La democrazia in trenta lezioni
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La democrazia in trenta lezioni

Giovanni Sartori, Lorenza Foschini

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La democrazia in trenta lezioni

Giovanni Sartori, Lorenza Foschini

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Che cosa vuol dire "democrazia"? In quali e quanti modi può funzionare? Si può esportare? La democrazia è in pericolo? E qual è il suo futuro? Dal più celebre politologo italiano, trenta lezioni di assoluta limpidezza che offrono al cittadino un prezioso strumento di conoscenza per la difesa dei propri diritti e della propria libertà.

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2010
ISBN
9788852012228

Lezione 1
Demos e populus

Cominciamo col definire la parola «democrazia». È importante definirla – sapere che cosa vuole dire – per stabilire che cosa pretendiamo o ci aspettiamo dalla democrazia. Attenzione, però, perché è un discorso insidiato da trabocchetti. Il primo è terminologico: discutere sulla parola ignorando la cosa. Iniziamo quindi dalla parola, la cosa la vedremo dopo.
La parola greca demokratia è composta da demos, che vuol dire «popolo», e da kratos, che vuol dire «potere». Perciò, tradotta in italiano, essa significa «potere del popolo». Se è così, le democrazie «devono essere» quel che la parola dice: sistemi e regimi politici nei quali è il popolo che comanda. Tutto risolto? No. Innanzitutto, chi è il popolo? E poi, come attribuire potere al popolo? Come si fa?
Già dal quinto-quarto secolo a.C. la parola demos ha avuto svariate interpretazioni. Per i greci la parola poteva essere ricondotta a quattro significati:
1) plethos, cioè il plenum, l’intero corpo dei cittadini. Qui il popolo sono «i tutti».
2) hoi polloi, «i molti». L’inconveniente di questa accezione è che rinvia alla domanda: «Quanti molti sono sufficienti per fare un demos?». Lo dovremmo stabilire ogni volta, e questo non va bene.
3) hoi pleiones, «i più». Questa è, invece, un’accezione fondamentale, perché la democrazia si fonda, come vedremo, su una regola maggioritaria che ne deriva.
4) ochlos, «la folla»: un raduno occasionale che, però, può diventare «caldo». Ad Atene la folla era importante perché era una democrazia diretta. Ma ridiventa importante man mano che la democrazia dei moderni attiva le folle e se ne avvale.
Lasciando i greci, il discorso diventa ancora più complesso non appena il demos viene riconvertito nel latino populus, perché i romani – e ancora di più la cultura medievale – faranno di populus sia un concetto giuridico sia un’entità organica. Infine si deve ricordare un significato che in parte è aristotelico (il demos sono «i poveri») e in parte è marxista (il popolo è «il proletariato»). In questa ottica il popolo è una parte del demos, quella più povera o quella più numerosa.
Come si vede, l’intrico non è piccolo, ma viene semplificato oggi da due nozioni «operative» di democrazia (operative nel senso che guardano alla democrazia per come opera). In questo contesto troviamo il principio di maggioranza assoluta oppure relativa. Il primo vuol dire: i più hanno tutti i diritti, mentre i meno, la minoranza, non hanno nessun diritto. Invece il principio di maggioranza relativa si esplica così: i più hanno diritto di comandare, ma nel rispetto dei diritti della minoranza. Quindi, da un punto di vista operativo, il demos è una maggioranza, o assoluta o moderata, e la dottrina è pressoché unanime nel sostenere che la democrazia si deve ispirare al principio di maggioranza limitata o moderata. Altrimenti vive per un giorno e comincia a morire il giorno dopo.

Lezione 2
Titolarità ed esercizio

Tutti sappiamo, più o meno, come dovrebbe essere una democrazia ideale, mentre si sa troppo poco delle condizioni necessarie per ottenere una democrazia possibile, una democrazia reale.
Un primo punto da fermare, qui, è che tra un’e­sperienza democratica in piccolo e un’esperienza democratica in grande c’è un abisso. L’umanità ha penato per più di duemila anni per gettare un ponte tra le due sponde, e nel passare dalle piccole comunità democratiche alla democrazia dei grandi numeri fatta di interi popoli e nazioni è giocoforza perdere per strada molti dei requisiti che assicurano l’autenticità di un’esperienza democratica «faccia a faccia»; e non si può pretendere dalla democrazia su vasta scala quel che si può pretendere dalla democrazia su piccola scala. Il che continua a sfuggire. Per esempio, quando Mario Segni dichiara che un premier eletto dal popolo equivarrebbe a un «sindaco d’Italia»‚ è chiaro che la differenza tra micro- e macro-democrazia gli sfugge.
Nella lezione precedente abbiamo visto la definizione che potremmo dire «etimologica» della democrazia, tale perché ricavata dall’analisi del nome, e più specificamente abbiamo visto la parola «popolo» nelle sue varie accezioni. Passiamo ora a considerare l’accoppiata di «popolo» con «potere».
Che cosa è il potere? Il potere è una relazione: un individuo ha potere su di un altro perché gli fa fare quel che altrimenti non farebbe. Robinson Crusoe, solo sull’isola dove è naufragato, finché è solo non ha alcun potere, lo acquista soltanto quando arriva Venerdì.
Il problema è evidentemente più complesso quando il rapporto di potere non è più tra singoli, ma tra entità collettive. Lo schema, però, resta lo stesso. Il popolo (tutti) ha potere in quanto lo ha su altri. Su chi? Prima di rispondere si deve notare che «potere del popolo» è solo un’espressione ellittica e che, in questi termini, il processo politico resta sospeso a mezz’aria. Torno a chiedere: potere del popolo su chi? Ovviamente del popolo sul popolo. In questo processo c’è prima un movimento ascendente, di trasmissione di potere del popolo verso il vertice di un sistema democratico, e poi un movimento discendente del potere del governo sul popolo. Così il popolo è insieme, in un primo momento, governante e, in un secondo, governato.
Sono processi molto delicati perché se il tragitto non è sorvegliato, se nella trasmissione del potere i controllati si sottraggono al controllo dei controllori, il governo sul popolo rischia di non avere niente a che vedere col governo del popolo. A questo provvede il macchinario del costituzionalismo.
Ma per meglio chiarire il problema, occorre distinguere tra la titolarità e l’esercizio del potere. La titolarità dice: il potere mi spetta di diritto, è mio di diritto. Sì, ma qui abbiamo soltanto un diritto. E quello che conta è l’esercizio. Il potere effettivo è di chi lo esercita. La domanda cruciale, allora, è: come si fa ad attribuire al popolo, titolare del diritto, il diritto-potere di esercitarlo? La risposta è, in breve, che la soluzione di questo problema viene cercata, in una democrazia rappresentativa, nella trasmissione rappresentativa del potere. Come vedremo in seguito.

Lezione 3
Realismo e idealismo

Abbiamo analizzato il significato della parola democrazia. Ora dobbiamo accertare che cosa sia oppure che cosa dovrebbe essere. Alla prima domanda si risponde nell’ottica del realismo. Alla seconda si risponde in un’ottica razionalistica che ne sottolinea gli ideali, e in questo senso in un’ottica idealistica.
Il realismo è guardare alla democrazia come ­realmente è. La tradizione realistica risale a Niccolò Machiavelli. Del quale si dice che attendeva alla «verità effettuale» e che a questo modo scopriva la politica, o meglio fondava l’autonomia della ­politica. La fondava ricorrendo all’osservazione diretta e registrando senza infingimenti che la politica non obbedisce alla morale. Tuttavia, nel­l’interpretare Machiavelli, nel renderlo a noi contemporaneo, non dobbiamo dimenticare che egli osservava un microcosmo politico (i principati ­rinascimentali) del tutto incommen­surabile al nostro mondo. Un mondo che non era ancora ani­mato da ideali politici, ma semmai da ideali etico-religiosi.
Il razionalismo politico, invece, non accetta la realtà così com’è; semmai la costruisce dedutti­vamente. E man mano – prima nelle utopie, quindi dall’Illuminismo in poi – raffigura una società «ideale» o altrimenti sospinta da i­deali. Ed è il razionalismo che stabilisce che senza ideali non ci può essere democrazia.
Queste due ottiche hanno prodotto da un lato le democrazie empirico-pragmatiche, e dall’altro le democrazie di ragione. James Bryce, che è uno dei grandi autori che ­hanno affrontato questo tema, scrive che la democrazia razionalistica per eccellenza è quella francese, mentre la democrazia anglosassone è di tipo empirico-pragmatico, precisando così: la Francia ha adottato la democrazia «non solo perché il governo popolare sembrava il rimedio più completo ai mali incombenti … ma anche in omaggio ad astratti princìpi generali ritenuti verità evidenti». E Alexis de Tocqueville sottolinea così la differenza: «Mentre in Inghilterra quelli che scrivevano di politica e quelli che la facevano vivevano insieme la stessa vita … in Francia il mondo politico restò nettamente diviso in due zone non comunicanti. In una si amministrava; nell’altra si formulavano i princìpi astratti … Al di sopra della società reale … si costruiva a poco a poco una società immaginaria, nella quale tutto appariva semplice e coordinato, uniforme, equo e razionale». Ecco, allora, il contrasto e la differenza tra una democrazia di tipo raziona­listico alla francese e una di tipo empiristico all’inglese.
Una differenza che è anche di sviluppo storico. Mentre le democrazie di tipo francese nascono ex novo da una rottura rivoluzionaria, la democrazia anglo-americana emerge da un processo continuo. La Rivoluzione inglese del 1688-89 non rivendica un nuovo inizio, ma la restaurazione dei «diritti primigenii» dell’uomo inglese, e cioè il ripristino dei princìpi della Magna Charta violati dall’assolutismo delle dinastie Tudor e Stuart. Poco conta che quel passato fosse largamente mitico; importa che la «gloriosa rivoluzione» non fu una rottura innovativa ma venne intesa come un recupero, una ripresa di possesso. Quanto alla cosiddetta «Rivoluzione americana», non fu una rivoluzione ma una secessione. La Dichiarazione di indipendenza del 1776 rivendicava, in sostanza, il diritto dei coloni di procedere liberamente lungo il tracciato delle libertà di cui già fruivano gli inglesi. Non così in Francia, dove la Rivoluzione del 1789 si affermò, appunto, come una rottura intesa a rifiutare e cancellare in toto il passato.
In conclusione, il razionalista è portato a chiedere che cosa è (la democrazia), mentre all’empirista viene istintivamente da chiedere come funziona.

Lezione 4
Perfezionismo e utopia

È pacifico che nella democrazia gli ideali sono importanti. Sono importanti, ho già detto, perché senza ideali una democrazia non sarebbe. Dal che si ricava che la democrazia si può definire in modo realistico, ma si deve definire anche in modo idealistico, cioè prescrittivamente e non soltanto descrittivamente. Cos’è un ideale? Ovviamente è una reazione al reale. Non siamo mai contenti della realtà così com’è, e perciò la vorremmo come ci viene delineata dagli ideali. Quindi possiamo definire l’ideale un «contro-reale». Ma, attenzione, gli ideali sono difficilissimi da maneggiare, perché se li esageriamo si rischia di scivolare nel perfezionismo o nell’utopismo.
Il perfezionismo può essere definito un eccesso di idealismo, un idealismo fuor di misura, e come tale controproducente. Insomma, perfezionismo è un cattivo uso degli ideali. Ma qui mi voglio soffermare sull’utopismo.
Il termine fu coniato da Tommaso Moro, quando pubblicò Utopia nel 1516. Vi si descrive una buona società, retta da una pura ragione naturale, collocata in un’isola immaginaria. Il conio stava appunto per dire «in nessun luogo», dal greco ou (non) e topos (luogo). A differenza del perfezionismo, che può essere attivo, l’utopia nasce come un concetto puramente contemplativo. Tommaso Moro scrive Utopia con l’intento di criticare lo stato dell’Inghilterra sotto i Tudor, e così nel suo testo non dice che in «nessun luogo» sta per «impossibile», che l’inesistente di oggi è anche un inesistente per sempre. Tuttavia la parola ha viaggiato nei secoli successivi sulla forza del suo prefisso, della sua negazione: «no», non esiste; e nemmeno «mai» esisterà.
Così fino a Marx. Poi Marx inventò, nelle Tesi su Feuerbach, il filosofo rivoluzionario che trasforma l’utopia in realtà. Contestualmente, Marx predicava il passaggio dall’utopia alla scienza. Così, invece di essere un ideale contemplativo, l’utopia si trasforma in un progetto di azione. Il filosofo-re di Platone diventa il «rivoluzionariore» di Marx. Con il successo, o meglio l’insuccesso, che tutti abbiamo ancora sotto gli occhi. Il che non toglie che il concetto sia stato e resti radicalmente trasformato.
Oggi l’utopia non è più una finzione mentale senza luogo né tempo, non è più inattuabile. Invece si dice che «le utopie sono spesso verità premature» (Karl Mannheim, Ideologia e utopia), che ...

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