Le figlie delle catastrofi
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Le figlie delle catastrofi

Un'etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh

Silvia Vignato

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Le figlie delle catastrofi

Un'etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh

Silvia Vignato

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Che adulti diventano i bambini cresciuti in tempo di catastrofe e ricostruzione? Quali effetti hanno sia il periodo di sofferenza, sia le strategie di salvataggio e sostegno sociale che le società locali mettono in opera per loro?Seguendo le vite di bambine e adolescenti cresciute in Aceh (Indonesia) dopo il terribile tsunami del 2004, alla fine di una lunga guerra civile (1975-2005), questo libro esamina il costituirsi intimo della marginalità sociale attraverso le ideologie e le pratiche di ricostruzione designate a scongiurarla. La povertà economica, la discriminazione di genere, il commercio del corpo sessuale e lo sfruttamento lavorativo di alcune giovani acehnesi appaiono infatti non solo inevitabili, ma proprio strutturali al contesto di distruzione e di riprogettazione sociale nel quale crescono le ragazze. Non si tratta tuttavia di un'etnografia della disperazione. Il libro, forte di una ricerca decennale, presenta persone capaci di reinterpretare strutture tradizionali e capovolgimenti contemporanei con creatività. Come fanno?, ci si chiede. La riflessione sullo sviluppo di una personalità vitale conduce alla definizione di un "sé mobile", capace di svicolare fra le matrici simboliche trasformative di catastrofe e ricostruzione senza perdersi e senza rinunciare a compiere buone scelte.

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Información

Editorial
Ledizioni
Año
2020
ISBN
9788855263719

Capitolo 1
I bambini salvati

“Cosa intendi dire, “prima dello tsunami”? Che ne so. Sai com’è quando sei piccolo, mica ti spiegano quello che succede. Ti portano di qua e di là”.
(Faizol, 9 anni nel 2008)
“Prima? Ah prima c’era la mamma”
(Fitria, 16 anni nel 2008).
“La pace? Boh. È stato tanto tempo fa. Ero ancora piccola. Era una volta, quando eravamo ancora al villaggio. Non il villaggio di mia mamma, un altro. Quando c’era la guerra si cambiava sempre casa”
(Ati, 9 anni nel 2008).
Il 24 dicembre 2004 un’onda gigantesca, da allora comunemente nota con il suo nome giapponese, tsunami, si è sollevata dall’Oceano Indiano e abbattuta sulle coste di Aceh. Su una popolazione di circa 4.500.000 abitanti sono morti o dispersi, così si stima oggi, circa in 200.000 (Doocy et al., 2007). Case, strade, scuole e ponti sono stati divelti e i sopravvissuti si sono ritrovati in un paesaggio devastato. Poveri o soli, moltissimi bambini e adolescenti hanno vissuto lo tsunami come l’inizio di un percorso comune di affidamento a nuove figure, o entità, di accudimento: genitori o parenti adottivi, istituzioni umanitarie e soprattutto, scuole coraniche (dayah o pesantren).
Non erano gli unici entrati in questo percorso di crescita a causa di una catastrofe collettiva. Dal 1974 al 2005, Aceh ha vissuto una guerra di resistenza conclusasi qualche mese dopo lo tsunami, nell’agosto del 2005, dopo una lunga trattativa in parte accelerata proprio dall’improvvisa attenzione mediatica internazionale dovuta allo tsunami stesso. Per trent’anni, una parte degli Acehnesi aveva combattuto contro l’esercito indonesiano nel nome del diritto all’autodeterminazione e al controllo delle risorse1. Il conflitto ha raggiunto le sue fasi più cruente dopo il 1998, nascosto ai media internazionali e, su quelli indonesiani, ridotto a scaramuccia di terroristi invasati. Poiché i resistenti erano accusati di essere una minaccia per l’intera popolazione, l’esercito li stanava casa per casa, rastrellando i sospetti. I villaggi venivano perquisiti, razziati e bruciati. La gente spariva e nelle aree più colpite, circolare era diventato molto pericoloso: uscire a coltivare i campi era un rischio, procurarsi il cibo un problema. Nelle città vigeva il coprifuoco. Poiché la regione (in indonesiano, propinsi) di Aceh era stata dichiarata zona di guerra (Daerah Operasi Militer, DOM, 1989-19982), non vi si poteva accedere liberamente e i non Acehnesi, a maggior ragione se stranieri, dovevano avere un permesso di ingresso e di circolazione. Così chiusa e repressa l’intera regione, di per sé ricca di ogni sorta di risorse agricole, minerarie e ittiche, versava in grande povertà.
Così come lungo le coste devastate dallo tsunami, anche nelle zone maggiormente colpite dal conflitto – in qualche caso si trattava delle stesse aree – molti bambini venivano messi al sicuro nelle istituzioni: o perché genitori troppo poveri e insicuri li portavano da un’autorità islamica (almeno mangiavano, studiavano e l’esercito li lasciava in pace) o, più crudamente, perché i genitori non c’erano più e qualcuno li accompagnava lì.
Dopo lo tsunami, tutti i bambini “salvati” dall’una e dall’altra catastrofe, di natura molto diversa, sono confluiti nelle stesse istituzioni. Se le vittime adulte dei due disastri sono state separate nelle intenzioni degli aiuti umanitari, per i bambini questo non è valso. Posti al cuore dell’aiuto umanitario, questi bambini sono cresciuti nella cultura del dopo-disastro che hanno incarnato e traghettato nel contesto attuale, pacificato e ricostruito3, tutti uniformemente diventati vittime e ufficialmente in diritto di ricevere aiuto.
In questo capitolo, delineerò alcuni elementi atti a cogliere gli snodi esistenziali nella vita di alcuni di questi, oggi, giovani adulti. Descriverò la costruzione sociale del bambino-vittima e il ribaltamento e la riappropriazione di questo status che i bambini istituzionalizzati effettuano, anche grazie all’uso pratico dell’idea di trauma. Stabilirò la relazione importante fra la condizione di vittima, di orfano e di povero e la userò per mostrare l’articolarsi della crescita di tre bambine diversamente interessate dallo tsunami e dalla guerra.

Catastrofi sincrone

Per inquadrare la cultura acehnese del “dopo-disastro” è importante esaminare l’idea stessa di disastro, o catastrofe. Ciò è particolarmente rilevante nel caso di Aceh per l’esemplarità della doppia sciagura che l’ha colpita: catastrofe di intera origine umana e di lunga durata, come la guerra, e catastrofe ambientale fulminea, come appunto lo tsunami4. Due ondate di morti collettive, di uccisori e uccisi, di salvati e dannati che sono emotivamente, concettualmente, simbolicamente e giuridicamente diversi. Due ondate anche di bambini salvati diversi: altro è essere in orfanotrofio per un disastro senza mandanti, altro per un disastro denso di intenzionalità violente (Beneduce, 2013, pos. 529-624). Invece, come già anticipato e come mostrerò ora in dettaglio, lo statuto di “figlio povero del disastro” alla fine in Aceh è stato uno solo.
Partiamo dal presupposto, oggi generalmente accettato nelle scienze sociali, che qualunque catastrofe è un processo politico-culturale sia nella sua causalità, sia nel suo accadimento e sia nella sua risoluzione o nelle politiche di riduzione del rischio che ne conseguono o la precedono (Hoffman, Oliver-Smith 2002, pp. 3-5). In questo senso, e in particolare considerando il peso delle morti umane quando ve ne siano, è fondamentale osservare l’ordine simbolico nel quale la catastrofe è collocata. Ciò che definisce un evento come catastrofico, infatti non è tanto la portata per così dire tecnica della distruttività quanto la “percepita distruzione dei dispositivi che assicurano il normale ottemperamento dei bisogni individuali e sociali di una comunità, necessari per la sopravvivenza fisica, per l’ordine sociale e il mantenimento del sistema di significati”5. La catastrofe, dunque implica il pensiero di ciò che è catastrofico per l’individuo in quanto essere sociale ed è, sempre, al contempo un evento distruttivo e implica il lavorio cognitivo ed emotivo necessario a comprenderlo, spiegarlo, opporvisi o farvi fronte.
La dimensione sociale è fondamentale perché per quanto straziante, un lutto individuale non costituisce una minaccia per l’insieme e non obbliga l’insieme a ripensarsi. In questo senso, si parla di resilienza sociale come della capacità collettiva di “recuperare la propria forma” dopo un evento traumatico, cioè di ripensarsi in quanto collettività e non dissolversi o andare allo sbando (Manyena, 2006, p. 439). La catastrofe quindi induce un gruppo a interrogarsi su quale sia la “propria forma”, quali siano i fondamenti che permettono al gruppo di identificarsi al di là dell’evento mortifero e quali figure li esprimano in grado esemplare (Guillou, Vignato, 2012).
Per riprendere una definizione classica dell’antropologia, una catastrofe dunque è un fatto sociale totale dove tutti i piani e le istituzioni di una data società vengono coinvolti (Ligi, 2009 loc. 807) in un modo specifico, che è proprio alla società in questione. È dunque un evento che “fa storia”, cioè determina temporalità, produce linguaggi e soggettività specifiche. Allo stesso modo, “fa cultura”. Le grandi catastrofi sono al contempo fondanti e trasformative, inseparabili da ciò che le segue.
Dal punto di vista dell’ordine simbolico, le catastrofi che comportano massicce morti collettive hanno alcune caratteristiche strutturali, dunque anche culturali, comuni (Clavendier 2004; Guillou, Vignato, 2012). Il conflitto armato e lo tsunami di Aceh possono dunque essere pensati insieme perché entrambi inducono pensieri e generano classi di esperienze emotive relative alla distruzione materiale e sociale e alla morte collettiva e, specularmente, alla sopravvivenza e al futuro come epoche migliori; entrambi generano una cesura temporale, un prima e un dopo che vengono riconosciuti come fondamentali nella società attuale; entrambi hanno originato politiche di ricostruzione e di progettazione sociale, cooptato capitali e generato nuovi discorsi che riguardano la totalità della popolazione. Questo, senza nulla levare all’impossibilità di ridurre l’una all’altra le loro cause scatenanti.
Insomma, le due catastrofi costituiscono l’una il contesto dell’altra. Infatti quando si dice che una catastrofe è sempre processuale e contestuale, si intende che non esiste mai in astratto, fuori dal tempo. Non c’è “il terremoto” o “lo tsunami” ma quel certo terremoto o quel particolare tsunami – e quel particolare tsunami di Aceh fu uno tsunami in una zona di guerra. Viceversa, quella zona di guerra si trasformò in una zona di disastro naturale prima di tornare a essere semplicemente una zona dell’Indonesia. La sincronia, in Aceh, dell’inizio della ricostruzione post-tsunami e della pacificazione, ha fatto sì che la similitudine delle sciagure dal punto di vista della morte collettiva e la differenza dal punto di vista delle responsabilità siano state concettualizzate, comparate e interpretate l’una in relazione all’altra, dai vari attori coinvolti: i sopravvissuti dello tsunami, gli ex-combattenti, le agenzie internazionali, i negoziatori della pace, il governo (o i governi) indonesiano.
Un aspetto della sincronia fra tsunami e guerra civile è l’uso politico della narrativa di sconvolgimento e morte. Le catastrofi “naturali”, secondo Oliver-Smith e Hoffman (2002 pp.3-8), sono spesso sottratte al discorso sociale e presentate come pre-discorsive, “naturali” nel senso di non umane. Questa naturalizzazione elimina le intenzionalità e le responsabilità, come se antropizzare un luogo o gestire le comunicazioni di prevenzione e allarme facessero anch’essi parte di un’inevitabile natura al pari dello scontro delle zolle tettoniche. In questo caso, una sorta di naturalizzazione è stata strategicamente operata dallo stato indonesiano sul piano mediatico nei confronti della guerra anche attraverso regimi politici e governi diversi. La repressione è potuta essere crudele e impunita solo grazie al controllo esercitato sulle informazioni e sulla circolazione delle persone. L’occultamento del conflitto dal discorso nazionale tramite il declassamento di vere operazioni militari a una serie di scaramucce di estremisti e il silenzio radicale sui massacri, uniti alla chiusura del territorio, hanno assimilato la guerra civile a una sorta di funzione caratteristica dei luoghi, come se un po’ di conflitto fosse tipico di Aceh quanto qualche scossa di terremoto. In questo modo, l’appropriazione dei giacimenti di gas, il lascito politico e culturale del sultanato di Aceh e la repressione armata escono di scena. Agli occhi del mondo, e a vantaggio dello stato indonesiano, lo tsunami ha, in seguito, facilmente inglobato il conflitto come anodina causa di distruzione, rendendo l’insieme della regione bisognoso di aiuto e ricostruzione e disvelando che, fra l’altro, c’era una guerra in corso.
Specularmente, sul piano locale, lo tsunami non è stato unicamente percepito come un evento sfortunato, imprevedibile e fondamentalmente casuale. Certo, a differenza di altre catastrofi naturali, era singolarmente privo di responsabilità dirette: per esempio, le aree colpite non erano oggetto di speculazione edilizia e i siti urbani abitati da secoli. A chi si poteva dare la colpa? Si può obiettare che il grado di vulnerabilità di una popolazione dipende non solo dalla vulnerabilità del territorio, ma anche dalle risorse cognitive che la società sa mobilitare per sfuggire a un pericolo (Ligi, 2013, pos 1582). L’esempio di come alcuni abitanti dell’isola di Nias seppero leggere i segni premonitori secondo la tradizione e salvarsi veniva spesso citato, nell’ambito umanitario, per mostrare come “la cultura” contenga sapere ambientale. Ma “la cultura” di Aceh non sembrava contenere indicazioni atte a evitare che la gente fosse travolta dall’onda. Gli Acehnesi cercavano invece un senso postumo, a morti avvenute. Le teodicee, cioè le spiegazioni dello tsunami inerenti a una giustizia divina, furono numerose, e legavano la catastrofe alla guerra. Da un lato, lo tsunami era una risposta divina alla degenerazione dei costumi che dunque andava sanata con una migliore realizzazione di una società islamica – proprio come richiesto dagli indipendentisti. Da un altro, era visto come una punizione divina per l’abominio di una lotta fra “fratelli” musulmani (Samuels 2012). Se lo stato indonesiano aveva messo sul conto della bellicosità naturale degli Acehnesi una guerra, molti Acehnesi si facevano carico della responsabilità morale dello tsunami ma soprattutto, l’addossavano alla ferocia dei Giavanesi: non solo perché Giava occupa una posizione centrale nello Stato indonesiano, ma anche perché l’esercito indonesiano (TNI: Tentara Nasional Indonesia) è largamente e storicamente costituito da Giavanesi. Lo tsunami diventava dunque il contenitore simbolico atto ad abbozzare un discorso sulle responsabilità politiche del conflitto.

Discorsi di ricostruzione

L’intreccio di piani interpretativi fra guerra e catastrofe naturale si è manifestato molto concretamente sin dai primi giorni dopo lo tsunami. Consideriamo la situazione sulle coste di Aceh il 26 dicembre 2004. Nessuno capiva niente, tutto era distrutto, i cadaveri erano ammassati ovunque e non c’erano comunicazioni. Mancava l’acqua potabile, tutti cercavano qualcosa o qualcuno. A qualche chilometro di distanza c’era la ...

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