Capitolo 1
Quale Amleto? ossia Dal copione al testo
HAMLET – To be, or not to be, I there’s the point,
To Die, to sleep, is that all? I all:
No, to sleep, to dreame, I mary there it goes,
For in that dreame of death, when wee awake,
And borne before an everlasting Judge,
From whence no passenger ever returned,
The undiscovered country, at whose sight
The happy smile, and the accursed damn’d.
Hamlet, da Q1 (detto anche Bad Quarto)
AMLETO – Essere, o, non essere, sì, questo è il punto:
morire, dormire, ed è tutto? Sì, tutto.
No, dormire, sognare, sì, certo qui è il nodo,
poiché in quel sogno di morte, quando ci svegliamo
e siamo condotti davanti a un Giudice eterno,
da cui nessun passeggero è mai ritornato,
il paese inesplorato, alla cui vista
i giusti sorridono e i maledetti sono dannati.1
HAMLET – To be, or not to be – that is the question;
Whether ’tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them: to die to sleep,
No more, and by a sleep to say we end
The heart ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ’tis a consummation
Devoutly to be wished.
Hamlet, da Q2 (1604-1605) e Folio (1623)
AMLETO – Essere, o non essere: la domanda
è questa: se sia più degno soffrire nella mente
fiondate e frecce della labile fortuna,
o prender l’armi contro un mar di guai
e resistendo farsene travolgere. Morire... dormire,
è tutto; e con quel sonno smette
il crepacuore, i mille assalti che per natura
toccano a ogni carne: annientamento
in cui sperar con fede.
Si confrontino i due testi. Una conclusione legittima ma frettolosa a cui arriverebbe ogni persona sensata, ma ignara della spinosissima questione testuale shakespeariana, è che il primo deriva senz’altro dal secondo, anzi, qualcuno, un attore particolarmente cane e smemorato o il cretino della classe, sta tentando di citare qualcosa che aveva imparato male a memoria e quel che ne esce è una sintesi a guazzabuglio del secondo testo, con interpolazioni a braccio a riempire i vuoti di memoria. Interpretazione più raffinata sarebbe pensare che il primo testo sia fonte del secondo, e che quindi predati il secondo. Ma a questo punto ci si apre un’altra alternativa: il primo testo non è di mano di Shakespeare; gli è servito però come spunto per il suo Amleto, oppure, anche il primo testo è suo, è una prima traccia di quel che nel corso di prove e rappresentazioni, per correzioni e accrezioni successive – da non escludere anche l’intervento degli attori – è venuto a depositarsi nelle due fonti citate del secondo testo. Bel doppio dilemma, la cui soluzione prevede che ci si addentri un poco in questioni di editing e di filologia. Ma il mio interesse principale non è quello del filologo, non mi interessa datare, stabilire una probabile Editio Princeps, o determinare la genealogia di una parola. Ho interessi più immediati, quelli di un praticon de man del teatro: da un lato, come dramaturg, vedere quali alternative di drammaturgia spalanchino le numerose e macroscopiche varianti tra un testo e l’altro; dall’altro, come traduttore per il teatro – non per l’Accademia – grazie all’indagine drammaturgica, arrivare a un testo coerente da offrire agli attori e al regista. Siamo da troppo tempo abituati a un teatro in cui sempre si va dal testo a stampa al copione, per capire un teatro in cui prima nasceva il copione, e solo sul copione si lavorava, e la possibilità di un’edizione a stampa il più delle volte neanche era contemplata. Lasciamo quindi in sospeso per qualche tempo il mistero dei due, o più?, Amleti, e cerchiamo di capire attraverso quale insieme di pratiche si veniva costituendo quello che nel gergo tecnico del teatro all’italiana ho chiamato il «copione».
Né marmo né dorati monumenti
AMLETO – Seguitelo, amici. Si farà spettacolo domani. – [al Primo attore] – Vecchio amico, senti un po’! Avete in repertorio il dramma L’assassinio di Gonzalo?
PRIMO ATTORE – Sissignore.
AMLETO – Ce lo reciterete domani. Senti, nel caso serva, potresti studiarti una battuta di un dodici sedici versi, che butterei giù io stesso e inserirei al punto giusto?
PRIMO ATTORE – Ma certo, Principe.
Amleto, Atto II, scena seconda
Nulla ci è rimasto degli archivi delle compagnie di Shakespeare; le carte di Philip Henslowe, manager di una compagnia rivale, gli Admiral’s Men, documentano però in dettaglio tutte le fasi di lavoro al copione e le tecniche d’apprendimento delle parti. Ho già accennato che i testi erano il capitale principale di una compagnia, organizzata come una rudimentale società per azioni. Quando l’autore, o gli autori – considerate, per esempio, le celebri ditte Beaumont & Fletcher o Middleton & Rowley – consegnavano il testo, la prima preoccupazione del prompter – il suggeritore, ma con funzioni di istruttore degli attori, definito anche book-holder, colui che tiene, o custodisce, il libro – o del manager – l’organizzatore e direttore della compagnia – era quella di porlo al sicuro in un’apposita cassaforte, le cui chiavi rimanevano al prompter. Il plagio da parte di compagnie rivali era all’epoca una più che giustificata ossessione. Al punto di temere come una vera calamità il passaggio di un attore, o prompter a una compagnia rivale, col suo patrimonio di memoria.
La fase successiva, in un’epoca senza macchine copiatrici, era la lettura ad alta voce, ma non come avviene oggi nelle prove «a tavolino» del teatro italiano, ossia dividendo le parti fra gli attori; era una lettura a voce sola, di solito quella dell’autore – spesso anche attore, o con altre mansioni nella compagnia. È certo che gli attori riuniti prestavano la massima attenzione, poiché questa era l’unica occasione di farsi un’idea della struttura drammaturgica del testo; infatti, in nessun altro momento avrebbero mai avuto in mano il testo intero. La fase seguente era la copiatura delle parti da distribuire agli attori, compito che spettava al prompter. Potrà apparire bizzarro, ma il partbook che riceveva l’attore non era l’intero copione, il promptbook, di cui il prompter era il solo custode, ma soltanto le battute del suo personaggio – un poco come le parti d’orchestra rispetto alla partitura – scritte tutte di seguito, ciascuna delle quali era preceduta dalle ultime due o tre parole della battuta precedente dell’altro personaggio. Questi segnali erano detti cues, che nell’uso italiano potremmo tradurre come «imbeccate». Il più delle volte però l’attore non memorizzava la sua parte da solo; veniva istruito dall’autore, o dal prompter, o da un altro attore che aveva già rappresentato quella parte, e che gli si poneva di fronte e gli agiva la parte, parole e gesti – un po’ come nell’insegnamento della danza classica – e gliela faceva ripetere più volte. Particolare era il caso dei ragazzi che interpretavano parti di donna. Questi erano chiamati apprentices, apprendisti, e infatti, proprio come nell’artigianato antico, venivano per così dire messi a bottega da un maestro, un attore esperto, presso cui alloggiavano, avendo così modo di studiare a fondo una parte in un intenso rapporto personale. È interessante notare che nei maggiori e più lunghi ruoli di donna del teatro shakespeariano la maggior parte delle battute del personaggio capita nel dialogo col loro partner maschile – di Desdemona, per esempio, con Otello, di Lady Macbeth con Macbeth, di Cleopatra con Antonio – ossia, con l’attore che nella vita era il loro personale maestro e che sulla scena dava loro il maggior numero di imbeccate. Era un modo per dirigerli anche sulla scena, tenendoli sotto continuo controllo, e ottenendo così da ragazzi giovanissimi, cui ancora non si era «rotta» la voce, interpretazioni notevoli di ruoli assai complessi.
E le prove d’insieme? chiederebbe subito un regista o attore moderno. L’uso era che ce ne fosse una soltanto poco prima del debutto. Ed era questa la seconda occasione per gli attori di farsi un’idea complessiva della drammaturgia del testo. Dovendo rappresentare sei diversi plays a settimana, non c’era il tempo. Lo svantaggio che si intravede è che a ogni debutto gli attori avevano un’idea assai approssimativa del risultato d’insieme. C’è caso però che compensassero con la tensione elettrica che si creava sulla scena; tasso altissimo d’adrenalina nel sangue e orecchie sempre aguzze a cogliere con prontezza le imbeccate. Come vorrei avere la macchina del tempo per poter assistere a una di quelle prime!
Dopo il debutto di un nuovo play, in una riunione di compagnia si valutavano le reazioni del pubblico e, se necessario, si introducevano alterazioni prima della seconda. Di fronte a un chiaro insuccesso, alcuni plays venivano abbandonati dopo la prima, altri dopo tre repliche. Se invece aveva successo, entrava nel repertorio, più o meno intatto, anche se per le riprese in una stagione successiva, spesso lo si rimaneggiava. Da non escludere che nel rimaneggiamento si tenesse conto di suggerimenti degli attori o che addirittura intervenissero altre mani, così come, del resto, oggi abbiamo cominciato a scoprire che la mano di Shakespeare interviene in testi altrui.
Siamo abituati a vedere i plays shakespeariani nelle edizioni a stampa del nostro tempo – c’è un importante precedente che vedremo tra poco – normalmente divisi in cinque atti. E, per orientarci nel testo, di regola si dà il numero d’atto in carattere maiuscolo e la scena in minuscolo. Nella pratica corrente, vengono in genere rappresentati in due parti, con un solo intervallo, e si cerca quasi sempre di far coincidere la pausa con un finale d’atto, o il secondo o il terzo. I plays sono però stati concepiti come una sequenza continua di scene, l’unità drammaturgica di cui tenere conto è la scena, non l’atto. E in sequenza continua erano rappresentati. Nei grandi teatri a cielo aperto, come lo Swan o il Globe, dove l’unica fonte di luce era quella del giorno – anche se per significare notte gli attori comparivano in scena con torce accese, sineddoche simbolica del buio – lo spettacolo iniziava alle due del pomeriggio, e, per norma d’ordine pubblico, alle cinque i teatri dovevano essere sgombrati. Allo spettacolo principale seguiva, d’abitudine, a jig, una giga, che non era soltanto la vivace danza britannica in 6/8, ma una breve farsa scatenata che aveva il compito di risollevare l’animo degli spettatori, se troppo avevano pianto a una qualche tragicall historie. Dal 1608, la compagnia di cui Shakespeare era socio, i King’s Men, si assicura anche l’uso del Blackfriars, teatro al chiuso a illuminazione a ...