlare delle differenze fra i primi scrittori postmoderni degli anni Cinquanta e Sessanta e i loro discendenti attuali. Quando un attimo fa hai letto quel breve passo di «Verso Occidente», mi è sembrato un velato compendio dei miei più grossi punti deboli di scrittore. Uno è che nutro una forma di affetto volgarmente sentimentale per le battute, per la roba che serve solo e soltanto a far ridere, e che a volte infilo nei miei libri senz’altro motivo che la spiritosaggine. Un altro è che a volte ho difficoltà a essere conciso, a comunicare solo lo stretto necessario in un modo spiccio ed efficiente che non richiami l’attenzione. Sarei patetico se dessi la colpa dei miei difetti a qualcosa di esterno, ma mi sembra comunque che tutti e due questi problemi si possano ricondurre all’esperienza schizogenica che ho vissuto da ragazzino, quando da una parte avevo la passione dei libri e leggevo un sacco, e dall’altra guardavo quantità mostruose di tv. Dato che mi piaceva leggere, probabilmente non guardavo la tv tanto quanto i miei amici, ma me ne sparavo comunque una megadose giornaliera, credimi. E penso che sia impossibile passare tante ore dei propri anni formativi imbambolato a bocca aperta davanti a una forma d’arte commerciale con un filo di bava che ti cola dalle labbra senza interiorizzare l’idea che uno degli obiettivi principali dell’arte sia semplicemente quello di intrattenere, di donare alla gente puro e semplice godimento. Sennonché: a quale scopo viene donato tutto questo godimento? Perché, com’è ovvio, il vero intento della tv è quello di piacere, in quanto se ti piace quello che guardi non cambierai canale. La tv è totalmente spudorata nell’ammetterlo: è la sua unica ragion d’essere. E a volte guardando le cose che scrivo mi sembra di aver assorbito fin troppo questa ragion d’essere. Mi sorprendo a inventare battute o a tentare esercizi di acrobazia formale e mi accorgo che niente di tutto ciò è davvero al servizio della storia in sé; serve allo scopo ben più sinistro di comunicare al lettore: «Ehi! Guardami! Dai un’occhiata e guarda che bravo scrittore che sono! Voglio piacerti
Ora, in un certo senso non c’è modo di sfuggire del tutto a questa dinamica, perché un autore ha bisogno di dimostrare una qualche forma di abilità o di merito, se vuole conquistarsi la fiducia del lettore. Fra lettore e scrittore c’è uno strano, delicato rapporto basato sul «mi fido del fatto che non mi fregherai», ed è compito di tutti e due tenerlo vivo. Ma c’è un confine impossibile da ignorare fra il dimostrare abilità e incantare il lettore per far guadagnare credibilità alla propria storia, e il semplice mettersi in mostra. Può diventare un continuo tentativo di farsi apprezzare e ammirare dal lettore, invece che un tentativo di creazione artistica. Credo che la tv promuova l’idea che l’arte migliore è quella che rende il pubblico affascinato e dipendente dal veicolo stesso attraverso cui l’arte gli arriva. Questa mi sembra una lezione pericolosa per un aspirante artista. E una delle tante conseguenze è che se l’artista diventa troppo dipendente dal semplice piacere, così che il suo vero scopo non sta più nell’opera in sé ma nell’opinione favorevole di un certo pubblico, in lui nasce una tremenda ostilità verso quel pubblico, semplicemente perché gli ha ceduto tutto il suo potere. È la ben nota sindrome di amore-odio propria della seduzione: «Non mi importa quello che dico, mi importa solo che piaccia a te. Ma dato che l’opinione che hai di me è il solo parametro del mio successo e del mio valore, tu hai un potere immenso su di me, e per questo ti temo e ti odio». Una dinamica del genere non è propria soltanto dell’arte. Ma mi sembra di vederla spesso all’opera in me e in altri giovani scrittori, che hanno questo disperato desiderio di piacere unito a una specie di ostilità verso il lettore.
Nel tuo caso, come si manifesta questa ostilità?
Be’, non sempre, ma a volte sotto forma di frasi che non sono scorrette sintatticamente, ma comunque faticosissime da leggere. O nel fatto di martellare il lettore di dati. O nell’investire un sacco di energia per creare certe aspettative e poi godere nel deluderle. Lo si vede chiaramente in un libro come American Psycho di Ellis: per un bel pezzo compiace sfacciatamente il sadismo del pubblico, ma alla fine appare chiaro che il vero oggetto del sadismo è il lettore stesso.
Ma almeno nel caso di American Psycho mi è parso che ci fosse qualcosa di più del semplice desiderio di infliggere dolore; o che comunque Ellis utilizzasse lo stesso tipo di crudeltà di cui hai detto che dovrebbero essere capaci gli artisti seri.
Dicendo questo, mostri quel genere di cinismo che permette che i lettori vengano manipolati dalla scrittura mediocre. Secondo me è una sorta di cupo cinismo verso il mondo di oggi quello da cui dipendono Ellis e altri per far presa sul pubblico. Senti: se il mondo contemporaneo fa disperatamente schifo, se è insulso, materialistico, emotivamente ritardato, sadomasochistico e stupido, possiamo senz’altro sfangarla (io e qualunque altro scrittore) creando alla bell’e meglio storie piene di personaggi stupidi, superficiali, emotivamente ritardati; e non ci vuole molto, perché quel genere di personaggi non richiede nessuno sviluppo. O descrizioni che siano semplici liste di prodotti di marca. Romanzi in cui gente stupida si dice cose insignificanti. Se quello che ha sempre contraddistinto la cattiva scrittura – la piattezza dei personaggi; un mondo narrativo fatto di cliché e non riconoscibile come umano, ecc. – è anche ciò che contraddistingue il mondo di oggi, allora un brutto romanzo diventa la geniale mimesi di un brutto mondo. Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora Ellis può scrivere un romanzo cattivo, stupido e superficiale che diventa un commento ironico e tagliente sulla bruttezza di tutto ciò che ci circonda. Ascolta, probabilmente siamo d’accordo un po’ tutti sul fatto che questi sono tempi bui, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di una letteratura che non faccia altro che mettere in scena il buio e la stupidità del tutto? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra piuttosto che sia la capacità di individuare e rivitalizzare gli elementi di umanità e di magia che ancora vivono e risplendono nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vuole, ma troverà sempre un modo sia per descrivere questo mondo cupo, sia per mettere in luce le possibilità di viverci dentro da veri esseri umani. Si potrebbe difendere American Psycho interpretandolo come una specie di summa dimostrativa dei problemi sociali di fine anni Ottanta, ma non è più che questo.
Stai dicendo che gli scrittori della tua età hanno l’obbligo non solo di descrivere la nostra situazione, ma anche di fornire le soluzioni a certi problemi?
Non sto parlando di soluzioni basate sull’intervento politico o sociale in senso tradizionale. La letteratura non si occupa di questo. La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile vivere da veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è mettere in scena le cause di questa difficoltà. Ma l’altra metà è mettere in scena il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo. Questo non significa che il compito della letteratura sia edificare o insegnare, fare di noi tanti piccoli bravi cristiani o repubblicani. Non sto cercando di seguire le orme di Tolstoj o di John Gardner. Penso solo che la letteratura che non esplora quello che significa essere umani oggi non sia vera arte. Abbiamo tanta narrativa «di qualità» che si limita a ripetere con voce monotona che stiamo perdendo sempre più la nostra umanità, e che presenta personaggi senz’anima e senza amore, personaggi la cui descrizione si può esaurire nell’elenco delle marche di abbigliamento che indossano, e noi leggiamo questi libri e diciamo: «Wow, che ritratto tagliente ed efficace del materialismo contemporaneo!» Ma che la cultura americana sia materialistica lo sappiamo già. È una diagnosi che si può fare in due righe. Non è stimolante. Ciò che è stimolante e ha una vera consistenza artistica è, dando per assodato che il presente sia grottescamente materialistico, cercare di capire questo: come mai noi esseri umani abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità, sentimenti di autentico legame, per cose che non hanno un prezzo? E queste capacità si possono far crescere? Se sì, come, e se no, perché?
Non tutti, nella tua generazione, stanno prendendo la strada di Ellis. Tutti e due gli altri scrittori che presentiamo in questo numero della Review of Contemporary Fiction sembra che stiano facendo esattamente quello che dici tu. Quindi, per esempio, anche se I racconti dell’arcobaleno è un libro a suo modo altrettanto sensazionalistico di American Psycho, lì c’è il tentativo di descrivere quelle persone non come stereotipi piatti e disumanizzati, ma come esseri umani. Sono d’accordo, però, sul fatto che molti scrittori di oggi, nel portare sulla pagina per...

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