Fango e risate
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Fango e risate

Storia di San Patrignano (1975-1995)

Andrea Muccioli

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Fango e risate

Storia di San Patrignano (1975-1995)

Andrea Muccioli

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Andrea Muccioli avrebbe preferito il diritto all'oblio per suo padre Vincenzo, fondatore e anima carismatica della comunità di San Patrignano. Ma il successo della docufiction SanPa, le ricostruzioni arbitrarie e parziali, le insinuazioni e le tante ombre gettate sull'uomo lo hanno convinto a rompere gli indugi.
Fango e risate è la storia di San Patrignano dagli inizi, dalle prime riunioni del Cenacolo, dai primi ragazzi accolti in quella collina romagnola, fino al 1995, anno della morte di Vincenzo Muccioli, vista, vissuta e raccontata dal figlio. In questa cavalcata epica che somiglia a una saga familiare e si legge come un romanzo, ci sono molte rivelazioni, aneddoti e punti di vista inediti. Il ritratto privato di Vincenzo Muccioli, le sue recondite fragilità e paure, la sua sensibilità e sicurezza, il suo magnetismo e il suo carisma vengono raccontati con lo sguardo di un figlio che guarda il padre fare cose impensabili e grandiose. Ma non solo. San Patrignano è il risultato di un'idea, di una filosofia e di una vocazione ben precise. Dall'improvvisazione degli inizi alla costruzione di una metodologia. È il risultato, anche e forse più di tutto, di un'assenza clamorosa, quella dello Stato italiano con i suoi figli più problematici.
Fango e risate è un memoriale potente e commovente sull'impresa di uno dei personaggi italiani più celebri e controversi degli ultimi cinquant'anni di storia italiana. Un "arcitaliano" per antonomasia, un uomo che ha diviso l'opinione pubblica come poche volte è successo.

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Información

Año
2021
ISBN
9788858527689
1

Mani

My Way – Frank Sinatra, 1968
e/o
Adios nonino – Astor Piazzolla, 1959
Stringo la mano di mio padre. Ho sempre ammirato le sue mani. Enormi, ma eleganti, a dispetto della mole della sua figura. Penso a quante volte, con le sue mani, mi abbia toccato, stretto, trattenuto, schiaffeggiato, accarezzato, spinto. L’immagine più nitida che mi viene in mente siamo io e lui, seduti l’uno accanto all’altro, nel nostro salotto di velluto rosso, che ci stringiamo la mano in un gioco a chi cederà prima alla stretta dell’altro. È una cosa solo nostra, e forse è il nostro modo di dirci che ci vogliamo bene, che ci saremo sempre l’uno per l’altro.
Ora lascio quella mano. So che è l’ultima volta che l’avrò stretta. È il 19 settembre 1995. Ho trent’anni, ma oggi me ne sento cento. Non c’è più niente da fare. Lui sta morendo. Devo riuscire a raccogliere un po’ di energie e lucidità. In comunità mi stanno aspettando il presidente della regione Bersani e il suo vice Errani. Come tutti gli italiani, da alcuni giorni sono col fiato sospeso, preoccupati per le sorti della comunità. Ormai è chiaro, destinata a rimanere senza leader.
Mi sento come un automa, una specie di androide comandato da una forza estranea. Faccio paura a me stesso. Porto in visita in comunità i due politici, mostrando loro il nuovo ospedale specializzato nella cura dell’aids, i lavori in corso per i nuovi laboratori, incoraggiandoli a parlare con i ragazzi che incontriamo.
La comunità continua a vivere, nonostante le sorti dei processi e del suo fondatore. Ma nessuno può ignorare questa fitta e densa aria di attesa, che sembra aver calato un macigno sulle spalle di ciascuno di noi. È pesante, opprimente. Da mesi mi sento come se provassi a trattenere con una fune un carro che sta inevitabilmente scivolando verso un burrone. Sto tentando con tutte le mie forze, oltre le mie stesse forze, a resistere, ma so che è solo questione di tempo. Prima o poi dovrò lasciarlo andare. O finirò anch’io nel vuoto.
Forse è proprio così che si è sentito mio padre quando, meno di un anno fa, ha detto quella frase terrificante: «Devo morire perché San Patrignano viva».
Bersani sembra ascoltare i miei pensieri. Mi rivolge una serie di frasi incoraggianti e rassicuranti, che a me sembrano vuote e senza senso. Tuttavia, a un certo punto, dice una cosa importante, che decisamente ravviva i miei sensi, acuisce la mia attenzione: «Non c’è alcuna intenzione di fare intervenire la politica nella gestione della comunità. La regione sosterrà il vostro impegno e ne difenderà l’indipendenza». Finalmente. Dopo mesi di dichiarazioni e tentativi più o meno intenzionali di una buona parte di esponenti della cultura, politici e magistrati di sinistra su come la comunità non andasse lasciata sola e avesse bisogno di essere accompagnata e reindirizzata verso una gestione condivisa e in armonia con le politiche sulla tossicodipendenza e i servizi pubblici e bla, bla, bla... qualcuno che ha almeno il buon senso e l’umanità di stabilire una tregua.
Confermo ai due politici che la comunità sarà certamente disponibile a un confronto costruttivo con le istituzioni regionali. Appena sarà possibile. Salutandoli confermo le condizioni gravissime di mio padre. Ormai è questione di ore. Posso finalmente liberarmi da questa forma di controllo robotizzato e reimmergermi nel mio infuso di dolore.
Ripenso a quella mano che ho lasciato. Torno a casa. La sua camera è piena di persone. C’è mia madre. Dal 25 giugno non lo lascia un attimo. Quel giorno lei e mio padre erano al Campetto, la grande tensostruttura in cui si tengono gli eventi sportivi e si svolgono i riti e gli eventi collettivi della comunità. Si celebravano le comunioni dei bambini di San Patrignano. Mi vien da pensare che non sia stato un caso che quello sia stato l’ultimo giorno di mio padre in comunità, nel pieno delle sue funzioni. «Questa è la vita. Andate avanti. Devo morire perché San Patrignano viva.»
Vedo Antonio e i suoi occhi azzurri, che non mi sono mai sembrati tanto tristi e stanchi. È entrato in comunità dal 1980. Si è laureato e specializzato durante il percorso di recupero. Da molti anni è responsabile del centro medico di San Patrignano. Accanto a lui Pier Maria Furlan, noto psichiatra e amico di famiglia da tanti anni. Con Antonio ha seguito mio padre negli ultimi mesi.
In piedi, davanti al grande letto impero vedo Tonino ed Egidio, cofondatori e volontari dall’inizio della comunità. Hanno condiviso con i miei genitori ogni singolo passo di questo lungo, accidentato cammino. Le famose sedute spiritiche. L’accoglienza dei primi ragazzi. La galera e i processi. I successi e le critiche. Non ho mai visto neppure la minima incrinatura di un dubbio affacciarsi sul loro volto, o farsi strada nel loro cuore. Come crociati che dopo aver preso e difeso Gerusalemme, capiscono di averla perduta per sempre, impotenti di fronte alla forza inarrestabile di Saladino. Li vedo ripiegati su se stessi, rassegnati, spauriti. Sembrano invecchiati di dieci anni.
Accanto a loro Gianmarco e Letizia Moratti. Sono arrivati da qualche giorno per accompagnare alla fine del suo viaggio terreno il loro più grande amico. Negli ultimi quindici anni, per entrambi, è stato il confidente saggio a cui chiedere consiglio e orientamento nei momenti difficili. Una guida. Hanno sperato fino alla fine che avvenisse un miracolo. Non è successo. Hanno sguardi spenti. Visi cerei. Pare quasi che una parte di loro sia morta con lui. E forse è così.
Chi invece pare conservare piglio ed energia è Alda D’Eusanio. Alda ha passato gli ultimi tre mesi accanto ai miei genitori. Si sono conosciuti ai tempi in cui Letizia è diventata presidente della Rai. Non so dire se l’iniziale motivazione fosse semplice convenienza o sincera ammirazione. Ma poi credo abbia stabilito un rapporto di amicizia sincero e un sentimento di profonda stima per quest’opera. È particolarmente legata a mia madre. Sembra volerle trasfondere tutta l’effervescenza che esonda dalla sua figura minuta. Il problema è che è di un’invadenza insopportabile. Pretende di dispensare consigli e partecipare a decisioni senza minimamente conoscere persone e situazioni. Causando disagi e confusione in un momento terribile per tutti. Ha persino portato una specie di maga guaritrice che avrebbe dovuto curare mio padre. Assurdo. E mia madre pare non accorgersi di tutto questo. La subisce passivamente.
Già. Mia madre. In tutta la lunga storia di San Patrignano è forse la persona che ho visto soffrire di più. Finalmente ritrovo le sue mani. Ma lui non c’è più. Mio padre ci ha lasciato. «Devo morire perché San Patrignano viva.» La abbraccio. A lungo. In questi tre mesi non sono riuscito a starle vicino. Mio padre è rapidamente peggiorato. I primi segnali di depressione si sono manifestati verso fine ottobre, insieme a una sorprendente, progressiva inappetenza. Normale e compatibile con la condizione psicologica. Ma molto pericolosa in un uomo di 61 anni che pochi anni prima, nel gennaio del 1991, si era sottoposto a un delicato intervento di bypass intestinale. In pratica, si è fatto tagliare e ricucire l’intestino, ma eliminandone un lungo tratto, in modo che l’assorbimento alimentare fosse più rapido e limitato, portando a un conseguente, indotto dimagrimento. Una sorta di ultima spiaggia, per un uomo di un metro e novanta arrivato a pesare 167 chili.
Il fatto è che è sempre stato un accumulatore naturale di tensioni e angosce umane di ogni genere. Le assorbiva da tutti i ragazzi che ascoltava e sosteneva. Poi le stemperava buttandosi sul cibo. Era anche bravo ai fornelli, avendo imparato da mia nonna Maria, che era una straordinaria interprete della cucina romagnola tradizionale. Cucinare lo ha sempre rilassato molto. Soprattutto amava farlo insieme ai ragazzi. Quindi, che fosse risotto al nero di seppia, brodetto, lasagne o altro, quando cucinava non era mai per meno di venti o trenta persone. Il problema è che lui da solo mangiava per quattro. L’ho visto divorarsi da solo una teglia di lasagne, fredde di frigorifero, o una quindicina di uova sode, alle tre di notte, di ritorno da qualche conferenza in giro per l’Italia. Un serial killer della tagliatella. Inesorabile. Inarrestabile. E inevitabilmente, avvicinandosi ai sessant’anni, a rischio di compromettere il proprio sistema cardiocircolatorio e la vita stessa.
Dopo anni di battaglie agguerrite per metterlo a dieta, iniziate quando io e Giacomo, mio fratello, eravamo ancora bambini, ai 160 chili mia madre e tutti noi non abbiamo potuto far altro che arrenderci e sperare nella chirurgia gastrointestinale. In effetti, dopo la complessa operazione e la lunga convalescenza, aveva perso oltre cinquanta chili nel giro di un anno e, pur consapevoli del precario equilibrio fisiologico raggiunto, ci siamo tutti tranquillizzati.
Stringendo mia madre, quel senso di tranquillità mi sembra ora lontanissimo. Stupido. Colpevole. Tra gennaio e febbraio di quest’anno ho visto mio padre come non l’avevo mai visto prima. Seduto da solo, sulla sua poltrona rossa, con lo sguardo perso nel vuoto. Assente. Aveva perduto quel suo sguardo fiammeggiante. Parlava pochissimo, e quando lo faceva era più che altro per rimuginare sulla delusione, sulla desolazione di essere stato offeso, tradito, minacciato, ricattato da tanti ragazzi, che lui considerava suoi figli, né più né meno di me e Giacomo, e a cui ha salvato la vita, senza chiedere loro nulla in cambio se non rispetto di sé, dignità, responsabilità.
Poi, verso l’inizio dell’estate, ha proprio smesso di parlare e alla depressione sempre più profonda si è affiancato un tremore della mano sinistra. Prima lieve, poi, col passare delle settimane, sempre più evidente. Di fronte all’aggravarsi della malattia, ho assistito alla nascita di un dualismo, una sorta di confronto fra due orientamenti diversi, interni alla comunità.
C’è la schiera dei volontari fondatori, tra cui mia madre, pervasi da una specie di misticismo fatalista, certamente appartenente alle origini della comunità e mai sedato. Secondo loro era lecito attendersi, o perlomeno sperare, in una sorta di miracolo, in un intervento dall’Alto che, prima o poi, sarebbe giunto a salvare mio padre. Per questo gruppo bisognava conservare fede e speranza. Aspettare.
E c’è il nutrito gruppo di quei ragazzi che, terminato da tempo il proprio percorso di recupero, sono rimasti in comunità, affiancando mio padre e rivestendo incarichi di sempre maggior responsabilità. Questi sono lontani e distaccati dall’anima mistico-religiosa di San Patrignano. Né mio padre era disponibile a farsi identificare come medium o, peggio, come saggio mistico ispirato da chissà quale entità divina. Il tempo delle “sedute” ha ormai esaurito il suo compito di ispirazione e orientamento nei confronti dei fondatori. Da molto tempo. Il destino dei ragazzi deve essere una scelta libera di riscatto, una presa di coscienza e di responsabilità personale.
Improvvisamente, di fronte alla malattia di mio padre, le contraddizioni sono emerse e il blocco dei volontari ha in qualche modo prevalso e “segretato” la depressione, il deperimento organico, il rapido spegnersi di un gigantesco faro che, pian piano, si trasformava in una luce sempre più fioca. Io mi sono trovato esattamente in mezzo. Tra i due fuochi. Tra luglio e agosto mia madre si è fatta prestare una villetta di amici a Casteldelci, nel vicino Appennino tosco-romagnolo e, insieme a mio fratello, ha portato mio padre là. Al riparo dall’assedio mediatico-giudiziario. Ma anche lontano dai ragazzi che chiedevano, che volevano sapere come stesse, quando sarebbe tornato. Se lo chiedeva, naturalmente, anche il mondo esterno. L’intera opinione pubblica italiana voleva sapere.
Insieme ai ragazzi delle pubbliche relazioni decidiamo che a me toccherà cominciare a essere una voce presente. Bisogna comunicare che San Patrignano, a dispetto dell’aggravarsi delle condizioni di salute del suo leader, continua a operare, ad accompagnare i ragazzi nel loro percorso. Non ho mai rilasciato interviste. Qualche volta sono stato fotografato con mio padre. I media non mi conoscono. E a me certamente non piacciono. Soprattutto in questo periodo.
Ma sono tra i pochissimi, in comunità, a parlare un inglese fluente. Così il mio battesimo di fuoco diventa una conferenza a Rotterdam, a cui mio padre aveva aderito da mesi. Quando parto ricevo tanti incoraggiamenti e confortanti manifestazioni di fiducia. Nessuno mi dice che mi troverò di fronte un pubblico di ottocento agguerritissimi antiproibizionisti olandesi.
Da mesi, ormai, mi divido tra strategie legali con la squadra di avvocati che difende mio padre e svariate attività istituzionali. Le sollecitazioni sono continue. L’aria sempre molto tesa. Così mi rimane poco tempo per vedere mio padre. Tra andare e tornare da Casteldelci impiego quasi tre ore. In più, quando sono là, vedo mio padre completamente assente, in un contesto di isolamento e vana attesa che non ha altro effetto su di me che farmi sprofondare in un abisso di angoscia e sconforto. Ogni volta che ci vado mi ci vogliono tre giorni per riprendere un aspetto di apparente normalità.
Finalmente riesco a convincere mia madre della totale inutilità di quell’isolamento. A tornare a casa. Nella sua camera. Nel suo letto. A coinvolgere Pier Maria Furlan, lo psichiatra. Decidiamo di ricoverarlo a Milano, in una clinica privata, La Madonnina. È gestita da suore, che si mostrano solidali, comprensive, accoglienti. Per qualche ora l’angoscia si placa. Sentirsi accuditi con umanità e curati con professionalità aiuta. Ma ormai non c’è più niente da fare.
Dopo una settimana rimane solo da riportare mio padre a casa per consentirgli di morire nel suo letto. L’abbraccio con mia madre raccoglie e trattiene, per un tempo che mi pare un lunghissimo istante, tutti i pensieri di questi ultimi, strazianti, estranianti mesi di agonia collettiva. Scostandola le guardo i grandi, luminosi occhi verdi, in cui fin da bambino mi sono perso e ritrovato milioni di volte. Non li avevo mai visti così smarriti. Mi rendo conto che da quando la conosco oggi, per la prima volta, i suoi occhi non riusciranno a trovare lo sguardo intenso del suo Vì.
Anche Giacomo è smarrito. Anche lui, come mia madre, ha sempre fatto parte dell’ala spiritualista della nostra famiglia e di San Patrignano. Non so esattamente quando abbia perduto ogni residua speranza di riavere mio padre, ma oggi tocca con mano che il suo babbone, sotto la cui grande ala si rifugiava fin da piccolo, non c’è più. Almeno non nella sua forma terrena.
Guardo ancora il corpo esanime di mio padre. Hai scelto di lasciarti morire. Ma non credo che San Patrignano ti sopravviverà. Non a lungo, comunque.
Bisogna dare la notizia ai responsabili di settore, ai ragazzi, ai media. Ci dividiamo i compiti. Io vado a parlare con Carlo Bozzo, Carlo Forquet e Antonio Schiavon, che sono i responsabili della comunicazione di San Patrignano, e con i ragazzi dell’ufficio accoglienza. Ci abbracciamo e piangiamo insieme. Sapevano quello che stava succedendo, ma non è stato giusto privarli della possibilità di poter salutare un padre che è stato anche il loro, un padre a cui erano legatissimi, come me. Non ho lottato abbastanza per questo loro diritto. Mi sento in colpa.
È difficile mantenere lucidità e buon senso quando sei costantemente immerso in sabbie mobili che sembrano poterti inghiottire in ogni istante. Chissà come avrà fatto lui, in tutti questi anni. Questo pensiero mi tiene compagnia mentre risalgo la strada dagli uffici verso la grande sala da pranzo. Siamo tutti d’accordo che l’annuncio ai ragazzi lo daremo io e mia madre.
L’enorme salone è tutto illuminato. Ormai è sera. Sono tutti seduti a tavola. Io entro da dietro, passando dalle cucine. Dall’ingresso principale al nostro tavolo, e al microfono, ci sono circa cinquanta metri e bisogna passare di fianco o in mezzo ad almeno venti tavoli, ciascuno dei quali accomoda venti persone. Non ho proprio le forze per sostenere lo sguardo, l’ansia, l’attesa di risposte di tutte queste persone. Fortunatamente quando arrivo trovo già mia mamma ad aspettarmi. Questo mi dà il coraggio di prendere il microfono e di parlare: «Oggi è il giorno più triste di tutti quelli vissuti qui. Mio padre, nostro padre, il padre di tanti di noi, che oggi non sono qui, ma che sono vivi, e crescono i propri bambini con dignità, e porteranno per sempre una parte del suo amore nel proprio cuore, ci ha lasciato. Io credo che il suo corpo abbia lasciato questa terra, ma sono certo che il suo spirito sia finalmente libero, e che sia sereno, e immerso in una luce calda e bellissima. E so che vive, e che ci sta guardando con tenerezza, e che continuerà ad accompagnare il cammino di ciascuno di noi. Stringiamoci gli uni agli altri in un abbraccio profondo, non sentiamoci soli, continuiamo a sostenere chi abbiamo vicino e lasciamo che altri ci sostengano nei momenti di difficoltà. È quello che ci ha insegnato lui. Ciò che ci ha testimoniato col suo esempio per tutti questi anni. Ciò che non dobbiamo dimenticare».

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