Perché (non) fare il medico
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Perché (non) fare il medico

Paolo Nucci

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Perché (non) fare il medico

Paolo Nucci

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In quest'ultimo anno, causa pandemia, la figura del medico è stata al centro di elogi smisurati e critiche spietate, ma per tutti rappresenta una categoria indispensabile per fronteggiare le malattie e le paure che ne conseguono.

Perché (non) fare il medico passa in rassegna le fasi che si susseguono nel corso della vita professionale di un medico, mettendone in luce i moventi, le fonti di preoccupazione, di soddisfazione e le responsabilità. E, soprattutto, cerca di rispondere ad alcune domande fondamentali: perché scegliere di fare il medico? Come si diventa medici? Come ci si sente, una volta che si è medici? Perché smettere di farlo? Un testo agile e accessibile rivolto a tutti, allo studente (o aspirante) di medicina come allo specializzando, ai medici professionisti, ai docenti di medicina, ai pazienti e a chiunque abbia mai pensato, anche solo per un momento, di abbracciare la professione, o sia semplicemente curioso di saperne di più.

Una sorta di diario di bordo per capire come si affrontano temi e problemi diversi, quali l'importanza della formazione continua e dell'aggiornamento delle competenze, la sofferta problematica del contenzioso medico-legale e della medicina difensiva, oltre al complesso rapporto con i colleghi, e i cambiamenti della medicina rispetto al passato.

Perché (non) fare il medico cerca, attraverso il vissuto di un professionista di grande esperienza come Paolo Nucci, senza sconti e mezze verità, di offrire uno scorcio onesto e sincero dell'universo medico, anche riguardo a quegli aspetti del "mito" che fanno parte del bagaglio d'ineffabilità che la professione ippocratica porta con sé da millenni.

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Información

Año
2021
ISBN
9788858526347
1

Perché scegliere di fare il medico

Il momento esatto e le ragioni di tale scelta sono talmente evanescenti nella memoria dei miei colleghi che ho fatto davvero fatica a trovare risposte valide a questa domanda. Nessuno, dico nessuno, se non qualche plateale e leggendario agiografo di se stesso (come me, d’altronde), ricorda come e quando abbia preso atto della propria vocazione, o l’istante in cui si è detto: da grande farò il medico.
Nel mio caso, i libri hanno avuto un ruolo importantissimo. I mentori che mi hanno illuminato sono stati innanzitutto A.J. Cronin, per via de Gli anni che contano, e poi Axel Munthe, che lessi quando avevo ancora diciassette anni e mi emozionò tanto. Ma, a ben guardare, non devo tutto ai libri: forse il pungolo più forte fu il fascino dell’onnisciente e buon dottor Kildare, la personificazione più emblematica della nuova classe che allora andava affermandosi, quella del moderno medico ospedaliero, umano e competente.
Inoltre, non si può negare che quella del medico sia di per sé una condizione sociale invidiabile. In tutti i tempi e in tutte le popolazioni, dalle più selvagge alle più civilizzate, chi svolge questa professione si è sempre seduto nella tribuna d’onore. Dunque deve ben esserci una ragione, se ancora oggi, nonostante i tentativi pervicaci di svilire, smitizzare, annerire o infangare questa figura, non c’è madre che non desideri vedere il proprio figlio o figlia indossare un camice bianco. La mia famiglia, dal canto suo, non fece eccezione. Per chi appartiene alla mia generazione, è una sorta di dato di fatto: quando un figlio prospettava per la prima volta ai suoi genitori la possibilità di diventare medico, il novanta per cento delle mamme aveva le lacrime agli occhi. Oggi probabilmente la percentuale di lucciconi si è dimezzata, ma credo che tuttora pochissimi genitori osteggino questa decisione. Insomma, oltre ai mentori, ai libri e a tutto il resto, a spingermi furono anche le aspettative dei miei genitori, che confondevano sempre il grembiule bianco dell’asilo con il camice di un reparto di medicina. Ciò detto, ovviamente non penso né voglio insinuare che chi opta per gli studi di medicina lo faccia per un mero condizionamento parentale.
Quando si parla del perché fare il medico, però, non si tiene quasi mai conto delle ragioni per le quali non fare il medico. In altre parole, non si pensa ai lati negativi della professione, che dunque spesso finiscono per essere una sorpresa quando s’inizia a esercitare. Viceversa, altre volte si viene scoraggiati a monte dalla lunghezza del corso di studi o dalla difficoltà del test d’ammissione alla facoltà. Per la maggior parte, però, i veri argomenti a sfavore riguardano più nel profondo l’impegno richiesto da questa professione dal punto di vista umano, i dubbi che si possono avere circa la propria capacità di rapportarsi con le persone, e soprattutto con persone malate. Nessuno parla della responsabilità enorme che ci si assume, del dolore che si prova quando si è impotenti, o dell’angoscia che ci assale quando si sbaglia. O meglio, forse qualcuno ne parla, ma tende a essere ignorato. Del resto, quando scegliamo con gran cura un appartamento e lo mostriamo con soddisfazione agli amici e ai genitori, accade lo stesso: sfido chiunque a tener conto e memoria dei commenti negativi, che non mancano di tornare a galla proprio sul più bello, quando dobbiamo rivenderlo, nelle parole inclementi di un agente immobiliare. Il giorno prima di partire per l’iscrizione all’università, uno dei miei zii, piuttosto anziano e burbero, medico internista preparato, mi disse con tono da frate trappista: «Sai che non finirai mai di studiare?». La risposta che diedi era quella che mio padre, suo fratello, si aspettava da me: «Non chiedo altro!». Non era vero, ma era l’unica che potevo dare.
Oggi, a più di trentacinque anni dalla laurea, comprendo quelle parole meglio di allora. Non erano un monito, ma un invito a una presa d’atto necessaria: non pensare neppure per un momento di risparmiarti, questo è un lavoro totalizzante, che richiede dedizione e disciplina assolute.
Quindi, in tutta onestà, devo confessare mio malgrado di essere diventato medico prima per compiacimento e poi forse per vanità. Quando m’iscrissi all’università, l’abnegazione, lo spirito di sacrificio e l’altruismo non c’entravano nulla. Con il tempo, e dopo la laurea, è venuta la voglia di fare le cose bene e, perciò, di non tradire chi aveva avuto fiducia in me. Tuttavia, mentirei se dicessi che tutto questo non ha conseguenze; non sono mai libero di dimenticare la mia professione, e questo, devo confessarlo, a volte è un peso considerevole. Non a caso, benché ognuno tenda a rivendicare la pesantezza precipua del proprio lavoro (quando si ha la fortuna di averlo, il lavoro), non c’è nessuno che non riconosca al medico coscienzioso un peculiare impegno mentale anche durante i momenti di riposo.
Ciononostante, non si può negare che la scelta di diventare medico, anche quando viene fatta con scarsa consapevolezza, porti un carico di emozioni e soddisfazioni a chiunque la intraprenda, ripagandolo pienamente. A diciott’anni, quando questa decisione deve prendere corpo, si è ancora troppo inconsapevoli della svolta che può comportare e oggi, come in passato, nonostante le nuove generazioni siano più attente e preoccupate riguardo al futuro, non esiste uno e un solo modo per compiere una scelta che è, a tutti gli effetti, una scelta di vita.
Giunto a questo punto preferisco fermarmi, perché ho come l’impressione che finora mi sia stato più facile esplorare le ragioni per le quali non diventare medico, piuttosto che quelle a favore, e forse tutto ciò ha una motivazione inconscia. Come in molte cose della vita, in effetti, è senza dubbio più facile trovare le ragioni di un’avversione che quelle di un’adesione. Se si chiede a un tifoso perché sia dell’Inter, per esempio, le risposte sono spesso banali: «È una fede!», «Mi fa battere il cuore!», «L’Inter è pazza!»… Ma se si prova a chiedere a un anti-juventino quali siano le ragioni della sua antipatia, saranno infinite e argomentatissime (forse alla verifica dei fatti insostenibili, ma apparentemente convincenti).
C’è un’altra riflessione che merita un po’ di spazio. Esistono requisiti necessari e forme di predisposizione alla professione medica? Procediamo con ordine. Prima di scegliere se imparare o meno a fare il medico, senza dubbio è bene chiedersi se si abbiano o meno le carte in regola per intraprendere questa carriera. Da parte mia non sono convinto che la filantropia e la buona disposizione d’animo verso il paziente (ossia verso chi patisce) siano doti imprescindibili in partenza. Molti si laureano e apprendono solo in seguito, sul campo, che l’amore per il prossimo è funzionale e necessario, non solo eticamente, per svolgere la professione medica. Infatti la disponibilità verso il prossimo, che ahimè non tutti possiedono, in realtà è un attributo indispensabile, senza il quale questo lavoro diventa insostenibile.
Comprendere la sofferenza del malato, interpretarne le ansie e le paure è fondamentale per superare l’insofferenza nei confronti di una snervante prassi quotidiana, che, se viene svolta senza metterci il cuore, diventa penosa e routinaria. Tollerare di essere svegliati nel cuore della notte per l’indigestione di qualcun altro, in effetti, è per così dire l’anticamera della beatificazione. Eppure, per chi chiama la guardia medica o va in pronto soccorso, il fatto che il medico di turno gestisca al meglio l’evento sfortunato è la cosa più naturale del mondo. Sotto questo aspetto, in un certo senso, mi piace pensare che un po’ d’ironia possa venire in aiuto, come per quel medico della Corona inglese – se ben ricordo – che, chiamato d’urgenza alle tre del mattino per i postumi da sbornia del baronetto di turno, fece solennemente convocare tutta la famiglia del giovane e, quando gli fu chiesto se la condizione fosse davvero così grave, rispose qualcosa del tipo: «Per nulla, però non volevo essere l’unico disturbato alle tre di notte per una sciocchezza del genere!».
Ironia a parte, se si ritiene di non riuscire a sopportare incidenti come questo è senz’altro opportuno riconsiderare la propria attitudine alla medicina.
Inoltre, voglio offrire qualche suggerimento a chi, pur avendo optato per questa via, non abbia ancora ben chiaro il perché. I medici migliori che ho incontrato nel corso della mia carriera di studente, quelli che hanno segnato positivamente il mio destino e mi hanno affascinato, contribuendo a farmi amare questa professione, avevano tutti una concezione intimista della vita: amavano rintanarsi nelle loro biblioteche, erano avidi lettori ed erano – non posso fare a meno di usare questo termine, per quanto suoni anacronistico – degli umanisti. Quasi tutti passavano molto tempo a scrivere e a coltivare relazioni epistolari. Alla fine degli anni Ottanta, per esempio, mi trovavo a Chicago, dove lavorava l’editor-in-chief di una delle più prestigiose riviste scientifiche del mio settore, un coltissimo e anziano oftalmologo, Frank Newell, di origini irlandesi. Dalla sua corrispondenza ho appreso molti modi di dire ricercati dell’inglese, tutto l’opposto dello slang americano, che allora si voleva far passare come la lingua di cui nessuno poteva fare a meno. Fu lui a introdurmi alla lettura di Virginia Woolf, che in quegli anni era ancora poco conosciuta tra i giovani italiani, e fu lui a raccontarmi la storia, allora davvero misconosciuta, dell’importante ruolo che Rosalind Franklin aveva avuto nella scoperta del dna.
Se credo di poter offrire qualche consiglio, quindi, è perché nei libri scritti da colleghi (e non solo) ho trovato stimoli innumerevoli. E anche perché, a costo di apparire un po’ démodé, mi piacerebbe che qualcuno, leggendo questo libretto, fosse preso dalla voglia di ripescare qualche scrittore dimenticato. Un testo obbligatorio, per chi abbia già deciso di cimentarsi con gli studi di medicina, è La storia di San Michele di Axel Munthe. Poi, se posso concedermi il lusso di dare qualche altro suggerimento, non si dovrebbero ignorare i libri che tutta la mia generazione ha amato e condiviso con i propri padri, oggi ultranovantenni o non più al nostro fianco, ai quali dobbiamo riconoscere lo sforzo di aver ricostruito la bella Italia degli anni Cinquanta e Sessanta, che ci ha accolto quando siamo nati: La corsia n. 6 di Anton Čechov, Gli anni che contano di A.J. Cronin, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e, più recenti, ma si fa per dire, due libri degli inizi degli anni Settanta, Per le antiche scale di Mario Tobino e Risvegli di Oliver Sacks (uscito in Italia quindici anni dopo la pubblicazione negli Stati Uniti), tra le cui pagine ho ritrovato sentimenti e motivazioni che mi hanno permesso di vivere con pienezza quella che per me è la professione più bella del mondo.
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Diventare un medico

Come si diventa medici? Oggi come oggi, in Italia, per iscriversi a un corso di laurea in medicina si deve superare un test d’ammissione. Questa facoltà, infatti, è a numero chiuso e prevede una severa selezione a monte dei candidati, ma a tal proposito penso sia opportuno soffermarsi e chiedersi se il numero chiuso sia o meno davvero necessario, magari formulando in maniera diversa la domanda: qual è il suo scopo? Probabilmente, di primo acchito, in molti direbbero che serve a selezionare i futuri medici migliori. O a rendere più leggero e quindi efficiente il sistema formativo, viste le limitate risorse di cui dispone. O, ancora, ad adeguare il sistema italiano a quello mondiale, che ovunque apre le università solo ai più meritevoli. Ma la questione cogente, aperta e irrisolta è questa: siamo sicuri che i sistemi di selezione attuali siano così validi da far sì che i talenti veri non vadano perduti?
Non riesco a celare la mia posizione critica riguardo ai numeri chiusi in generale. Devo confessare che, com’è normale che sia, trovo difficile prescindere dalla mia esperienza. Io vengo dal momento storico più pletorico e disorganizzato delle facoltà di medicina d’Italia, gli anni Settanta e Ottanta, un periodo che si potrebbe tranquillamente ricordare come quello in cui, lanciando un sasso dalla finestra, con tutta probabilità si finiva per colpire un medico. Credo che il 1983, l’anno in cui ho conseguito la laurea, sia stato quello che ne ha sfornati più di sempre. Ma è senz’altro vero che nel corso di quel ventennio si sono laureati Alberto Mantovani, Giuseppe Remuzzi e Napoleone Ferrara, medici italiani famosissimi e dal valore indiscusso.
Consentitemi un irriguardoso parallelo con il calcio: dove credete sia più probabile che un grande centravanti salti fuori? In Brasile, dove giocano tutti, ovunque e senza limiti, o in un’elegante scuola calcio del Canton Ticino? La risposta è ovvia, perché si fonda su un mero calcolo probabilistico. Ovviamente, ciò non toglie che queste due realtà possano essere separate da un abisso sotto il profilo delle risorse. Ma a questo proposito mi ostino a credere in ciò che mio padre diceva sempre: al desco, dove si mangia in quattro si mangia anche in cinque, ma nei campi, dove si lavora in cinque si fatica meno che in quattro. La ritengo una grande lezione di vita.
Ciò detto, non si deve mai dimenticare che le risorse di cui le università devono disporre sono anche umane. E su questo vorrei spendere qualche altra parola.
Da ormai molti anni sono infatti convinto di una cosa: parlando della formazione dei nuovi medici, gli aspetti in senso stretto quantitativi (vale a dire, senza tanti complimenti, il rapporto tra il numero dei docenti e quello degli studenti) devono essere tenuti ben distinti da quelli qualitativi. Da un lato, infatti, avere più docenti a disposizione di un minor numero di studenti comporta senza dubbio una dedizione maggiore da parte dei primi nei confronti dei secondi e, più in generale, ne rafforza i rapporti. Si tratta, ancora una volta, di un concetto inconfutabile, che però non dev’essere mai dato per scontato. Tutte le branche del sapere traggono giovamento da un rapporto uno a uno e la medicina non fa eccezione: lo stesso giuramento di Ippocrate prevede che ci siano un maestro e un allievo. Ciò dipende dal fatto che il sapere medico è sempre e comunque un sapere “artigianale”, non perché si riduce a una mera esecuzione pratica (per esempio chirurgica), ma perché si traduce in prassi, e la buona prassi è emulazione. A essa spesso corrisponde un metodo, un modo di organizzare un percorso logico secondo una precisa strategia, che in nessun ambito come nella medicina è mutuato dal proprio maestro. Il sapere medico, insomma, s’impara attraverso un esercizio quotidiano e certosino, ripetuto nelle sue sequenze logiche proprio come un algoritmo, nel quale, pur non trascurando le doti intuitive di ciascuno, difficilmente si può derogare a un preciso protocollo, oserei dire a una checklist, simile a quella che un pilota d’aereo esegue prima di ogni manovra.
Dall’altro lato, gli effetti della selezione sulla qualità della formazione non possono essere negletti. Selezionare troppo, infatti, si rivela un’arma a doppio taglio. Così facendo, si contribuisce a creare una visione elitaria della professione, con tutti i suoi annessi e connessi. Oggi chi supera il test di ammissione a medicina sa bene che il proprio ingresso nella professione sarà privilegiato, perché avrà meno concorrenti. Tuttavia, questa consapevolezza può trasformarsi in uno scarso spirito di competizione, se non, nel peg...

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