Dal Risorgimento alla Resistenza
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Dal Risorgimento alla Resistenza

Claudio Pavone

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Dal Risorgimento alla Resistenza

Claudio Pavone

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L'Unità d'Italia ha appena un secolo e mezzo di storia. Si è trattato di una storia tormentata e difficile, e le idee dei profeti del Risorgimento – un lungo processo non privo di contraddizioni – sono state utilizzate da destra e da sinistra, dai fascisti così come dagli antifascisti in modi opposti. E, nella storia della Resistenza, se ne sono serviti in modi diversi il Partito comunista rispetto a Giustizia e Libertà e agli stessi cattolici, con maggiore o minore sincerità, e a volte in modi decisamente strumentali. Questo saggio magistrale del 1959 (pubblicato in Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri 1995) aiuta a far chiarezza, e ha avuto grande influenza su tutta la storiografia successiva.

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Información

Año
2021
ISBN
9788863573862
Categoría
History
Categoría
Italian History

1. Il “Secondo Risorgimento”

L’espressione “ Secondo Risorgimento” per indicare la Resistenza è divenuta largamente corrente nei discorsi, negli scritti, nelle testate di riviste e giornali usciti dopo i1 1945. Tuttavia, quando si abbandonano i discorsi celebrativi e di prima approssimazione, quelle due parole appaiono avvolte in un alone di incertezza, e nascono dubbi suscitati innanzi tutto dai troppo diversi punti di vista da cui si pongono coloro che ad esse fanno ricorso. Andiamo infatti dal neogaribaldinismo dei comunisti e dalle esplicite dichiarazioni neorisorgimentali di Parri1, alla rivista “Risorgimento, periodico della Resistenza” diretta dal più noto capo di formazioni autonome, Mauri (Enrico Martini) e al titolo di Secondo Risorgimento dato al volume governativo di celebrazione del decimo anniversario del 25 aprile2; dalla esortazione di Pieri, in un convegno della Associazione per la difesa della scuola nazionale, a parlare nelle scuole della Resistenza ricollegandola al Risorgimento3, alla circolare con cui il ministro della Pubblica istruzione, Martino, non certo perché sensibile all’appello di quella provenienza, presentava nel 1954 la Resistenza come ritorno al Risorgimento. La Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia è piena di richiami risorgimentali; e perfino in qualche scritto di anarchici si possono trovare accenni al nuovo Risorgimento4.
Da parte di uomini politici come di storici sono stati avanzati, in verità, molti dubbi sulla correttezza di quella espressione. Ad uno studio critico della questione invitava Antonicelli in un saggio che voleva essere di ampia impostazione problematica5; molto polemico e molto diffidente si mostrava Garosci nella sua comunicazione al primo convegno di studi di storia della Resistenza6; disposto a riconoscere “che un certo parallelismo con il Risorgimento possa affermarsi anche in sede storiografica” Valiani7, benché in seguito tornato con maggiori perplessità sull’argomento.8 Un augurio a che qualcuno si decidesse a fare la storia della espressione era formulato qualche anno fa da Mario Delle Piane, che contestava l’affermazione fatta, sia pure dubitativamente, da Gaston Manacorda di essere stati primi i comunisti a valersene.9 E, nel terzo convegno di studi sulla Resistenza tenutosi a Firenze nel marzo 1958, Bianca Ceva consigliava cautela nell’avvicinamento fra Risorgimento e Resistenza.10
Anche da parte comunista non sono mancati recenti richiami a maggior scrupolo nell’uso del paragone che sembra sminuire la novità, dal punto di vista dei rapporti di classe, della Resistenza rispetto al Risorgimento.11 E una voce di tutt’altra provenienza, quella di Aldo Capitini, ha sentito il bisogno di ricordare che “il Risorgimento, anche corretto dalle forzature convenzionali, non è nella misura della Opposizione antifascista”.12
Vi è stato anche qualche tentativo di affrontare in modo diretto ed esplicito il problema, e ne sono scaturiti saggi di disuguale valore, ai quali non mancheremo in seguito di riferirci, man mano che se ne presenterà l’occasione.13
Quello che ci preme dire subito è che crediamo sia da resistere alla tentazione di comporre scolastici elenchi di analogie e di differenze, che si ridurrebbero poi all’ovvia constatazione che l’Ottocento non è i1 Novecento, che Garibaldi, Mazzini e Cavour non sono Longo, Parri e Croce, come Mussolini non è il re Bomba; oppure sfocerebbero nella disputa accademica sulla continuità e la novità o la rottura nella storia. Pensiamo sia più proficuo sforzarsi di ricostruire la storia di quell’espressione, vedere come sia nata, chi, in quale senso e in quali momenti l’abbia usata, fino a che punto essa abbia costituito un ideale operante: servirsene, cioè, per cercare di cogliere, sia pure in modo necessariamente frammentario, la posizione in cui le varie correnti antifasciste, e i fascisti stessi, vollero collocarsi di fronte alla storia dell’Italia moderna. Alcuni dei temi più vivi del Risorgimento, del postrisorgimento e della Resistenza potranno così, rapidamente e di scorcio, essere tirati in campo, anche perché, se la tradizione, o meglio le tradizioni, del Risorgimento hanno influito sulle ideologie non solo della Resistenza post 1943 ma di tutto l’antifascismo, la Resistenza ha poi a sua volta reagito su quelle tradizioni, rinnovando la tematica sul Risorgimento e sui suoi rapporti con l’Italia d’oggi.

2. Risorgimento e fascismo

“Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica”. Queste parole di Leone Ginzburg14 possono considerarsi il sottofondo implicito a tutta la disputa non solo sui rapporti fra Risorgimento e Resistenza, ma anche fra Risorgimento e fascismo: e le due questioni sono intimamente legate, la prima nascendo anche come reazione a certe soluzioni date alla seconda.
Pur nella sua rozzezza culturale, infatti, il fascismo non poté sottrarsi all’obbligo di definirsi in rapporto alla più recente storia d’Italia; e se la retorica della romanilà gli fece sempre più preferire il gran volo di collegamento diretto con il lontano Impero, tuttavia il fatto stesso di considerarsi il provvidenziale termine ad quem dell’intera storia d’Italia, rese necessario al fascismo atteggiarsi, in qualche modo, anche a continuatore e sistematore del Risorgimento. “I vincitori non si contentano di occupare il presente. Essi proiettano la loro vittoria nel passato per prolungarla nell’avvenire “, scriveva Salvemini spiegando il sorgere dell’interesse di Nello Rosselli per gli studi ›› risorgimentali proprio con il desiderio di reagire alle falsificazioni fasciste.15
Il primo a mettersi sulla strada di una reinterpretazione fascistica del Risorgimento era stato Mussolini, con materiali culturali di scarsa originalità e grossolanamente manovrati sotto la spinta di scoperte esigenze tattiche. Ma l’eclettismo che ne derivava corrispondeva, sul piano effettuale, all’assorbimento che il fascismo andava compiendo dei vari gruppi della vecchia classe politica e, sul piano storiografico, all’eclettismo dell’agiografia tradizionale, che vedeva i quattro grandi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi, procedere a braccetto verso i più alti destini della patria. Il fascismo accreditò questa visione, che aveva il gran pregio di non sollevare problemi e di preparargli la strada come a quello che di tutti quei grandi poteva, senza contraddizioni, considerarsi il suggello.
Caratteristico, da questo punto di vista, il discorso dell’Augusteo del 9 novembre 1921, in cui Mussolini, con notevole abilità, trova una parola di comprensione per tutti i settori dello schieramento politico tradizionale: dai repubblicani (l’Italia non ha bisogno di cercare in Russia i suoi profeti) ai liberali e ai nazionalisti (lodi alla Destra e a Crispi). Non manca nemmeno un po’ di civetteria verso gli anarchici (Malatesta santo e profeta); mentre l’incertezza del giudizio sui popolari sottintende il proposito, chiaro fin da allora in Mussolini, di trattare, scavalcando i1 partito di Sturzo, direttamente col Vaticano, nella convinzione, che farà fortuna nel fascismo, che “il cattolicesimo può essere utilizzato per l’espansione nazionale”.16 Allorché i Patti lateranensi porteranno a felice compimento tale indirizzo, Mussolini, parlando alla Camera, si mostrerà di nuovo assai abile nel difendersi sia dalle critiche che potevano essergli mosse in nome della tradizione laica e risorgimentale, sia dalle accuse di debolezza dei fascisti intransigenti; e al Senato concluderà con una perorazione sulla scomparsa di ogni ipoteca su Roma capitale: tema, quest’ultimo, riproposto per difendere la sotituzione della festa del 20 settembre con quella dell’11 febbraio, giorno da considerare ormai, esso, conclusivo del Risorgimento.17
Quando voleva giocare la carta del fascismo popolaresco Mussolini non esitava poi a tirare in scena Garibaldi: così, parlando a Monterotondo il 23 dicembre 1923, menò gran vanto della presenza di Ricciotti Garibaldi,18 e proclamò che “fra la tradizione garibaldina, vanto e gloria d’Italia, e l’azione delle Camicie nere, non solo non vi è antitesi ma vi è continuità storica e ideale”.19 Vedremo in seguito come di un certo tipo di continuità fra garibaldinismo e fascismo si parlasse anche in ambienti antifascisti; e già Gobetti, in una sua complessa definizione di Mussolini, aveva inserito l’elemento del “garibaldino in ritardo”.20
Nel presentarsi come vendicatore della vittoria mutilata, Mussolini contribuì a canonizzare il conflitto del 1915-18 come “quarta guerra d’indipendenza”, facendolo divenire un anello della catena che partiva dal Risorgimento e finiva al fascismo (“il decennio 1860-70, quando fu compiuta l’unità della Patria che dovrà essere perfezionata colla guerra mondiale e la nostra vittoria.”);21 e di nuovo, nell’appropriarsi di tutta l’eredità per lui politicamente utile del conflitto, dall’interventismo nazionalista a quello d’intonazione democratico-risorgimentale, Mussolini faceva appello a Garibaldi, dichiarandosi sicuro che l’Eroe “riconoscerebbe la discendenza delle sue Camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle Camicie nere che da un decennio continuano, sotto forma ancor più popolare e più feconda, il suo volontarismo”.22
Perfino l’Anschluss e l’Asse servirono a ridestare in Mussolini spiriti risorgimentali, spingendolo più volte a paralleli fra i modi con cui Italia e Germania avevano raggiunto l’unità nazionale. Ed erano paragoni che, sovvertendo tutta quell’ala della tradizione liberale che aveva sempre amato accentuare le differenze fra Cavour e Bismarck, servivano poi d’introduzione all’accostamento fra fascismo e nazismo come momenti culminanti delle due rivoluzioni nazionali. “I1 dramma austriaco non è cominciato ieri: cominciò nel 1848, quando il piccolo animoso Piemonte osò sfidare l’allora colosso asburgico (...). Noi non abbiamo fatto nulla di diverso tra il 1859 e il 1861. Io vi esorto alla storia, o signori (...) “: cosi parlò Mussolini alla Camera il 16 marzo 1938, accennando anche al “grande autoritario Cavour “.23
Aiutavano Mussolini quei liberali che, man mano che si convertivano al fascismo, lo scoprivano campione delle tradizioni di cui avrebbero dovuto, essi, costituire i portatori. Parlò per tutti Salandra alla Scala il 19 marzo 1924, quando affidò appunto a Mussolini la tradizione del liberalismo italiano e del Risorgimento; e già Albertini aveva rivolto in Senato al governo fascista appena costituito un appello a raccogliere, rinnovandola, l’eredità del liberalismo.24
Se l’idea — scrive Salvatorelli — di affidare a Mussolini l’eredità del liberalismo risorgimentale oggi appare assurda e grottesca — e tale appariva già allora ai più perspicaci e spassionati [fra i quali va certo collocato l’autore di Nazionalfascismo, e di Irrealtà nazionalista] — non per questo sarebbe ragionevole sentenziare che in quanti allora la professavano, da Salandra ad Albertini, essa fosse pura finzione, a scopo tattico. Illusione, certamente: ma non del tutto incomprensibile.25
Non incomprensibile, ove si tenga conto che essa era l’espressione del passaggio al fascismo del vecchio ceto dirigente liberale, con le poche eccezioni di coloro che, come scrive ancora Salvatorelli, alla opposizione “furono letteralmente trascinati per i capelli”.26 Se il fascismo accentuò con gli anni la sua polemica di principio contro il liberalismo, ciò discese anche dal fatto che l’operazione di assorbimento del vecchio personale politico aveva ormai dato tutti i frutti sperabili. Fu solo in conseguenza della Grande crisi, infatti, che il fascismo fece di tutto per esasperare il suo carattere di novità, di “ terza via” corporativa, fra il mondo capitalistico in declino e il socialismo o comunismo. Così operando, il fascismo da una parte tendeva a far dimenticare i patteggiamenti coi vecchi liberali e il liberismo del suo prima periodo; dall’altra parte, però, stimolava una più energica reazione di tutti coloro che, sia pure da posizioni assai diverse, rivendicavano libertà e democrazia come elementi intrinseci dell’Italia nata dal Risorgimento.
I due intellettuali che cercarono di dare una veste il più possibile colta al fascismo, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, dovettero entrambi fare i conti con il Risorgimento: abbandonandosi ad uno sfrenato ideologismo pseudostoriografico, il filosofo Gentile; con maggior equilibrio lo storico Volpe, dalle modeste esigenze speculative, e propenso, in fondo, ad ammettere che tutte le strade conducono a Roma.
Per Gentile, il Risorgimento è una tappa necessaria per giungere alla pienezza dei tempi attualistico-fascisti. Mazzini diventa l’Ezechiello della nuova Italia (...), di questa Italia nuova che si compie a Vittorio Veneto, sfolgorando e annientando il suo antico avversario (...). Ora il Vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimento, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella Giovane Italia che il Mazzini evocò. È il Vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919, del ‘22, d’oggi.27
Nel Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, comparso sui giornali del 21 aprile 1925,28 Gentile insisteva nel paragone fra la Giovane Italia e lo squadrismo, nati “da un analogo bisogno politico e morale”; e introduceva un tema caratteristico della contraddizione fascista fra demagogia di massa e preteso aristocraticismo religioso. Gentile rivendicava infatti il carattere di élite del Risorgimento, “quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze”, il cui seme si era poi purtroppo disperso. Fu proprio Croce a ribattere su questo punto,29 condannando gli intellettuali fascisti che ripetono “la trita frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale “.
Nella Dottrina del fascismo Gentile tornò alla carica in termini più generali contro il liberalismo e la religione della libertà, ricordando che la Germania aveva raggiunto la sua unità al di fuori, anzi contro il liberalismo e che, quanto all’unità italiana, il liberalismo vi aveva avuto “una parte assolutamente inferiore all’apporto dato da Mazzini e Garibaldi che liberali non furon...

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