Pachinko
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La moglie coreana

Min Jin Lee

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  1. 600 páginas
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La moglie coreana

Min Jin Lee

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Bestseller internazionale, finalista al National Book Award, "Pachinko" continua a conquistare il cuore dei lettori. Corea del Sud, Anni Trenta. Quando Sunja sale sul battello che la porta in Giappone, il suo Paese, la Corea, è colpito a morte dall'occupazione giapponese. Tradita dall'uomo che l'ha fatta innamorare e da cui aspetta un figlio, per non coprire di vergogna la locanda che dà da vivere a sua madre, Sunja lascia la sua casa, al seguito di un giovane pastore che si offre di sposarla. Ma anche il Giappone si rivelerà un tradimento: quello di un Paese dove non c'è posto per chi, come lei, viene dalla penisola occupata. Perché essere coreani nel Giappone del xx secolo è come giocare al gioco giapponese proibito, il pachinko: un azzardo, una battaglia contro forze più grandi che solo uno sfacciato, imprevedibile colpo di fortuna può ribaltare.

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Información

Año
2018
ISBN
9788858520031
LIBRO SECONDO

Madrepatria

1939-1962
Ero convinta che, per quanti ruscelli e colline attraversassimo, tutto il mondo fosse Corea e tutti fossero coreani.
PARK WAN-SUH

1

Osaka, 1939

Yoseb inspirò a fondo e si piazzò sulla soglia, pronto a subire l’assalto di un bambino di sei anni che aspettava da tutta la settimana il suo sacchetto di yeot, le caramelle morbide. Fece scorrere la porta d’ingresso, preparandosi ad affrontare la carica.
E invece niente.
In soggiorno non vide nessuno. Sorrise. Noa si stava senz’altro nascondendo.
«Yobo, sono arrivato» gridò verso la cucina.
Si chiuse la porta alle spalle.
Tirò fuori il sacchetto dalla tasca della giacca e improvvisò una sceneggiata: «Dove sarà Noa? Se non è a casa, forse potrei mangiarmi la sua parte di dolcetti. Oppure conservarli per suo fratello. Magari oggi è il giorno buono per farli assaggiare al piccolo Mozasu. Non si è mai troppo piccoli per un dolcetto, no? E in fondo ha già un mese. In men che non si dica, io e Mozasu cominceremo a giocare alla lotta, proprio come con Noa! Eh sì, gli ci vorrà qualche morbida caramellina alla zucca per mettere su un po’ di muscoli». Non sentendo alcun rumore, aprì l’incarto crepitante e finse di infilarsi in bocca un grosso pezzo di yeot.
«Mmm, i migliori dolcetti alla zucca che l’ajumma dei maiali abbia mai preparato! Yobo,» gridò «vieni fuori, devi mangiarli a tutti i costi! Sono squisiti!» esclamò fingendo di masticare rumorosamente mentre controllava dietro al cassettone e alla porta scorrevole, i nascondigli abituali di suo nipote.
Il solo accenno al fratellino appena nato, Mozasu, avrebbe dovuto farlo schizzare fuori. Noa, di solito molto educato, negli ultimi tempi si era cacciato nei pasticci a casa, perché non perdeva occasione di dare pizzicotti al neonato.
Yoseb diede un’occhiata in cucina, nessuno nemmeno lì. Toccò la stufa e notò che era fredda; i contorni erano sul tavolino vicino alla porta; la pentola per il riso era vuota. Di solito, quando arrivava a casa, trovava già pronto da mangiare. Il pentolone per le zuppe era pieno per metà di acqua, di patate a tocchetti e di cipolle, bastava solo metterlo sul fuoco. La cena del sabato era la sua preferita, perché la domenica non si lavorava, eppure quella sera nessuno aveva preparato niente. Dopo la cena del sabato, di solito la famiglia andava ai bagni pubblici. Aprì la porta sul retro della cucina e sbirciò fuori, ma non vide altro che i luridi canaletti di scolo. Nella casa accanto, la figlia maggiore dell’ajumma dei maiali stava preparando la cena per la sua famiglia e non diede nemmeno un’occhiata oltre la finestra aperta.
Forse sono andati al mercato, pensò. Si sedette su un cuscino in soggiorno e aprì uno dei numerosi giornali che riusciva a procurarsi. Davanti agli occhi gli fluttuavano colonne stampate che parlavano di guerra: il Giappone avrebbe salvato la Cina apportando innovazioni tecnologiche all’economia rurale; il Giappone avrebbe sconfitto la povertà e portato prosperità in Asia; il Giappone avrebbe protetto l’Asia dalle mani rovinose dell’imperialismo occidentale; soltanto la Germania, il vero e intrepido alleato del Giappone, stava combattendo i mali dell’Occidente. Yoseb non credeva a una sola parola di ciò che leggeva, ma la propaganda era inevitabile. E così ogni giorno sfogliava tre o quattro quotidiani per cercare di capirci qualcosa. Quella sera, tutti i giornali ripetevano le stesse parole; i censori dovevano essersi dati parecchio da fare la notte prima.
Nel silenzio della casa, Yoseb cominciò a perdere la pazienza: voleva la sua cena. Ammesso che Kyunghee fosse andata a prendere qualcosa al mercato, che motivo c’era che Sunja, Noa e il neonato fossero usciti con lei? Isak era sicuramente impegnato in chiesa. Yoseb s’infilò le scarpe.
Per strada nessuno sapeva dove fosse sua moglie e, una volta raggiunta la chiesa, scoprì che suo fratello non c’era. Lo studio sul retro era vuoto, a parte il solito gruppo di donne sedute per terra a capo chino, intente a mormorare preghiere.
Aspettò a lungo finché non alzarono la testa.
«Mi dispiace disturbarvi, volevo solo sapere se avete visto il pastore Baek o il pastore Yoo.»
Le donne, ajumma di mezza età che andavano in chiesa quasi ogni sera per pregare, riconobbero il fratello maggiore del pastore Baek.
«L’hanno preso,» gridò la più vecchia «e anche il pastore Yoo e Hu, il ragazzo cinese. Dovete aiutarli...»
«Che cosa?»
«La polizia li ha arrestati stamattina... quando sono andati tutti a prostrarsi di fronte al tempio shintoista, uno dei capi del villaggio si è accorto che Hu pronunciava sottovoce le parole del Padre nostro invece di giurare fedeltà all’imperatore. L’ufficiale di polizia incaricato della sorveglianza lo ha interrogato, e Hu ha risposto che quella cerimonia era vera e propria idolatria e che lui non vi avrebbe mai più preso parte. Il pastore Yoo ha tentato di spiegare che il ragazzo non sapeva quello che diceva, ma Hu si è rifiutato di dargli ragione. Anche il pastore Baek ha provato a intervenire, ma Hu ha insistito, dicendo che era pronto a finire nella fornace ardente. Proprio come Anania, Misaele e Azaria! La conoscete la storia, vero?»
«Sì, sì» rispose Yoseb, seccato dal loro fervore religioso. «Ora sono al commissariato?»
Le donne annuirono.
Yoseb corse fuori.
Noa era seduto sui gradini del commissariato con in braccio il fratellino che dormiva.
«Zio» sussurrò, e sorrise sollevato. «Mo è pesantissimo.»
«E tu sei un fratello bravissimo, Noa» rispose Yoseb. «Dov’è tua zia?»
«Dentro.» E, non potendo usare le mani, gli fece un cenno con il capo. «Zio, puoi tenere Mozasu? Mi fanno male le braccia.»
«Potresti aspettare qui solo un altro pochino? Tornerò subito o manderò fuori tua madre.»
«Umma1 ha detto che mi darà un dolcetto, se non do pizzicotti a Mozasu e lo tengo buono. Non fanno entrare i neonati, sai?» spiegò Noa serio. «Adesso però ho fame. Sono qui da un sacco di tempo, uffa.»
«Anche zio ti darà un dolcetto. Zio torna subito, promesso.»
«Ma... zio... Mo è...»
«Sì, Noa, e tu sei fortissimo.»
Il nipote raddrizzò le spalle e rimase seduto tutto impettito. Non voleva deludere lo zio, la persona che preferiva in assoluto.
Yoseb stava per aprire la porta del commissariato, quando la voce del nipote lo costrinse a voltarsi.
«Zio, che faccio se Mozasu si mette a piangere?»
«Prova a cantargli una canzoncina mentre cammini avanti e indietro. Facevo così quando avevi la sua età, sai? Te lo ricordi?»
«No, non me lo ricordo» rispose il bambino con aria triste.
«Zio viene subito.»
La polizia non accordava loro il permesso di vedere Isak. Le donne erano rimaste ad aspettare dentro, e ogni paio di minuti Sunja usciva a controllare Noa e Mozasu. Ai bambini era vietato l’ingresso, quindi Kyunghee era rimasta vicino al bancone perché era l’unica a parlare il giapponese. Quando Yoseb entrò nella sala d’attesa, Kyunghee trasalì e poi sospirò di sollievo. Seduta accanto a lei, Sunja piangeva.
«Isak è qui?» domandò Yoseb.
Kyunghee annuì.
«Devi parlare sottovoce» lo ammonì, mentre continuava a consolare Sunja accarezzandole la schiena. «Non so chi ci sta ascoltando.»
«Le donne in chiesa mi hanno raccontato quello che è successo» sussurrò Yoseb. «Perché quel ragazzo ha fatto tante storie per un inchino?» In patria il governo coloniale radunava ogni mattina i cristiani e li costringeva a inchinarsi di fronte ai templi. In Giappone, invece, i capi delle comunità in servizio volontario li costringevano a prostrarsi solo una o due volte alla settimana. «Possiamo pagare un’ammenda?»
«Non credo» rispose Kyunghee. «L’ufficiale ci ha detto di tornare a casa, noi però abbiamo aspettato nel caso lo lasciassero uscire...»
«Isak non può stare in prigione» replicò Yoseb. «Non può.»
Al bancone Yoseb abbassò le spalle e si profuse in un profondo inchino.
«Mio fratello è cagionevole di salute, signore; lo è da quando era ragazzo, e sarebbe difficile per lui stare in carcere. È appena guarito dalla tubercolosi. Esiste un modo per rimandarlo a casa e farlo tornare qui domani per essere interrogato?» domandò Yoseb, usando il linguaggio onorifico giapponese.
L’ufficiale di polizia scosse garbatamente il capo, incurante di quelle richieste. Le celle erano piene di coreani e cinesi e, secondo i loro familiari, soffrivano quasi tutti di qualche grave disturbo di salute che avrebbe dovuto evitar loro la reclusione. Malgrado fosse dispiaciuto per Yoseb, non c’era nulla che potesse fare per lui. Il sacerdote sarebbe stato trattenuto molto a lungo... capitava sempre così con gli attivisti religiosi. In tempi di guerra era necessario usare il pugno di ferro con i piantagrane per salvaguardare la sicurezza nazionale. Comunque era inutile dare tante spiegazioni, visto che i coreani prima procuravano guai, poi accampavano scuse.
«Tornatevene pure a casa, voi e le due donne. Il sacerdote è sotto interrogatorio e non potrete vederlo. State solo sprecando tempo.»
«Sentite, signore, mio fratello non è in alcun modo contro l’imperatore né il governo. Non è mai rimasto coinvolto in nessuna azione ostile al governo» insistette Yoseb. «Non è interessato alla politica e sono sicuro che lui...»
«Non gli è consentito ricevere visite. Se sarà prosciolto dalle accuse, state pur certo che lo rilasceranno e lo rimanderanno a casa.» Il gendarme gli rivolse un sorriso gentile. «Nessuno ha intenzione di trattenere un innocente.» Ne era convinto... Il governo giapponese era leale e corretto.
«C’è niente che possa fare?» domandò Yoseb a bassa voce, mentre si tastava le tasche in cerca del portafoglio.
«Niente che io o voi possiamo fare» rispose seccato l’ufficiale. «E mi auguro che non abbiate intenzione di corrompermi. Un tentativo del genere contribuirebbe soltanto ad aggravare le colpe di vostro fratello. Lui e i suoi colleghi si sono rifiutati di dimostrare fedeltà all’imperatore. È un reato grave, sapete?»
«Non volevo offendere nessuno. Vi chiedo perdono per le mie parole sciocche... Non mi permetterei mai di oltraggiare il vostro onore, signore.» Yoseb si sarebbe messo a strisciare sul pavimento del commissariato, se fosse servito a liberare Isak. Il coraggioso di famiglia era sempre stato Samoel, il fratello più grande. Lui avrebbe affrontato i gendarmi con eleganza e temerarietà; Yoseb invece sapeva di non essere un eroe. Avrebbe preso in prestito altri soldi e venduto la loro baracca, se la polizia avesse accettato del denaro in cambio della libertà di Isak. Yoseb non concepiva l’idea di morire per il proprio paese o per qualche ideale più nobile. Per lui contavano solo due cose: la sopravvivenza e la famiglia.
L’ufficiale si sistemò gli occhiali e guardò alle spalle di Yoseb, ma dietro non vide nessun altro.
«Perché non portate le donne a casa? Non è un posto per loro, questo. Il bambino e il neonato sono fuori. Quelli come voi lasciano sempre i bambini a giocare per le strade, anche di sera. Dovrebbero stare in casa. Se non li tenete d’occhio, un giorno o l’altro finiranno dietro le sbarre» lo ammonì il gendarme, con l’aria esausta. «Stanotte vostro fratello resterà qua. Intesi?»
«Sissignore. Grazie, signore. Mi rincresce di avervi infastidito. Stasera potrei portargli le sue cose?»
«Domattina. Potrete portargli vestiti e cibo» rispose con pazienza l’ufficiale. «Ma i libri religiosi non sono consentiti. Inoltre, tutte le letture devono essere in giapponese.» Il tono di voce era calmo e ponderato. «Purtroppo non può ricevere visite. Mi dispiace molto.»
Yoseb voleva convincersi che quell’uomo in divisa non fosse poi tanto cattivo... che fosse solo un uomo come lui, costretto a svolgere un lavoro che non apprezzava, stanco perché aveva tutta la settimana sulle spalle. Forse anche lui voleva la sua cena e un bagno. Yoseb si considerava una persona razionale, ed era troppo riduttivo ritenere che tutti i poliziotti giapponesi fossero malvagi. E poi aveva bisogno di convincersi che ci fossero delle persone perbene a sorvegliare suo fratello. L’alternativa era intollerabile.
«Allora porteremo le sue cose domattina» concluse Yoseb, scrutando lo sguardo circospetto dell’ufficiale. «Grazie, signore.»
«Certo.»
L’uomo inclinò appena la testa.
Noa ebbe il permesso di mangiare...

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