I
PERCHÉ ARTAUD
Avvicinarsi ad Antonin Artaud vuol dire esporsi a una bruciatura: la sua, anzitutto, impudicamente e caparbiamente mostrata come segno di una battaglia per la sopravvivenza, contro ogni forma di addomesticamento intellettuale ed esistenziale. Battaglia che non si limita agli anni del suo ricovero in manicomio, ma che costituisce la cifra più profonda di tutto il suo lavoro di uomo in ricerca: una ricerca vissuta in modo così coerente e radicale da assumere l’aspetto di una assoluta istanza di rivolta. Artaud il rivoltoso, dunque.
Tuttavia, di fronte ai ripetuti fraintendimenti nei quali la critica è incorsa, in buona o in cattiva fede, bisogna essere precisi: non si tratta di un generico «ribellismo», espressione di personali idiosincrasie a sfondo caratteriale o di un borghesissimo bisogno di rispecchiarsi in modelli alternativi a quelli tradizionali (una specie di Edipo che, uccidendo il padre, il padre sempre invoca). Si tratta invece di quel senso di rivolta che è proprio di ogni vera ricerca filosofica, la quale, da Socrate in poi, si è sempre configurata come domanda sulla tradizione. Domanda di senso, che chiede conto delle provenienze e prefigura destinazioni, incarnando così l’efficacia di quella medesima tradizione su cui si interroga. Il luogo dell’efficacia di una tradizione è precisamente il luogo del suo rovesciamento, della sua catastrofe, della sua trasformazione in forme di vita e di sapere inedite: passaggio attraverso la domanda ironica che smaschera e devasta, e incarnazione di maschere ulteriori in cui quella tradizione muore metamorfosandosi e rivive disperdendosi. Esercizio della ricerca che è, per ciò stesso, incarnazione della rivolta, non in senso individuale, ma nel senso sovraindividuale di un necessario rivolgersi delle forme di vita e dei saperi ad esse afferenti, da un lato verso le loro insondabili origini, dall’altro verso i loro inafferrabili destini. A questo esercizio Artaud diede nome di crudeltà; al luogo del suo attuarsi diede nome di teatro: apertura antropocosmica della domanda, che si concreta in posture operative, assegnandosi al dramma necessario di un’azione la quale, compiendosi, si duplica e si perde nella rappresentazione dei suoi effetti di senso.
La prima bruciatura di cui Artaud si fa testimone è dunque la bruciatura prodotta dall’esperienza della crudeltà: rigoroso accoglimento dell’impermanenza, del divenire vitale che attraversa e travolge ogni postura data. Vi è poi una seconda bruciatura, non solo testimoniata, ma di fatto prodotta da Artaud in chi si avventuri nei meandri della sua scrittura. A questo secondo livello, la crudeltà agisce, per usare un’immagine cara allo stesso Artaud, come la peste: non si può averci a che fare senza esserne contagiati. Leggere Artaud significa infatti disimparare a leggere, disimparare la postura del lettore distanziato, smettere di guardare e cominciare ad agire. I suoi scritti sono mappe: non ha alcun senso contemplarle, se non ci si vuole incamminare. Ma per camminare in Artaud bisognerà calpestarlo, ingaggiare a propria volta una battaglia per la sopravvivenza delle proprie posture di senso (lasciandole divenire): farsi a propria volta attori crudeli. La crudeltà non può avere spettatori, ma solo attori sdoppiati in un fare che fa e in un fare che sa. Insieme.
La possibilità di apprendere tale esercizio, di esservi indotti quasi contro la propria volontà è la ragione più profonda per la quale, al di là delle mode passeggere e delle facili suggestioni, il cammino in Artaud si impone oggi come una necessità. Tale necessità potrà certo continuare ad essere trascurata dal mondo dei saperi tradizionali, ma, nelle sue istanze fondamentali, è già all’opera, come una minaccia, come un vaticinio, come una fenditura tellurica, proprio nel mondo di quei saperi che fanno senza sapere e sanno senza fare.
Artaud non è che un’occasione, la sua doppia bruciatura non è che un memento; la domanda sulla nostra tradizione, sulle nostre origini e destinazioni, la battaglia per una sopravvivenza che non potrà essere se non catastrofica e metamorfica, già sfalda le nostre posture, spezza i confini, reinventa le geografie, smaschera le economie, penetra nei corpi, in un rivolgimento (o in un rivoltarsi) che non è più né pubblico né privato: è – Artaud lo aveva ben visto – politico. Parola abusata, che si vorrebbe qui far risuonare nel suo senso più originario: non ciò che riguarda la polis e i suoi abitanti (dimensione pubblica modellata su categorie circoscritte, indebitamente investite di validità universale), ma ciò che riguarda il molto (polú) o i molti, prima del delinearsi di qualsivoglia confine, di qualsivoglia appartenenza, di qualsivoglia individualità. «La massa di tutti i corpi», diceva Artaud, di cui ciascun corpo è fatto: i corpi delle cose e degli uomini, dei saperi e dei poteri; corpi come massa proteiforme plasmata dal fare e dal non fare, decisi e ogni volta rimodellati in posture parziali e in eredità immemori.
Frequentare questo senso del politico vuol dire disporsi al più vitale e rigoroso dei rivolgimenti, che forse attende al varco, oggi, proprio la nostra tradizione, le nostre posture, i nostri precari confini. Artaud non fu il solo a presagirlo. Ma il suo fu qualcosa di più che un presagio: fu l’inizio di un lavoro, condotto con rigore sulla massa dei propri pensieri, sulla carne dei propri progetti, sul nerbo delle proprie azioni. Un lavoro che egli, come individuo, portò a termine; ciò che ne resta, infatti, non ha più nulla di individuale. È solo un pezzo di mondo, un corpo del mondo, «baule a soffietto»1 nel quale la massa di tutti i corpi respira, prende forma e trapassa. Esattamente come questo pezzo di mondo, che agisce il proprio dramma e chiede forse soltanto di essere finalmente rappresentato da attori crudeli, rigorosi, impudichi. Attori politici, che consegnino il falò di se stessi alle metamorfosi di quei molti di cui son fatti.
1«Il corpo è una moltitudine affollata, una specie di baule a soffietto che non può mai aver finito di rivelare ciò che racchiude» (A. Artaud, Histoire vécue d’Artaud-Mômo, in OC XXVI, p. 187).
II
LA SCRITTURA DELLA CRUDELTÀ
«Tutta la scrittura è porcheria»1. Interrogare sul tema della scrittura l’autore di tale lapidaria affermazione può apparire un non senso teso solo a far ricadere la questione su se stessa. Tuttavia l’accanimento con il quale Antonin Artaud frequentò la scrittura in ogni sua forma, da quella poetica a quella epistolare, dal saggio al diario, dall’invettiva alla drammaturgia, dagli aforismi agli oroscopi, dal romanzo al disegno, al graffio (come documenta il corpo monumentale delle sue Œuvres Complètes e dei suoi quaderni e fogli affollati di tracce intrecciate), impone una valutazione non affrettata del rapporto intrattenuto da questo autore con il proprio gesto grafico.
Un aspetto della scrittura di Artaud colpisce in particolare il lettore: sin dalla sua produzione giovanile, egli sembra condurre un esercizio ambiguo di esposizione e sottrazione della propria intimità, della propria vita profonda in un gioco destabilizzante che, mentre toglie validità ai contenuti espressi spingendoli all’autocontraddizione, suggerisce l’esigenza di attraversare quegli stessi contenuti, di perdersi nella loro contraddittorietà per attingere qualcosa che, travalicandoli, ne determina e la consistenza e la vacuità. La manifestazione più eclatante di tale ambiguità è forse il fatto che Artaud stesso, poco prima di morire, abbia concordato con Gallimard i termini per la pubblicazione delle sue «Opere complete», proprio lui che, nel 1925, aveva scritto: «Cari amici, quel che avete preso per la mia opera era solo lo scarto di me stesso, raschiature dell’anima non accolte dall’uomo normale»2.
Artaud sembra dunque fare un doppio gioco teso a spingere il lettore alla impasse, costringendolo a farsi carico di una ponderosa inconsistenza: quella di un’opera che, nel darsi, si annulla come tale. Ma che significa «come tale»? Anzitutto come prodotto ultimativo, risultato concluso di una operatività finalizzata a risolversi nella stabilità di un significato espresso, fatto tra fatti il cui senso è garantito da una estrinseca referenzialità.
Tra coloro che per primi sottolinearono questa caratteristica della scrittura artaudiana, particolare interesse rivestono le riflessioni svolte da Jacques Derrida in La parole soufflée (1965), dove viene avanzata una ipotesi assai efficace ai fini di un approccio non più solo letterario al lavoro di Artaud. L’ipotesi derridiana, in sintesi, è che il testo di Artaud si neghi ad ogni forma di commento, sia esso critico o clinico, dando così luogo ad un corto circuito che non interrompe semplicemente il flusso della trasmissione comunicativa, ma boicotta la struttura bipolare sulla quale si fonda la possibilità stessa del commento, ossia dell’intera tradizione dei saperi occidentali.
Così Derrida. In tale prospettiva si spiegherebbe però solo un lato del doppio gioco di Artaud: quello occlusivo, per il quale, nel fare, si nega al fatto di sussistere nella propria validi...