Canone inverso
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Canone inverso

Paolo Maurensig

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Canone inverso

Paolo Maurensig

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Uno scrittore, appassionato musicofilo, incontra a ViennaJenö Varga, un violinista ambulante in grado di suonarecon meravigliosa naturalezza la complicatissima Ciacconadi Bach. In seguito a quali disavventure un artista eccelso siè ridotto a trascinare per bettole e osterie un talento cheavrebbe potuto aprirgli i palcoscenici dei teatri più celebridel mondo? Qual è la forza terribile che è entrata nella suavita? Paolo Maurensig costruisce magistralmente un'avventurain cui le sorprese, i trasalimenti, i colpi di scena non sonopuri espedienti narrativi, ma simboli drammatici dello scontrotra le inquietudini, la delicatezza delle anime individualie la ferocia della storia di questo secolo.

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2010
ISBN
9788852012518
Categoría
Letteratura
Sulle origini degli strumenti ad arco si narra che la dea Parvati, sposa di Shiva, impietosita dal destino cui andava incontro l’uomo nella sua avventura terrena, avesse deciso di donargli qualcosa per proteggerlo dai demoni e fargli ritrovare anche sulla terra, qualora lo volesse, il mondo degli dèi. Ma Shiva, geloso di queste attenzioni, con un sol colpo distrusse il suo dono. I frammenti caddero nei mari e sulle foreste, e diedero vita alle conchiglie e alle testuggini, si impressero nel legno degli alberi, discesero fin nei lombi della donna. All’uomo arrivò, intatto, solo l’arco, ma questo fu usato per molte generazioni come un’arma. Fu la prima corda vibrante. Dovettero passare molte ere divine perché l’uomo riuscisse a costruire con un guscio di tartaruga il suo primo liuto, che però veniva ancora pizzicato con le dita. Ma fu solo all’approssimarsi dell’ultima e più temibile èra che l’uomo scoprì come il suo arco potesse servire per far vibrare le corde e imitare così quel suono continuo che aveva generato il mondo, il soffio emanato dalle vesti roteanti di Shiva, il dio danzante, Colui che regge e mantiene l’ordine dell’universo.
Qualche tempo fa, a un’asta di strumenti musicali da Christie’s, a Londra, riuscii ad aggiudicarmi per sole ventimila sterline un violino di Jakob Stainer, uno dei più apprezzati liutai tirolesi del Seicento. Mi considerai fortunato: per averlo sarei stato disposto a pagare qualsiasi prezzo.
Lo strumento mi venne recapitato la mattina dopo all’albergo Dorchester, dov’ero alloggiato. Sulla scheda informativa, come ultimo proprietario figurava il nome di un istituto psichiatrico di Vienna che conoscevo bene.
Quel giorno approntai un preciso, meticoloso rituale. Per prima cosa ordinai il pranzo in camera, dopodiché, congedato il cameriere, chiusi la porta a chiave, scartai il pacco, tolsi lo strumento dall’imballo di cartone, e lo appoggiai ritto su una bassa poltrona di raso che avevo già collocato al centro della stanza. Scostai le tende, cambiai più volte di posto la poltrona per trovare la giusta luce, e infine sedetti a tavola. Già pregustavo un pomeriggio delizioso: l’incontro, la segretezza, gli sguardi, l’aspettativa; mi stavo comportando proprio come al mio primo rendez-vous con una bella donna. Il paragone difettava solo nel fatto che l’oggetto dei miei desideri aveva più di trecento anni. Ma per il resto c’era tutto: la passione, la gelosia, l’insaziabilità, uniti alla paura sempre incombente della perdita.
Mi apprestavo, dunque, a consumare il mio pasto in tutta calma, appagando nel contempo la vista. Solo alla fine del pranzo avrei osservato l’acquisto un po’ più da vicino. L’avrei dapprima soppesato a lungo, esaminandolo con una lente d’ingrandimento in ogni particolare, fino all’interno, per quanto mi era possibile, attraverso una delle sinuose fessure a forma di effe che lasciavano intravedere, incollata sul fondo, un’etichetta sbiadita e quasi illeggibile. Avrei sostituito, con una muta di corde nuove, le due sole rimaste che, consumate com’erano, si trovavano al limite di rottura. E finalmente ne avrei sentito la voce.
Lo strumento era in buone condizioni. Forse non era stato trattato con molta cura, ma di sicuro non necessitava di delicati interventi di liuteria, se non per qualche minuscola scheggiatura e per la vernice scomparsa in varie parti, e in un punto soprattutto, sul fondo, dove s’intravedeva il nudo legno: evidentemente il violino era stato sempre adoperato senza spalliera.
Un particolare notevole era costituito da una testina antropomorfa intagliata sul cavigliere al posto della chiocciola tradizionale. Particolare insolito per un violino, perché normalmente queste minuscole sculture lignee si ritrovano sulle viole e sugli strumenti più grandi, rappresentano per lo più teste leonine o volti grotteschi, e hanno un significato più scaramantico che ornamentale. Questa invece riproduceva molto finemente il volto di un uomo, si sarebbe detto un mammelucco, dai lunghi baffi spioventi, l’espressione feroce, e la bocca spalancata come in un urlo di dolore o di maledizione. Avevo sempre pensato che quello era l’ultimo violino di Stainer. In quel volto egli aveva forse voluto ritrarre la furia della pazzia che si approssimava e che l’avrebbe portato alla morte.
Mi ero appena seduto a tavola quando squillò il telefono. Dalla reception mi annunciavano la visita di una persona che veniva direttamente da Christie’s. Pensai si trattasse di qualche altra formalità relativa all’acquisto, ma l’uomo che lasciai entrare qualche minuto dopo non aveva l’aria di essere un impiegato.
Sembrava agitato. Mi chiese se ero io la persona che il giorno prima aveva acquistato un violino da Christie’s. Alla sua domanda così diretta temei di trovarmi di fronte un funzionario di polizia venuto, chissà, forse per notificarmi che nell’acquisto c’era qualcosa di irregolare. Infatti accade a volte, seppure raramente, che qualche oggetto messo all’asta risulti rubato, smarrito o anche solo non legittimato alla vendita. E ciò rende nulla la contrattazione. Fui preso da una forte inquietudine. Già mi vedevo nell’atto di dover restituire il mio prezioso violino. Ma l’uomo, del quale avevo già scordato il nome con cui si era presentato, non era un rappresentante della legge. L’acquisto era del tutto regolare. Me lo confermò lui stesso non appena si fu accorto del mio turbamento. Aveva già notato il violino in bella mostra sulla poltrona e, resosi conto d’aver interrotto con quell’intrusione il mio cerimoniale, volle riparare in qualche modo: mi disse che ero stato fortunato a non trovare contendenti, pagando per quello strumento il solo prezzo della stima iniziale. Aggiunse che, sebbene informato del bando, per una serie di malaugurate circostanze era arrivato troppo tardi all’appuntamento nelle sale di King Street, in St. James’s. Mentre parlava non riusciva a staccare lo sguardo dal violino, si muoveva avanti e indietro come se volesse osservarlo sotto ogni punto di luce. Non osava tuttavia avvicinarsi troppo, anche se intuivo che il suo desiderio era proprio quello di esaminarlo attentamente.
Cercavo di mantenermi saldo nella convinzione che lo sconosciuto non rappresentasse alcuna minaccia per il mio prezioso strumento. Ma non ero tranquillo. Continuavo a interrogarmi sul motivo di quella visita. A giudicare dal suo comportamento, avrei detto che era un collezionista, un amatore di strumenti antichi, il quale, battuto sul tempo, era venuto a congratularsi con chi era stato più fortunato di lui, e a dare forse un ultimo addio a quel pezzo prezioso che si era lasciato sfuggire. A meno che…
E quel che temevo accadde quasi subito. Fattosi improvvisamente nervoso, quasi stesse per propormi qualcosa di poco pulito, l’uomo mi chiese se sarei stato disposto a cedergli il violino per il doppio, anzi per il triplo della cifra che avevo pagato. Fissassi io il prezzo, disse, quasi travolto dalla sua stessa improntitudine. Infine, come esaurito da quello sfogo, mi chiese il permesso di sedere e si lasciò cadere su una poltrona.
«Questa è la prova che non ho sognato…» mi sembrò di sentirgli dire sottovoce, ma evidentemente non era a me che si rivolgeva. Né io cercai di scoprire che cosa intendesse con quelle parole. Restammo immersi in un silenzio che sembrava senza via di uscita. Io non mi sentivo di chiedergli nulla, né lui sembrava disposto ad aprir bocca. Gli versai un bicchiere di vino che non rifiutò, ma che tenne in mano per lungo tempo senza mai portarlo alle labbra. Sembrava essersi calmato, o meglio, rassegnato. A un certo punto si alzò, posò il bicchiere e, avviandosi verso la porta, si scusava per l’inopportuna intrusione e per la richiesta impossibile. Si rendeva conto, mi disse, della propria ingenuità. L’offerta di ricomprarmi il violino a un prezzo triplicato era oltre tutto fuori dalla realtà, non potendosi egli permettere di sborsare una somma simile. E comunque era certo che, anche se avesse potuto disporne, io non avrei mai ceduto alle sue richieste. Si diceva dunque molto dispiaciuto di avermi messo a disagio, e di avermi rovinato la colazione.
Mi sentii sollevato. Ma solo per un momento. Questa sua inaspettata decisione di andarsene senza dirmi chi era e perché s’interessava tanto a quel violino, mi indispettì.
«Non pensa di dovermi una spiegazione?» gli chiesi un attimo prima che aprisse la porta. L’uomo si arrestò e tornò sui suoi passi, scuotendo la testa.
«Non sono un collezionista deluso,» spiegò «come il mio comportamento lascerebbe supporre. E non sono neppure un violinista» aggiunse. «Sono solo un dilettante, un appassionato. Posseggo, è vero, alcuni strumenti, ma la mia non può dirsi una collezione. Ho a casa un paio di violini del Mittenwald, appartenuti a mio nonno, e un violoncello moderno sul quale a volte mi esercito, ma per puro diletto personale.»
«Mi sembrava un intenditore» dissi.
«Quel poco che so sui violini l’ho appreso da un mio amico che fa il liutaio.»
«E perché mai s’interessa a questo violino?»
«Sono uno scrittore, e questo strumento è legato a una storia. A una storia terribile a cui però vorrei mettere la parola fine. Ed è anche la prova che la persona che me l’ha raccontata è realmente esistita, sebbene questo non spieghi ancora tutto.»
«Realmente esistita? Che cosa intende dire?» Cominciavo a temere di trovarmi di fronte a uno squilibrato.
A quest’ultima domanda l’uomo attraversò la stanza a grandi passi e afferrò con sicurezza il violino. Era un gesto che non mi aspettavo e che mi spaventò. Lo portò accanto alla finestra per osservarlo meglio. «Lei permette, vero?» Dentro di me tremavo. In quel momento avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Infilare la porta e fuggire con lo strumento, o, anche peggio, frantumarlo contro la parete, o ancora, visto che la finestra era socchiusa, lanciarlo fuori, sull’affollata Park Lane. Per mia fortuna non fece nulla di tutto questo, e quando mi restituì il violino non potei fare a meno di provare un senso di benessere, di allegrezza quasi.
«Che cosa intendeva dire con quel realmente esistita?» gli chiesi per la seconda volta.
L’uomo pensò a lungo prima di rispondere. «Intendevo dire un essere vivente, in carne e ossa.»
Mi guardò come per studiare le mie reazioni. «Non vorrei essere preso per pazzo. Io ho conosciuto il proprietario di questo violino, e poi in seguito ho dubitato della sua esistenza. Finché non mi è capitato per puro caso di sfogliare il catalogo di Christie’s. Per questo mi premeva avere quest’unica prova. Ma forse dovrei raccontarle tutto dall’inizio.»
Io sedetti in poltrona, invitandolo a fare altrettanto, e a raccontare. Lo sconosciuto esitò un attimo, poi cominciò a parlare.
Il fatto che sto per narrarle avvenne un anno fa, a Vienna. Come ho già detto, non sono un musicista. Sono solo un appassionato, un melomane. La musica è la mia consolazione. Quest’arte, nella sua essenza sfuggente, nella continua vanificazione di se stessa, assomiglia all’idea che mi sono fatto della vita.
L’anno scorso, dunque, ricorreva il trecentesimo anniversario della nascita di Bach, e in tutta Europa si commemorava questa data con una serie straordinaria di concerti. Era una buona occasione per un pellegrinaggio musicale attraverso le capitali europee. Una di queste tappe, dopo Lipsia e Monaco, fu naturalmente Vienna, dove, nella Brahmssaal, il Neue Wiener Barockensemble, diretto da Heinz Prammer, aveva in programma, oltre ai sei Concerti brandeburghesi, la Suite in si minore e il Concerto per violino e orchestra in mi maggiore. Due serate frammezzate da una pausa di tre giorni, nei quali però non correvo il rischio di annoiarmi. Era la fine dell’estate, la città era ancora affollata e festosa, e il tempo, a parte qualche improvviso temporale, volgeva al bello.
Alla vigilia della seconda serata, cenai come d’abitudine in un ristorantino sulla Operngasse. Poi, visto che era ancora presto e non avevo nessuna intenzione di andare a dormire, fermai un taxi e mi feci portare a Grinzing, nel famoso quartiere degli Heurigen, le osterie dove si beve un vinello delizioso. Passeggiai per le vie del rione, sbirciando attraverso le vetrate e nei cortili alla ricerca di un locale accogliente e non troppo affollato dove trascorrere il resto della serata. Mi fermai a un’insegna che riproduceva il particolare di un quadro di Bruegel il Vecchio: la danza dei contadini al suono di una zampogna. Il dipinto era contornato dalle parole: amore, amicizia e musica. E a giudicare proprio dalla musica che si udiva, il locale sembrava offrire, se non anche amore e amicizia, almeno un po’ di allegria. Dentro c’era parecchia gente, ma riuscii a trovare un posto.
I viennesi a Vienna, soprattutto d’estate, sono una piccola minoranza rispetto alle legioni dei turisti; eppure quella sera, in quell’osteria, ero convinto di essere, se non l’unico, uno dei pochi forestieri presenti. Attorno a me si beveva, si conversava. Ogni tanto un brindisi a cui, nonostante il mio carattere riservato, mi associavo. Il brusio delle voci era denso ma contenuto, in modo da non disturbare chi preferiva invece ascoltare la musica. Su una pedana di legno, infatti, due suonatori, uno con la chitarra, l’altro con la zither, eseguivano motivi popolari. A nessuno veniva in mente di accompagnarli con il canto (abitudine da birreria, questa), ma alla fine di ogni brano c’erano applausi generosi e altri brindisi.
Da lungo tempo pensavo di scrivere una storia che avesse per protagonista la musica. È risaputo che la musica può dare grande enfasi a un testo poetico o teatrale, rendendo a volte sublimi dei versi altrimenti banali. Ma per quanto mi riguarda è difficile che possa evocare o suggerire qualcosa di drammatico. Al contrario, essa rappresenta sempre il più sicuro rifugio dai drammi della vita. Eppure in quel momento si stava insinuando nella mia mente un pensiero molesto. La musica eleva i sentimenti e la stessa natura dell’uomo, ma le vie per arrivarci devono passare attraverso lo stridore, il fragore, la dissonanza. Dietro la musica, eseguita con levità e perfezione, come la possiamo ascoltare nell’esecuzione raffinata di un’orchestra, o di un quartetto d’archi, c’è l’attrito dei nervi che si contraggono, il fiotto del sangue, il tumulto dei cuori. Tutt’a un tratto mi sorpresi a considerare la mia amata arte sotto un’altra luce. Immaginai l’infinità di suoni che si levano notte e giorno in tutto il mondo, e mi sovvenne lo sforzo di quella moltitudine di individui sparsi in ogni dove, i quali continuano a lottare per tenere in vita la musica, come un esercito che, decimato dal fuoco nemico, proceda al passo e rimpiazzi le perdite con forze sempre nuove, lasciando sul campo una lunga semina di morti.
Stavo pensando proprio a questo nell’osservare i due musicanti che, dopo aver esaurito il loro repertorio e raggranellato qualche scellino per il pasto dell’indomani, si apprestavano ad andarsene. Si assomigliavano: erano due vecchi, forse fratelli, con indosso abiti troppo pesanti per la stagione. E persino i loro movimenti, nel raccogliere gli spartiti dal leggio o nel riporre gli strumenti nelle custodie, erano simili: tutta una serie di gesti che si perpetuavano da chissà quanti anni, finanche il lento vuotare sino all’ultima goccia, già con le borse a tracolla e con il cappello in testa, il bicchiere di vino che qualcuno aveva loro offerto al termine della serata. Non me n’ero accorto, ma uno dei due, il suonatore di zither, era cieco e nel camminare si appoggiava con una mano alla spalla del compagno.
Li guardai andarsene, provando una certa malinconia. Forse quello era il loro unico mezzo di sostentamento. E mi chiedevo se fosse qualche oscuro impresario, oppure solo il caso, a disporre i luoghi e i tempi delle loro uscite. Intanto, quasi a compensare il vuoto che avevano lasciato, la conversazione ai tavoli s’era fatta a un tratto più serrata, ma senza un sottofondo musicale s’era perduta ogni allegria, e sembrava che non ci fosse più nessuna cosa al mondo a cui poter brindare.
Poco dopo la porta d’ingresso si aprì facendo tintinnare un grappolo di campanellini appeso sopra lo stipite. Ed entrò lui, l’uomo di questa storia.
Era di età indefinibile, vestito come un cocchiere: stivali, mantello di cerata, e in testa una bombetta. La sua apparizione inaspettata mise fine a ogni conversazione. Non si capiva bene chi fosse, se un mendicante o un rapinatore. Dal fondo della sala si levò qualche risatina, che però si spense quasi subito. Restammo tutti in silenzio, finché, raggiunta che ebbe la pedana, l’uomo si inchinò più volte verso il pubblico, e scappellandosi con buffonesco sussiego proclamò, in tutta serietà, che dovevamo ritenerci fortunati di poter ascoltare, “per una somma che solo il nostro buon cuore avrebbe stabilito”, un grande violinista. A queste parole la sala si rianimò. Qualcuno dal fondo gli gridò qualcosa, e lui ribatté prontamente con una frase in dialetto che non riuscii a capire, ma alla quale molti risposero con un applauso.
L’uomo portava vistosi baffi grigi e spioventi, alla tartara, ma i capelli, in contrasto, erano ancora scuri, e lunghi al punto che li teneva raccolti sulla nuca, in un codino stretto da un elastico. Anche guardandolo meglio, trovavo difficile stabilirne l’età (sebbene, di sicuro, avesse passato da un pezzo la cinquantina); il suo volto era come una maschera: rubizzo, gli occhi spiritati e una mimica da teatrante. La voce era sonora, il gesto eloquente. Sembrava un guitto scaricato da un carrozzone d’altri tempi.
Si tolse il mantello, e in maniche di camicia, un logoro indumento a righe, segnato da due vistose bretelle rosse, sfilò da tracolla un malandato astuccio di cartone e, trattone un violino, lo imbracciò aggiustandone l’accordatura. Dalla platea si levò immediatamente un coro di richieste, che l’uomo dopo un po’ cominciò a soddisfare: Strauss, Lehár, e La principessa della czarda e il Bel Danubio blu. Eseguiva tutto con maestria e con un profluvio di variazioni che mandavano in visibilio l’uditorio. Dopo un po’ scese dalla pedana e cominciò a passare tra i tavoli, recitando a soggetto, a seconda di chi si trovava davanti, la parte di cupido con gli innamorati, o quella del seduttore con le donne sole. Non risparmiava gli scherzi. Si avvicinava alle coppie, con una predilezione per quelle che avevano una certa aria clandestina, e senza mai smettere di suonare bussava con il gomito sul petto dell’uomo che si era dimostrato restio a concedergli una moneta, mentre con la punta dell’archetto andava a solleticare il décolleté della sua giovane dama. Sebbene a volte passasse il limite, nessuno sembrava risentirsi. Godeva della stessa impunità dell’attore che si nasconde sotto una maschera, sia pure repellente. Persino quei suoi abiti lavati unicamente dalle piogge apparivano come un prezioso costume di scena. Così in poco tempo era riuscito a stabilire con il pubblico un legame non solo di confidenza, ma addirittura di complicità.
Il tavolo al quale mi trovavo era lontano dal suo improvvisato proscenio, egli però ammiccava spesso anche dalla nostra parte, come per volerci assicurare che non ci aveva dimenticati e che fra non molto sarebbe venuto anche da noi. Mi chiedevo con quale spirito avrei sopportato i suoi scherzi, qualora si fosse avvicinato a me.
Intanto quel violinista dava spettacolo, e la gente rispondeva con salve di battimani che gli infondevano sempre nuova energia. Oltre ai valzer di Strauss e alle arie di operetta, si esibì in virtuosistici pezzi tzigani, dove sfoggiò non solo grande bravura, ma destrezza acrobatica, tenendo il violino nei modi più impensati. Tra un pezzo e l’altro si fermava per bere il vino che gli veniva offerto dagli entusiasti spettatori. Ogni tanto faceva il giro dei tavoli e il suo copricapo si riempiva di monete e banconote. Lui se lo calcava in testa pieno com’era, e riprendeva a suonare con rinnovata foga. Ma quando, dopo un po’, se lo toglieva di nuovo, era bell’e vuoto, e il suo piccolo trucco mandava tutti in visibilio, facendogli guadagnare ancora applausi, e altro denaro che spariva, anche questo, nel suo cappello da prestigiatore.
Osservandolo, intanto, io ero tornato alle mie riflessioni. Ecco un superbo esemplare di combattente della musica, o meglio, di soldato disperso, e cercavo d’immaginarmelo bambino, in piedi, di fronte a un leggio, intento a cavar note dal suo riottoso strumento. Mi figuravo gli anni di studio, le aspirazioni, i primi passi nel mondo della musica, e infine una carriera chissà perché mai interrotta. Ma sarà stato poi davvero un musicista di carriera? Non ne ero convinto del tutto. Guardando, durante i concerti, l’anfiteatro delle orchestre, in particolare la sezione degli archi, avevo sempre visto tanta gente ordinata, disciplinata, simile a scrivani, a copisti, veri e propri calligrafi della musica, sacrificati a un tenace, pedante lavoro di precisione. Come tante altre professioni, anche quella del violinista provoca sollecitazioni fisiche che, prolungate nel tempo, imprimono alle persone caratteristiche inequivocabili, una precisa fisionomia. Il violinista che suona in orchestra viene segnato dallo strumento che per una vita è stato il suo padrone. E con l’età le tracce di questo vassallaggio si fanno sempre più evidenti: nei suoi occhi c’è una sorta di malinconia, nei suoi gesti un atteggiamento di dedizione incondizionata. Nel violino di fila non c’è l’accanimento del solista che vuole piegare le note alla propria volontà; la musica per lui è semplicemente materia: suoni di diversa altezza e durata d...

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