La diva geniale
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La diva geniale

Marie Benedict

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La diva geniale

Marie Benedict

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Fu la donna dal viso più perfetto che si fosse mai visto.
Ma era la sua mente la cosa più straordinaria. Questa storia comincia a Vienna, negli anni Trenta, nella casa di un'agiata famiglia ebrea. Ma prosegue per vie straordinarie almeno quanto la bellezza della sua protagonista, che il mondo avrebbe conosciuto come Hedy Lamarr, una delle più famose attrici della Hollywood anni Quaranta. Sposa di un mercante d'armi austriaco, quando le nubi del nazismo cominciano ad addensarsi sull'Austria, Hedy, ebrea, capisce che suo marito è pronto a tradirla. Così scappa alla volta dell'America, dove diventa, in breve tempo, un'icona di bellezza il cui volto incantevole si dice abbia ispirato quello di Biancaneve.
Ma Hedy, appassionata di ingegneria, ha ben altro per la testa. Negli anni americani, infatti, tra un film e l'altro non smetterà mai di lavorare a un'idea, nata ascoltando le conversazioni sulle armi di suo marito e i suoi amici, quando nessuno di loro badava a lei, l'unica donna nella stanza. Un'idea che sarà la sua lotta e la sua missione, un sistema di trasmissione radio che, incredibilmente, si sarebbe rivelato la base per la tecnologia wireless.
La diva geniale ripercorre la storia incomparabile di Hedy Lamarr, ed è un romanzo che si legge d'un fiato, bestseller istantaneo in America, avvincente e straordinario come la vita di questa donna che fu molto più che bella.

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Información

Año
2019
ISBN
9788858523575

PRIMA PARTE

1

17 maggio 1933
Vienna, Austria

Sbattendo le palpebre aprii gli occhi, ma i riflettori mi accecarono per un momento. Appoggiai una mano discreta sul braccio del coprotagonista per sorreggermi e mi imposi un sorriso sicuro, aspettando che la vista si schiarisse. Gli applausi scrosciavano e io fluttuavo in quella cacofonia di suoni e luce. La maschera che mi ero incollata addosso per l’occasione scivolò via un istante, e d’un tratto non ero più l’imperatrice ottocentesca Elisabetta di Baviera, ma semplicemente la giovane Hedy Kiesler.
Non potevo permettere che i frequentatori del celebre Theater an der Wien mi vedessero incespicare mentre interpretavo l’adorata imperatrice della città. Neppure durante la chiamata alla ribalta. Lei era stata l’emblema della gloriosa Austria asburgica di un tempo, impero incontrastato per quasi quattro secoli, e il popolo si era aggrappato alla sua immagine in quei giorni umilianti, dopo la Grande Guerra.
Chiudendo gli occhi per un istante, mi concentrai profondamente e misi da parte Hedy Kiesler, con tutte le sue piccole preoccupazioni e le modeste aspirazioni. Chiamai a raccolta le mie energie e ripresi su di me il manto dell’imperatrice, la sua indispensabile durezza e le pesanti responsabilità. Quindi riaprii gli occhi e fissai intensamente i miei sudditi.
Il pubblico si materializzò davanti a me. Mi accorsi che non stavano applaudendo comodamente seduti sul velluto rosso delle poltroncine: erano saltati in piedi per un’ovazione, onore che i miei concittadini viennesi dispensavano di rado. In quanto imperatrice, mi era dovuto; ma in quanto Hedy, mi domandai se l’applauso fosse realmente destinato a me e non a qualcun altro degli attori di Sissy. Quello che impersonava l’imperatore Francesco Giuseppe, Hans Jaray, era in fin dei conti una vera istituzione del Theater an der Wien. Attesi che i miei compagni sul palco si inchinassero. Il pubblico tributò un applauso unanime agli altri attori, ma quando raggiunsi il centro del palco per l’inchino, si scatenò un autentico delirio. Era davvero il mio momento.
Quanto avrei voluto che papà potesse vedermi, quella sera! Se la mamma non si fosse finta malata, un ovvio sotterfugio per sottrarre attenzione a quella serata così importante, papà avrebbe potuto assistere al mio debutto al Theater an der Wien. So che la reazione del pubblico lo avrebbe mandato in visibilio e, se avesse potuto assistervi in prima persona, forse la macchia della mia audace performance nel film Estasi sarebbe sparita. Quello era un episodio che avrei disperatamente voluto dimenticare.
Il rumore degli applausi cominciò a scemare, e una sorta di inquietudine calò sul pubblico quando una processione di maschere del teatro sfilò lungo il corridoio centrale con le braccia cariche di fiori. Quel gesto grandioso, in un momento così pubblico e inappropriato, turbò i viennesi, di natura assai riservati. Mi pareva quasi di sentirli chiedersi chi avesse osato interrompere la prima al Theater an der Wien con tanta ostentazione. Soltanto l’eccesso di zelo di un genitore avrebbe potuto giustificare un simile gesto, ma sapevo che i miei erano troppo cauti per osare tanto. Forse il passo falso era stato opera della famiglia di un altro attore della compagnia?
Man mano che le maschere si avvicinavano al palcoscenico, mi accorsi che non portavano fiori qualsiasi ma squisite rose di serra. Una dozzina di bouquet. Quanto poteva costare una simile abbondanza di rari boccioli rossi? Mi domandai chi potesse permettersi quella ricercatezza in un’epoca simile.
Le maschere salirono la scala e capii che erano state incaricate di consegnare i fiori al destinatario proprio davanti al pubblico. Non sapendo bene come gestire quella violazione del decoro, lanciai un’occhiata agli altri attori, che sembravano perplessi quanto me. Il direttore di scena gesticolò cercando di fermare le maschere, ma dovevano essere state pagate profumatamente, poiché lo ignorarono e si schierarono davanti a me.
Una a una, mi consegnarono i bouquet finché non fui più in grado di reggerli; a quel punto, li adagiarono ai miei piedi. Sentivo lungo la spina dorsale gli sguardi di disapprovazione dei miei compagni di scena. La mia carriera teatrale poteva arrivare all’apice o precipitare, a seconda dei capricci di quei venerabili attori; con poche parole ben studiate potevano buttarmi giù dalla vetta e rimpiazzarmi con una qualunque delle tante giovani attrici che si accapigliavano per quella parte. Sentivo di dover rifiutare quei fiori, ma poi mi passò per la testa un pensiero.
Il responsabile poteva essere chiunque. Un eminente membro di uno dei partiti di governo in lite tra loro; un conservatore del Partito cristiano sociale o un socialista del Partito socialdemocratico. O peggio, il mio benefattore poteva essere un simpatizzante del Partito nazionalsocialista, di quelli che agognavano l’unificazione dell’Austria con la Germania e con il suo cancelliere fresco di nomina, Adolf Hitler. Il pendolo del potere sembrava oscillare ogni giorno di più, e nessuno poteva permettersi di correre rischi. Io meno di tutti.
Il pubblico aveva smesso di applaudire. In un silenzio imbarazzante, si erano rimessi a sedere. Tutti, tranne un uomo. Lì, nella terza fila al centro, il posto più ambito del teatro, stava un signore con il torace largo e la mascella quadrata. Unico tra tutti gli spettatori del Theater an der Wien, era rimasto in piedi.
A guardare me.

2

17 maggio 1933
Vienna, Austria

Il sipario calò. Gli altri attori mi lanciavano sguardi interrogativi, e io scrollai le spalle e scossi la testa, nella speranza di esprimere così la mia perplessità e disapprovazione per quel gesto. Dopo aver ricevuto una pioggia di complimenti, tornai al mio camerino e mi chiusi dentro. Ero piena di rabbia e di ansia per il modo in cui quei fiori avevano distolto l’attenzione dal mio trionfo, da quella parte che doveva servire a lasciarmi definitivamente alle spalle lo scandalo di Estasi. Dovevo scoprire chi mi aveva fatto questo, e se l’aveva inteso come un complimento, per quanto maldestro, o se invece c’era sotto qualcos’altro.
Tirai fuori la busta nascosta tra i fiori del bouquet più grande e l’aprii con le forbicine da unghie. Ne estrassi un pesante cartoncino color crema bordato in oro. Lo avvicinai alla lampada sulla mia toeletta e lessi:
A un’indimenticabile Sissy. Suo, Friedrich Mandl.
Chi era questo Friedrich Mandl? Il nome mi suonava familiare, ma non riuscivo a collocarlo.
La porta del camerino vibrò ai colpi di una bussata perentoria. «Signorina Kiesler?» Era Else Lubbig, veterana camerinista delle star di ogni produzione del Theater an der Wien degli ultimi vent’anni. Anche durante la Grande Guerra e negli anni di scoramento seguiti alla sconfitta austriaca, quella matrona dalla chioma grigia aveva assistito gli attori prima che entrassero in scena per tenere alto il morale dei viennesi interpretando personaggi come l’imperatrice Elisabetta, che ricordava alla gente il valore storico dell’Austria e induceva a immaginare un futuro colmo di promesse. Lo spettacolo, naturalmente, non sfiorava nemmeno gli ultimi anni dell’imperatrice, quando le catene dorate della disapprovazione dell’imperatore erano divenute per lei un giogo che le inibiva ogni movimento. Ai viennesi non piaceva pensarci, ed erano bravissimi a negare la realtà.
«Prego, entri» dissi a voce alta.
Senza neppure uno sguardo alla profusione di rose, la signora Lubbig cominciò a slacciarmi l’abito giallo come il sole. Mentre mi spalmavo in faccia la crema per rimuovere il pesante trucco teatrale e le ultime vestigia del personaggio, lei mi spazzolava i capelli disfacendo il complicato chignon che secondo il regista si confaceva all’imperatrice Elisabetta. La signora Lubbig taceva, ma avevo la sensazione che stesse prendendo tempo, in attesa del momento buono per farmi la domanda che senza dubbio stava già ronzando per tutto il teatro.
«Che bellissimi fiori, signorina» commentò finalmente la signora Lubbig, dopo essersi complimentata per la mia interpretazione.
«Già» risposi, in attesa della vera domanda.
«Posso chiederle chi li ha mandati?» domandò, passando dai miei capelli al corsetto.
Rimasi in silenzio per qualche istante a soppesare la risposta. Avrei potuto mentire e attribuire ai miei genitori quella gaffe floreale, ma questo pettegolezzo era moneta corrente con cui lei avrebbe potuto commerciare, e se le avessi confidato la verità, mi sarebbe stata debitrice di un favore. E un favore della signora Lubbig poteva rivelarsi molto utile.
Le sorrisi, porgendole il biglietto. «Un certo Friedrich Mandl.»
Lei non disse nulla, ma il fiato che le si mozzò in gola fu molto eloquente. «Ne ha sentito parlare?» domandai.
«Sì, signorina.»
«Era a teatro questa sera?» Sapevo che la signora Lubbig assisteva sempre allo spettacolo da dietro le quinte, senza mai perdere d’occhio l’attrice a lei assegnata, in modo da intervenire prontamente nel caso di un orlo scucito o una parrucca fuori posto.
«Sì.»
«Era quell’uomo che è rimasto in piedi dopo l’applauso finale?»
Lei sospirò. «Sì, signorina.»
«Che cosa sa di lui?»
«Preferirei non dirlo, signorina. Non spetta a me.» Soffocai un sorriso per la falsa modestia della signora Lubbig. In molti sensi, grazie alla miniera di segreti che custodiva, era la persona più potente di tutto il teatro.
«Mi farebbe un grosso favore.»
Lei rimase in silenzio, come a riflettere sulla mia supplica. «Ho soltanto sentito voci e pettegolezzi. Non tutti lusinghieri.»
«Per piacere, signora Lubbig.»
«Be’» la guardavo nello specchio: sembrava che vagliasse con cura il suo dossier mentale per decidere quale briciola di notizia gettarmi. «Il signor Mandl ha una certa reputazione con le donne.»
«Lui e tutti gli altri uomini di Vienna» ribattei con una risatina. Se era soltanto questo, non avevo di che preoccuparmi. Gli uomini sapevo gestirli. Quasi sempre, almeno.
«Non si tratta dei soliti piccoli imbrogli, signorina. C’è qualcosa di più. Una delle sue storie d’amore è finita con il suicidio di una giovane attrice tedesca, Eva May.»
«Oh, mio Dio» mormorai, anche se, avendo io stessa spezzato molti cuori e involontariamente provocato il tentato suicidio di uno spasimante respinto, non potevo essere troppo severa nel giudizio. Certo era terribile, ma non era tutto. Dal tono capii che la signora Lubbig aveva altro da riferire. Ma intendeva farmela sudare, quella notizia. «Se c’è dell’altro, sarei in debito con lei.»
Lei esitò: «Sono notizie che vanno divulgate con una certa cautela, al giorno d’oggi, signorina». In quell’epoca incerta, la conoscenza era denaro.
Le presi la mano e la guardai negli occhi. «Sono informazioni che servono a me sola, alla mia sicurezza. Le prometto che non le svelerò a nessun altro.»
Lei rimase in silenzio per un poco, poi disse: «Il signor Mandl è il proprietario della Hirtenberger Patronenfabrik. È una ditta che produce munizioni e altri armamenti militari, signorina».
«Un lavoro sgradevole, direi. Ma qualcuno deve pur farlo» commentai. Non capivo perché l’industria dovesse coincidere con l’uomo.
«Il problema non sta tanto negli armamenti che produce, ma nelle persone a cui li vende.»
«Eh?»
«Sì, signorina. Lo chiamano il Mercante di Morte.»

3

26 maggio 1933
Vienna, Austria

Nove giorni dopo il mio debutto teatrale con Sissy, la luna crescente sovrastava la città, lasciandosi dietro scie scure d’ombra viola. Era chiara abbastanza da illuminare le strade della città, perciò decisi di andare a casa a piedi dal teatro, nonostante l’ora tarda. Desideravo ardentemente quell’intervallo di quiete, tra la follia del dopo-spettacolo a teatro e il diluvio di complimenti che mi avrebbe sommersa a casa.
Sui marciapiedi non c’erano che pochi passanti: una coppia dai capelli grigi che tornava tranquillamente a casa dopo una cena al ristorante, un ragazzo che fischiettava, e mi sentivo abbastanza al sicuro. I quartieri della città diventavano sempre più eleganti man mano che mi avvicinavo alla casa dei miei genitori, nel quartiere di Döbling, quindi sapevo che le strade sarebbero state sicure. Ma niente di tutto questo avrebbe placato la preoccupazione dei miei, se avessero saputo che tornavo a piedi da sola. Erano molto protettivi con la loro unica figlia.
Smisi di pensare a mamma e papà e mi concessi di sorridere per le recensioni pubblicate su «Die Presse» quella settimana. Il caloroso apprezzamento riservato alla mia interpretazione dell’imperatrice Elisabetta aveva scatenato la corsa ai biglietti e nelle ultime tre sere a teatro c’erano rimasti solo posti in piedi. La stima di cui godevo era cresciuta e il nostro regista, solitamente critico, non faceva mistero del suo apprezzamento. Gli elogi mi facevano piacere, dopo lo scandalo della mia nudità in Estasi – una decisione che mi era parsa accettabile e conforme alla sensibilità artistica del film, fino a quando gli spettatori, tra cui i miei genitori, non ne rimasero scioccati – e sapevo che il ritorno al teatro, dopo l’incursione nel cinema, era stata la decisione giusta. Era come tornare a casa.
Recitare era stato un antidoto alla solitudine dell’infanzia, un modo di riempire la mia tranquilla esistenza di persone diverse dagli onnipresenti tata e tutore e dai sempre assenti mamma e papà. Avevo cominciato creando semplici personaggi e storie con le mie tante bambole su un palcoscenico improvvisato sotto l’enorme scrivania nello studio di papà, ma poi, inaspettatamente, quel mio divertimento era diventato qualcosa di molto più grande. Quando cominciai ad andare a scuola, e a un tratto conobbi una frastornante varietà di persone, recitare divenne il mio modo di muovermi nel mondo, una sorta di patrimonio a cui attingere ogni volta che ne avevo bisogno. Potevo diventare tutto ciò che gli altri intorno a me desideravano segretamente e io, a mia volta, ottenevo da loro tutto ciò che volevo. Tuttavia, soltanto quando calcai il mio primo palcoscenico compresi la vera portata del mio dono. Potevo occultare me stessa e indossare la maschera di una persona completamente diversa, modellata da un regista o da un autore. Potevo volgere lo sguardo al pubblico ed esercitare la mia capacità di influenzarlo.
L’unica ombra che oscurava l’esperienza luminosa di Sissy erano le rose che mi venivano consegnate ogni sera. Cambiava il colore ma non il volume. Ne avevo ricevute fucsia, rosa pallido, avorio, rosso sangue, perfino un viola raro e delicato, ma sempre esattamente dodici dozzine. Era una cosa oscena. Ma perlomeno era cambiato il metodo di consegna. Non venivano più portate con ostentazione sul palco dalle maschere, ma discretamente collocate nel mio camerino durante l’ultimo atto.
Il misterioso signor ...

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