Jugo-Rock
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Jugo-Rock

La vita, la musica e l'amore al tempo della guerra

Arrigo Bernardi, Pierpaolo Capovilla

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La vita, la musica e l'amore al tempo della guerra

Arrigo Bernardi, Pierpaolo Capovilla

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Estate del 1990. Un diciottenne di Karlovac, Croazia, ha appena terminato la scuola superiore. Passa il tempo tra musica punk e scazzottate. I genitori, preoccupati per il suo comportamento turbolento, decidono di mandarlo a lavorare in Germania. Un’esperienza intensa e formativa, interrotta però bruscamente dalla chiamata per il servizio militare. Un anno di fatiche, umiliazioni e violenza in una Jugoslavia che a dieci anni dalla morte di Tito non è più né unita né socialista. Durante il periodo di ferma la situazione precipita e scoppia il conflitto. Il ragazzo diserta per tornare nella sua città e arruolarsi a combattere nella polizia croata. Appena gli è possibile, torna in Germania e riesce facilmente a costruirsi una nuova vita, ma senza riuscire a integrarsi realmente. Torna allora in Croazia seguendo un destino di violenza che lo attrae come in un vortice.
“ Jugo-rock è sì un romanzo, ma è fatto di avvenimenti tali che lo spavento e la miseria umana della guerra jugoslava scaraventano il lettore nell’abisso dell’odio fratricida”. (Pierpaolo Capovilla)

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Información

Año
2019
ISBN
9788868613662
Categoría
Literatura

​L’aria di Stoccarda

Il viaggio in treno è durato una vita, prima attraverso la Jugoslavia, poi l’Austria e alla fine la Germania. Campi, boschi, qualche città, un paio di cambi treno, a Zagabria e a Monaco, tante montagne, quattro controlli documenti e poi ancora prati, campi, città e finalmente Stoccarda.
Non ero affatto sicuro che avrei riconosciuto mio zio Josip, non ci vedevamo da quando avevo dieci anni. Invece appena sono sceso dal treno sulla banchina l’ho riconosciuto immediatamente. Mi stava cercando con gli occhi tra la gente che arrivava, appoggiato a una colonna con i suoi capelli lunghi, la barba e un giaccone militare.
Non mi ha riconosciuto finché non gli sono arrivato davanti; a quel punto si è reso conto che ero io e di colpo mi ha abbracciato tenendomi forte e dicendomi: “Caro nipote mio!”. Poi mi ha allontanato tenendomi per le spalle con le braccia tese e, guardandomi fisso in faccia, mi ha detto: “È incredibile, sei diventato un uomo! Guarda che grosso che sei… la faccia da scemo però è rimasta la stessa… ma per fortuna qualcuno ha cercato di mettertela a posto!”. Poi si è messo a ridere rumorosamente lì in mezzo a tutta la gente e io con lui.
Casa sua è un appartamento al secondo piano di un piccolo palazzo appena fuori dal centro. Ci siamo andati subito e mi ha mostrato la mia stanza, che a occhio e croce usava come armadio magazzino, ma che aveva già attrezzato con un piccolo letto, una abat-jour, un bel radio-registratore e un paio di cuffie.
“Devi imparare subito il tedesco. Qui starai bene, vedrai”, mi diceva mentre mi friggeva sul fornello delle salsicce che poi mi ha messo sul piatto con affianco delle fette di pane nero e delle verze sottaceto. Il pane non mi piaceva molto, aveva un sapore forte, strano, ma le salsicce sì, e morivo dalla fame. Prima di partire mia madre mi aveva dato dei panini con formaggio e salame, abbondantemente spalmati con salsa di peperoni, e delle uova sode, ma avevo finito tutto ben prima di arrivare a destinazione.
“Come sta tua madre? E il tuo vecchio?”, mi ha chiesto sedendosi davanti a me con una birra in mano mentre mi ingozzavo di salsicce fritte.
“Stanno bene, le solite cose… lavorano tanto”, gli ho risposto.
“Me lo immagino, sempre in negozio o pensando al negozio. E a Karlovac come vanno le cose? Ci sono casini?”.
“No, niente di particolare, tutto tranquillo come al solito. A parte i casini che faccio io”, ho aggiunto abbassando gli occhi.
“Fare casino alla tua età è obbligatorio. Io i tuoi nonni li ho fatti impazzire, poveracci”, mi ha risposto con un mezzo sorriso. Poi guardando verso la televisione spenta, ha aggiunto: “Parlano spesso di Jugoslavia e di manifestazioni, alla tele e alla radio”.
“Sì, ci sono un po’ di casini, ma soprattutto al sud, da noi poco o niente”.
è un Paese di pazzi, lo è sempre stato, hai fatto bene a venire qui”, ha detto continuando a fissare il televisore spento, con la birra in una mano e una sigaretta nell’altra.
Dopo un breve sospiro ha cambiato di tono e di argomento. “Ti piace molto la musica, vedo”. “Sì, mi piace il rock, il punk rock, l’heavy metal, il rap, ma soprattutto il punk più veloce e cattivo, l’hardcore punk”.
“Davvero? – mi ha risposto accendendo un’altra sigaretta –. Non ci crederai, ma anche a me è piaciuto il punk rock, appena è arrivato in Jugoslavia. Quando avevo un paio di anni più di te andavo continuamente a Zagabria. Lì era pieno di studenti, e di ragazze. Si usciva la sera e c’erano sempre un sacco di cose da fare. Al principio ci andavo ogni fine settimana con Novak, il mio socio. Dormivamo dove capitava. A un certo punto mi sono fermato lì. Passavo da una casa all’altra. Poi mi sono messo con Anja: lei studiava lettere e lavorava come giornalista per il Polet, il giornale dei giovani socialisti. Quei ragazzi erano davvero in gamba. Un sacco di musica, un sacco di discorsi di politica, feste pazze e un sacco di alcol. Un bel giorno sono riusciti a convincere il partito a mettere fuori i soldi per organizzare un festival rock, una maratona di due giorni con gruppi da tutte le parti della Jugoslavia. Anja era una degli organizzatori principali. Sono arrivati in città centinaia di ragazzi da ogni angolo sperduto del Paese. Hanno incominciato ad arrivare già quattro giorni prima dell’inizio. Quando il festival è finalmente cominciato, c’erano un paio di cantautori folk con la chitarra, aspiranti Bob Dylan. La gente fischiava, tutti avevano voglia di ballare rock and roll e finalmente sono salite sul palco delle band che si definivano punk. Era il 1978, la gran parte della gente non aveva mai sentito parlare di punk, non avevamo neanche un’idea precisa di cosa aspettarci… ma cazzo, come suonavano! Non gliene fregava niente: quattro accordi sparati, batteria a martello e cantanti stralunati che gridavano. È stato favoloso. Mi ricordo gli Azra e i Prljvo Kazaliste da Zagabria, poi i Pankrti da Lubijana e i Paraf da Rieka. Una bomba dietro l’altra. Alcuni li hanno fatti suonare due volte di seguito perché il loro set era troppo breve. Dopo il concerto siamo andati avanti a festeggiare per giorni!”. E giù una grossa risata.
Poi alzandosi ha aggiunto: “Forza, a letto adesso, che domani mattina ti porto a lavorare e ti raddrizzo quella schiena storta che hai! Sveglia alle sei”.
“Buona notte Josip” gli ho detto entrando in camera.
“Buona notte”, mi ha risposto. Poi, tornando a girarsi verso di me, ha aggiunto: “Ah, qui tutti mi chiamano Johnny”.

Un attimo di panico al risveglio. Non capivo dove mi trovassi. Poi, pian piano, mi è tornato in mente tutto. Mi ero addormentato di botto la sera prima, senza quasi spogliarmi, dopo essermi tolto solo le scarpe e il maglione.
Mi ha svegliato di colpo un rumore proveniente dalla cucina. Dopo qualche secondo, la testa di mio zio ha fatto capolino dalla porta: “Sei già sveglio? Ottimo. Vieni a bere il caffè che poi andiamo”.
Ancora steso sul letto mi sono guardato intorno: tutte le scatole ammassate nella stanza, i mucchi di vestiti, qualche trapano elettrico e di fianco al letto il registratore con le cuffie, bellissimo, evidentemente preparato per me. Che grande mio zio!
Un senso di eccitazione per la nuova situazione ha incominciato a farsi strada e mi sono alzato di slancio e con un sorriso.
Mi sono lavato la faccia, che cominciava a tornare normale, con l’acqua fredda. Ho bevuto il caffè nero che mio zio mi aveva preparato sul tavolo e siamo usciti.
In un garage distante pochi isolati da casa c’era il furgone, un Bedford arancione fighissimo. Josip ha salutato il custode con una battuta in tedesco che gli ha strappato una risata. Dalla faccia sembrava tutto meno che tedesco.
Dopo una decina di minuti abbiamo caricato Deniz e Ahmet, gli operai di mio zio. Mi hanno stretto la mano con grandi sorrisi, poi mio zio ha aggiunto in inglese: “Non capisce il tedesco, l’inglese sì”, e loro hanno risposto: “Nice to meet you”, poi siamo ripartiti.
Quando siamo arrivati a destinazione, ci siamo trovati davanti a un piccolo condominio, non molto diverso da quello in cui vive mio zio. Siamo saliti al terzo piano portando l’attrezzatura in un appartamento vuoto e Josip mi ha spiegato: “Noi mettiamo piastrelle. Se c’è da togliere quelle vecchie, prima facciamo quello, ma per il resto quello che facciamo è stendere la colla e mettere le piastrelle giuste al loro posto. Non è difficile, imparerai”. Poi ci siamo messi al lavoro.
Il mio compito era quello di portare su le piastrelle dal furgone. Un pacco alla volta, quindici chili. Ogni volta che arrivavo su, loro tre, a quattro zampe sul pavimento, si scambiavano una battuta e ridacchiavano. Al terzo giro mio zio mi ha detto: “Puoi anche usare l’ascensore, massimo tre pacchi per volta”, poi sono scoppiati tutti e tre a ridere.
All’ora di pranzo mi hanno mandato lì vicino a prendere dei kebab per tutti. La mia prima missione autonoma in terra straniera. Me la sono cavata degnamente con l’ordinazione e il pagamento in marchi; del resto, neppure l’uomo del chiosco e sua moglie sembravano molto tedeschi.
Sono tornato tutto soddisfatto con i quattro panini avvolti nella carta stagnola e il sacchetto con le birre, facendo i gradini a due a due.
Il resto del pomeriggio lo abbiamo passato a lavorare. Lo zio mi ha fatto vedere come si mescola e si stende la colla, come si posizionano le piastrelle con i distanziatori e i fili tirati per prendere il segno e tutto il resto. Non è semplice, ma si può imparare.
Quando siamo scesi, il sole non era ancora tramontato ma mancava poco. C’era ancora il tempo per una birra al chiosco con Deniz e Ahmet.
Loro parlavano in tedesco, scherzando e ridendo, anzi più che altro parlava mio zio e loro ridevano. Io me ne stavo un po’ in disparte senza capire niente, sorseggiando la mia birra, stanco ma felice di trovarmi lontano da casa ma comunque in famiglia.
“È ora di andare adesso, stasera usciamo, è venerdì!”, mi ha annunciato mio zio con una pacca sulla spalla.
Abbiamo ripreso il furgone, accompagnato i ragazzi e siamo tornati a casa.
“Una doccia veloce e usciamo, andiamo in birreria. Vestiti bene che magari trovi la ragazza”, ha detto ridendo e scomparendo in camera sua. Subito dopo si è affacciato alla porta e ha aggiunto: “La doccia me la faccio prima io”.
Vestirsi bene… facile a dirsi. Con me oltre ai vestiti che ho usato per lavorare mi sono portato un altro paio di jeans, un paio di pantaloni corti, quattro magliette e un maglione.
Dopo la doccia mi sono infilato i jeans puliti, la maglietta dei Beastie Boys che mi ha disegnato su richiesta una mia compagna di scuola e siamo usciti.
La birreria era a dieci minuti a piedi da casa. Per la strada Josip mi ha parlato ancora un po’ del lavoro, di quello che avrei dovuto fare la settimana dopo e di come farlo. Si vedeva che aveva la testa ancora là e non riusciva a liberarsene.
Quando siamo arrivati, mio zio si è diretto deciso verso un tavolo sul fondo del locale dove erano già seduti alcuni amici con grandi calici di birra. Quattro ragazzi e due ragazze, tutti dell’età di mio zio. Sui trent’anni, qualcosa in più.
Le ragazze lo hanno salutato strillando: “Johnny!!”, concedendogli baci e abbracci affettuosi e guardandomi con curiosità. I ragazzi mi hanno stretto la mano, poi Johnny mi ha presentato in tedesco ma dicendo in inglese: “Capisce e parla bene l’inglese”.
Le ragazze hanno voluto che mi sedessi in mezzo a loro per conoscermi.
Mio zio ha fatto arrivare due calici di birra e delle cotolette con l’insalata e sul suo viso finalmente è apparsa un’espressione completamente rilassata.
Le ragazze si chiamano Katerina, detta Kati, e Sandra, e mi hanno fatto un sacco di domande. Quanti anni ho, cosa faccio, come mai sono lì, ti piace la Germania… Che ne so, sono arrivato da poco più di ventiquattr’ore, vorrei rispondere, invece dico: “Sì, molto”, senza aggiungere altro. Kati è sposata con Mark, seduto di fianco a lei; Sandra invece sta con Martin, che è seduto dall’altra parte del tavolo. “Ho un fratello della tua età – dice Sandra –. Bisogna che te lo faccio conoscere, anche a lui piacciono i Beastie Boys”, alludendo alla mia t-shirt con un sorriso.
La serata prosegue con enormi vassoi pieni di birre alla spina e nel frattempo altri amici e amiche si aggiungono alla tavolata.
Dopo un po’, Kati e Sandra perdono interesse nei miei confronti e incominciano a parlare con gli altri ragazzi. Tutti insieme fanno un fracasso infernale, sempre di più mano a mano che la serata procede e il tavolo si riempie di bicchieri.
Io sono stato lì ad ascoltare quella lingua che non capivo, cercando di afferrare almeno il senso delle esclamazioni e delle parole che sentivo ripetere di più. Alla fine della serata mi ero bevuto cinque birre medie e mi sentivo molto sbronzo. Mi girava la testa ed ero stanchissimo e quando mi sono alzato per andare a casa a momenti cascavo per terra.
Anche mio zio era parecchio sbronzo, sebbene decisamente più allegro e arzillo di me. Per buona parte della serata ha parlato con una bionda piuttosto bella e si sono bevuti una quantità di bicchierini di non so cosa.
“Forza nipote! Andiamo a casa che sei stanco e domani ti lascio dormire tutto il giorno”, mi ha detto posandomi una mano sulla spalla mentre ci incamminavamo.
Poi ha cominciato a cantare a gran voce All’assalto!, una canzone dei partigiani jugoslavi, camminando sulla linea bianca che divide le corsie lungo la strada deserta
“All’assalto, all’assalto, all’assalto,
echeggia nei boschi l’urlo dei combattenti,
le file nemiche sono folte!
Colpisci, irrompi,
picchia, spara!
All’assalto, o-hei, partigiano
innanzi a te è il giorno della libertà!”.

La mattina dopo ci siamo svegliati tardi.
Josip mi ha portato prima al mercato e poi in un grande magazzino, dove mi ha comperato degli altri jeans, qualche maglietta, biancheria, una felpa rossa fighissima, con il cappuccio e la zip, un paio di Adidas alte di pelle, una salopette per il lavoro come la sua, con delle tasche sulle ginocchia per infilare l’imbottitura e un paio di scarpe con la punta in metallo. “Qui si lavora in sicurezza – mi ha detto guardandomi serio –. Puoi sempre usarle per prendere a calci nel culo qualche stronzo”, ha aggiunto ridendo e dandomi uno scappellotto. Io ero un po’ in imbarazzo per tutta quella roba e l’ho ringraziato. “Non ti preoccupare, mi ripagherai”, ha tagliato corto.
Una volta a casa ha fatto un paio di telefonate e poi mi ha detto: “Io adesso esco. In frigo c’è da mangiare, queste sono le chiavi di casa e venti marchi, se vuoi uscire. Io torno tardi”. E se n’è andato senza altre spiegazioni.
Ho passato il resto della giornata in casa sistemando la mia roba e ascoltando musica. Poi mi sono fatto un panino con quello che ho trovato nel frigo, ho guardato un po’ di televisione in tedesco e mi sono addormentato.
La mattina dopo alle nove mi ha svegliato il telefono. Era mio zio, mi avvisava che sarebbe rimasto fuori anche per il resto della giornata e mi invitava di nuovo a uscire. Ma io non sapevo dove andare e sinceramente non ne avevo molta voglia. Ho passato anche la domenica in casa dormendo, ascoltando musica, mangiando panini e guardando dalla finestra. Poi verso l’ora di cena mio zio è tornato. Sembrava di ottimo umore ma non era di molte parole. Abbiamo mangiato qualcosa insieme e siamo andati a dormire.
La settimana successiva l’abbiamo passata con Deniz e Ahmet lavorando duramente. Mi hanno insegnato tante cose e tutti i giorni abbiamo finito che era già buio.
Qualche giorno dopo averli conosciuti, ho chiesto a mio zio: “Da dove vengono? Sembrano turchi”. “Sono curdi”, mi ha risposto. “E dov’è la Curdia?”, ho chiesto. “Si chiama Kurdistan”, mi ha detto. E io: “E dove sta il Kurdistan?”. “Il Kurdistan non esiste – ha risposto, poi con un sorriso ha continuato –. Il Kurdistan è una nazione senza Stato, il popolo curdo è sparpagliato tra Turchia, Siria e Iran, e se possono scappano qua in Germania per non farsi ammazzare”.
Deniz e Ahmet ci guardavano sorridendo. Non avevano capito le parole, ma il discorso era loro chiaro.
Quando è arrivato di nuovo il venerdì sera, siamo usciti. Mi sentivo già molto diverso dalla volta precedente, molto più inserito, quasi tedesco, anche se avevo imparato solo poche parole, quelle che mi servivano per comunicare con Deniz e Ahmet, il cui inglese proseguiva davvero poco oltre il “nice to meet you”.
Alla birreria c’era la stessa allegra combriccola della settimana prima. Qualcuno era arrivato prima di noi, altri ci hanno raggiunto dopo. A un certo punto è arrivata Sandra che mi ha presentato Claus, suo fratello, un ragazzo della mia età con in testa una criniera di riccioli compatti come quelli di Bob Marley, solo più corti e biondi. Ci siamo seduti vicino e abbiamo cominciato a parlare. Mi ha fatto le solite domande, poi mi ha raccontato di lui. Ha un anno in meno di me, studia al liceo scientifico e vive lì vicino alla birreria con i suoi genitori. Gli piace la musica, anche l’hardcore punk e il rap, come a me, ma in particolare ama la musica reggae. Mi ha parlato di vari gruppi che io non conoscevo, come Steel Pulse e Black Uhuru, oltre a quelli che già conoscevo come i Wailers di Bob Marley e Peter Tosh. Dice che mi farà delle cassette.
“Se ti piace l’hardcore devi venire al concerto di domani. Al Centro Giovani suonano gli Spermbirds, ci sarà un sacco di gente”.
Dopo un po’ ci siamo salutati dandoci appuntamento per il giorno dopo e scambiandoci i numeri di telefono. Io ho deciso di tornare a casa da solo, che ormai conosco la strada, e mio zio sembra impegnato con le sue amiche e con poca intenzione di andare a dormire.
Cammino per la strada vuota e silenziosa che mi porta a casa e penso che sono felice della mia nuova vita e degli amici che mi sto facendo.
Il giorno dopo mi incontro con Claus al pomeriggio davanti alla birreria e poi raggiungiamo il centro della città, prima camminando e poi prendendo un autobus. Non ero ancora venuto nel vero centro della città e sono colpito dalla pulizia e dall’eleganza dei negozi. Oltretutto dove ci lascia l’autobus è una zona esclusivamente pedonale e le auto sono bandite.
Claus è cortese e simpatico ma un po’ perso nei suoi pensieri, l’inglese poi non semplifica la nostra conversazione anche se lui lo parla molto bene, meglio di me che comunque me la cavo discretamente.
Il Centro Giovani occupa uno stabile al centro di un parco pubblico e quando siamo arrivati era già pieno di gente, soprattutto ragazze e ragazzi della nostra età, ma anche più giovani. Il concerto si teneva all’aperto, il palco era stato piazzato in un prato appena fuori dal Centro, mentre all’interno c’erano sale con sedie, tavoli, qualche divano e tante foto appese alle pareti. C’era anche una piccola biblioteca, alcune sale prova per i gruppi e un bar che però non serviva alcolici. Tanti ragazzi portavano con loro buste della spesa piene di birra e altri facevano la spola con un chiosco lì vicino.
Per prima cosa ci siamo addentrati tra la gente per dare un’occhiata in giro. Tanti capelli colorati, magliette dei gruppi punk, creste alla moicana e giubbini di pelle con le borchie e le scritte, non ne avevo mai visti così tanti tutti insieme. C’erano dei ragazzi con lo skateboard che provavano dei salti e delle manovre sulle panchine in cemento di un piccolo anfiteatro all’interno del parco. Anche di quelli non ne avevo mai visti, a Karlovac al massimo ci giocava qualche ragazzino per strada, ma erano più piccoli, di plastica. Quelli erano grandi e di legno con bellissimi disegni, ne avevo visti così nelle foto sui dischi di alcuni gruppi americani come i Suicidal Tendencies. In quelle fotografie apparivano sospesi per aria come se volassero e mi ero sempre chiesto come facessero.
Claus mi ha detto: “Un giorno di questi ti porto alla rampa così vedi quelli bravi”.
Seduti su una panchina un paio di ragazzi con la testa rasata sembravano guardare male tutti quanti. Quando Claus ha notato che li guardavo ha detto ridacchiando: “Quelli sono dei fascisti, poveri coglioni”. “Io li odio i fascisti”, gli ho risposto, guadagnandomi un sorriso e una pacca sulla spalla.
Poi ci siamo fermati con degli amici di Claus, un bel gruppo di ragazzi e ragazze. Lui ha salutato tutti, uno per uno, prese...

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