Lettere a un giovane poeta
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Lettere a un giovane poeta

Rainer Maria Rilke

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Lettere a un giovane poeta

Rainer Maria Rilke

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Autunno 1902: Franz Xaver Kappus è un giovane cadetto dell'Accademia Militare, cui però, più della carriera nell'esercito, interessa comporre poesia. Scopre che Rainer Maria Rilke, uno dei suoi autori, uno di quelli le cui parole compulsa senza sosta, ha frequentato la stessa Accademia. L'occasione è troppo grande: manda alcuni versi al grande poeta il quale, dopo qualche settimana, risponde. È l'inizio di una lunga corrispondenza, che il Saggiatore pubblica per la prima volta nella sua interezza, completa anche delle lettere dello stesso Kappus: se le Lettere a un giovane poeta sono infatti diventate un libro di enorme diffusione, erano invece scomparse dalla storia editoriale le missive del giovane poeta medesimo, ridotto ad anonima controfigura. Si apprezzano così entrambi i lati di questo scambio: la richiesta di consigli di lettura e la maieutica sul comporre versi, i dubbi e le incertezze proprie di una gioventù inquieta e l'addestramento alla vita, gli insegnamenti di un uomo maturo a un giovane sui misteri del mondo, sulla solitudine esistenziale dell'uomo e sull'amore, redenzione in cui «due solitudini si custodiscono, delimitano e salutano a vicenda». Un dialogo in cui arte e vita si intrecciano di continuo, perché come scrive Rilke «l'arte è solo una maniera di vivere, e ci si può preparare a essa vivendo».

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Información

Editorial
Il Saggiatore
Año
2021
ISBN
9788865769171
Lettere

  • Franz Xaver Kappus a Rainer Maria Rilke
    Wiener Neustadt, tardo autunno 1902
    [La prima lettera non si è conservata.]

  • Rainer Maria Rilke a Franz Xaver Kappus
    Parigi, 17 febbraio 19031
    Egregio Signore,
    la sua lettera mi è giunta solo pochi giorni fa. Voglio ringraziarla per la sua grande e cara fiducia. Di più non posso. Sullo stile dei suoi versi non posso pronunciarmi, perché qualunque intento critico mi è troppo alieno. Le parole della critica sono le meno adatte in assoluto a sfiorare un’opera d’arte: nascono sempre malintesi, più o meno felici. Non tutte le cose si possono afferrare e dire come in genere vorrebbero farci credere; gli eventi sono per lo più indicibili, si compiono in uno spazio a cui la parola non ha mai avuto accesso, e più indicibili di ogni altra cosa sono le opere d’arte, esistenze misteriose, la cui vita perdura, accanto alla nostra, che invece trascorre.
    Fatta questa premessa, posso solo dirle che i suoi versi non hanno uno stile proprio, ma sommessi e velati accenni a qualcosa di personale. Lo avverto in modo particolarmente chiaro nell’ultima poesia, La mia anima.2 Lì c’è qualcosa di proprio che vuole esprimersi a parole, e trovare il modo. E nella bella poesia A Leopardi3 fa forse capolino una sorta di affinità con questo grande solitario. Eppure, di per sé, le poesie non sono ancora nulla, neanche l’ultima e quella dedicata a Leopardi. La lettera volenterosa che le accompagnava non manca di spiegarmi alcune carenze che ho avvertito durante la lettura dei suoi versi, senza che riuscissi tuttavia a dar loro un nome.
    Mi chiede se i suoi versi sono buoni. Lo chiede a me. Prima lo ha chiesto ad altri. Li manda alle riviste. Li confronta con altre poesie e si inquieta se certe redazioni respingono i suoi tentativi. Ora – giacché mi ha consentito di darle consigli – la prego di abbandonare tutto questo. Lei guarda all’esterno, cosa che, più di ogni altra, ora non dovrebbe fare. Nessuno può darle consigli e aiuto, nessuno. C’è un unico mezzo. Si immerga dentro di sé. Indaghi la ragione che le impone di scrivere; verifichi se affonda le sue radici nell’intimo del suo cuore, confessi a se stesso se le toccherebbe morire qualora le venisse negato di scrivere. Soprattutto questo: si chieda, nell’ora più quieta della notte: devo scrivere? Scavi dentro di sé alla ricerca di una risposta profonda. E se mai dovesse essere un sì, se le fosse concesso di opporre a questa domanda molto seria un forte e semplice «devo», allora costruisca la sua vita in funzione di questa necessità; la sua vita, anche nell’ora più insignificante e minima, deve diventare segno e testimonianza di questo impulso. Poi si avvicini alla natura. Poi cerchi, come fosse il primo uomo, di dire ciò che vede e vive e ama e perde. Non scriva poesie d’amore; eviti sulle prime le forme troppo comuni e abituali: sono le più difficili, perché ci vuole una grande forza, compiutamente matura, per porgere qualcosa di proprio là dove abbondano tradizioni buone, e in parte splendide. Si guardi dunque dai motivi più comuni a beneficio di quelli che le offre la sua quotidianità; ritragga le sue tristezze e desideri, i pensieri fugaci e la fede in una qualche bellezza: ritragga tutto questo con una intima, quieta, umile onestà, e si serva, per esprimersi, di ciò che le sta intorno, delle immagini dei suoi sogni e degli oggetti della sua memoria. Se la sua quotidianità le sembra povera, non la biasimi; biasimi se stesso, dica a se stesso che non è abbastanza poeta per evocarne le ricchezze; perché per colui che crea non c’è povertà e non c’è luogo povero o insignificante. E se anche fosse in una prigione, i cui muri impedissero ai suoi sensi di percepire il minimo rumore del mondo esterno, non le resterebbe comunque l’infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro di ricordi? Rivolga lì la sua attenzione. Cerchi di evocare le sensazioni sommerse di questo vasto passato; la sua personalità si rafforzerà, la solitudine4 si amplierà e diventerà una dimora avvolta nel crepuscolo, appena lambita, in lontananza, dal rumore altrui. E se da questo volgersi verso l’interno, da questa immersione nel proprio mondo nascono versi, allora non le verrà neanche in mente di chiedere a qualcuno se sono buoni versi. E non tenterà nemmeno di suscitare l’interesse delle riviste per questi lavori: perché in essi vedrà un suo, caro, naturale possesso, un frammento e una voce della sua vita. Un’opera d’arte è buona, quando nasce dalla necessità. Il giudizio è insito nell’indole della sua origine: non ce n’è un altro. Perciò, egregio signore, non saprei darle altro consiglio che questo: si immerga dentro di sé e sondi le profondità da cui sgorga la sua vita; alla sua fonte troverà la risposta alla domanda se deve creare. La prenda per come suona, senza interpretare. Magari si scoprirà che lei è chiamato a essere un artista. E allora assuma questo destino su di sé e se ne faccia carico, del peso e della grandezza, senza mai domandare la ricompensa che potrebbe giungerle dall’esterno. Perché colui che crea deve essere un mondo a sé e trovare tutto in sé e nella natura a cui si è legato.
    Forse, però, anche dopo questa discesa in se stesso e nella sua solitudine dovrà rinunciare a diventare un poeta; è sufficiente, come dicevo, sentire di riuscire a vivere senza scrivere, per vedersi negata la possibilità di farlo. Ma anche in quel caso il raccoglimento a cui la esorto non sarà stato vano. Di lì in poi la sua vita troverà comunque le proprie vie, e io le auguro che siano buone, ricche e ampie, più di quanto riesca a dire.
    Che cosa posso aggiungere ancora? Mi pare di aver posto il giusto accento su tutto; e in fondo volevo soltanto consigliarle di attendere in silenzio e con serietà al suo sviluppo; non può arrecargli disturbo più forte che guardando all’esterno e aspettandosi da fuori la risposta a domande a cui solo il suo sentimento più riposto, nell’ora più quieta, può forse rispondere.
    È stata una gioia, per me, trovare nella sua lettera il nome del professor Horaček; per questo amabile erudito nutro grande rispetto, e una gratitudine che perdura negli anni. La prego di volergli riferire questi miei sentimenti; è molto buono a ricordarsi ancora di me, e io lo apprezzo molto.
    Le restituisco i versi che ha voluto amichevolmente affidarmi. E le rinnovo il mio ringraziamento per l’entità e il calore della sua fiducia, di cui, con questa mia risposta onesta e in buona fede, ho tentato di rendermi un poco più degno di quanto io, da sconosciuto, non sia.
    Con tutta la mia devozione e sollecitudine,
    Rainer Maria Rilke

  • Franz Xaver Kappus a Rainer Maria Rilke
    Wiener Neustadt, 27 febbraio 19035
    Illustrissimo,
    Pregiatissimo signore!
    Mi è difficile dire con quali sentimenti io abbia letto, e riletto, la sua benevola lettera, colma della più calorosa sollecitudine.
    Lei mi dimostra un’attenzione che io dubito di meritare e di cui stento a credermi degno. Ma posso certamente ringraziarla per ogni sua parola, ogni suo consiglio. Quante volte, inviando all’una o all’altra personalità letteraria i miei tentativi poetici,6 ho vagheggiato una risposta alla mia richiesta che avesse in sé qualcosa della grandezza silenziosa e dell’onesta benevolenza, la cui manifestazione più bella e benigna ho ottenuto soltanto dalle sue righe sollecite!
    Sperando di non importunarla troppo con le mie lettere, avrei piacere di aggiungere ancora qualcosa a quanto le ho scritto in precedenza. Forse mi perdonerà pensando che di fronte a colui che ha ridestato i più riposti moti della mia anima con le sue parole, non posso tacere ciò che mi muove nelle mie ore più paurose, mi riempie di gioiosa speranza e poi torna a sgomentarmi.
    Quando mi sarò compiutamente raccolto, guarderò nel profondo della mia anima e mi chiederò: devo scrivere? Poi però arriveranno i pensieri, che si inseguono come rondini e mi fanno paura. Ho spesso di queste ore silenziose, che giungono senza essere state invitate e si struggono per il sole, così lontano da loro. E poi, dopo notti come queste, mi ritrovo stanco e sconsolato di fronte all’estrema conseguenza del mio pensiero: chi sono io? Da dove vengo? Dove vado? E poi nascono parole, quasi involontariamente, come liberazioni. È necessità, questa?
    Oh, mi atterrò nel modo più assoluto alle sue parole così amichevoli, che apprezzo e onoro come quelle di mia madre. Non scriverò poesie d’amore, ignorerò quanto di legato a motivi tradizionali dovessi incrociare sulla mia strada. Se io possa tuttavia vedere le cose come il primo uomo, non lo so. Temo di no. Perché nella mia anima alberga un ospite cattivo, che temo almeno quanto le ore buie, queste domande che...

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