Austerità
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Austerità

Alberto Alesina, Carlo Favero, Francesco Giavazzi

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  1. 352 páginas
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Austerità

Alberto Alesina, Carlo Favero, Francesco Giavazzi

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«L'austerità» scrive Ferruccio de Bortoli nella prefazione a questo libro «non è un'ideologia, uno stato d'animo o, peggio, una perversione dell'anima. È semplicemente uno strumento, o meglio un insieme di strumenti di politica economica, necessari ad affrontare una situazione d'emergenza, a recuperare efficienza, a innalzare il prodotto potenziale, a introdurre maggiore equità sulla strada di un rinnovato sviluppo.» Di certo, affermano gli autori, non ce ne sarebbe mai bisogno se i governi compensassero l'espansione fiscale durante una recessione con corrispondenti correzioni in fase di crescita. Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi hanno raccolto e analizzato centinaia di programmi di austerità attuati dai governi di sedici Paesi avanzati dalla fine degli anni Settanta a oggi, con un'attenzione particolare a quelli adottati in Europa dopo la crisi greca del 2010 e che in Italia includono gli anni difficili del governo guidato da Mario Monti. Emerge dall'analisi dell'esperienza di questi Paesi un risultato estremamente chiaro: tagliare le spese è molto meno dannoso che alzare le tasse. Può esistere, ed è dimostrato in queste pagine, anche un'austerità «espansiva», come testimoniano tra gli altri i casi di Belgio, Canada e Irlanda negli anni Novanta. In più, non necessariamente il rigore in economia rappresenta il «bacio della morte» per i governi che lo praticano: in Gran Bretagna, David Cameron vinse le elezioni dopo aver portato a termine un programma di riduzione della spesa pubblica e del numero di impiegati statali. Austerità è un volume destinato a trasformare il dibattito sulle politiche di consolidamento fiscale, soprattutto in un Paese, il nostro, afflitto - ma non condannato - dal suo enorme debito pubblico.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2019
ISBN
9788858695791
Categoría
Business
1

Introduzione

1.1 L’austerità

Il termine «austerità» indica una politica di consistente riduzione del deficit pubblico e di stabilizzazione del debito, che può essere attuata attraverso tagli alla spesa, aumenti delle imposte o una loro combinazione. Questo libro esamina quali siano i potenziali costi dell’austerità in termini di perdita di prodotto interno lordo (o PIL), analizza quali tipologie di austerità siano meno dannose per la crescita e studia gli effetti elettorali di tali politiche.

1.1.1 Perché l’austerità?

Se i governi adottassero politiche fiscali prudenti, non ci sarebbe mai bisogno dell’austerità. Secondo la teoria economica e le regole di una buona gestione delle finanze pubbliche, i governi dovrebbero avere il bilancio in deficit solo in due casi: durante le recessioni – cioè quando si ha un basso gettito e la spesa pubblica è alta a causa degli stabilizzatori automatici, come i sussidi di disoccupazione – e in quelle circostanze eccezionali in cui i bisogni di spesa sono temporaneamente alti, per esempio a causa di una calamità naturale o una guerra. Questi disavanzi andrebbero poi coperti con avanzi di bilancio quando l’economia è in crescita e i bisogni di spesa sono bassi. Inoltre, una politica fiscale lungimirante richiederebbe di mettere da parte risorse per i «tempi duri», così da poter far fronte, in circostanze eccezionali, a spese inattese.
Invece, i periodi di austerità sono relativamente comuni, e questo per due ragioni. In primis, molti governi non seguono le prescrizioni appena citate: spesso viene accumulato deficit anche quando l’economia è in crescita, e i disavanzi prodotti durante le recessioni non sono compensati da surplus quando l’economia è in espansione. Di conseguenza, molti Paesi hanno accumulato debiti pubblici considerevoli anche durante periodi perfettamente «normali». Per esempio, in Belgio, Irlanda e Italia il debito è cresciuto alla fine degli anni Settanta e Ottanta, quando il PIL era in forte crescita (più del 2% all’anno in media, per tutti e tre i Paesi); la Grecia ha accumulato un debito enorme all’inizio di questo millennio, quando il suo tasso di crescita era straordinariamente alto, intorno al 5% all’anno. Sono molte, infatti, le distorsioni politiche che possono portare i governi a non tassare abbastanza o, cosa più comune, a spendere troppo.
Il secondo motivo per cui l’austerità può rendersi necessaria è che, talvolta, livelli eccezionalmente alti di spesa pubblica, magari anche più consistenti del previsto, generano così tanto debito che quest’ultimo non può essere ridotto semplicemente con la crescita. Non mancano esempi di Paesi che hanno ridotto il peso del debito grazie a una crescita sostenuta del reddito nazionale, ma purtroppo questo non è sempre possibile. Nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, la crescita e l’inflazione erano abbastanza alte da diminuire il debito accumulato durante gli anni del conflitto; lo stesso però non è avvenuto negli ultimi decenni. Il solo fatto di avere un debito alto può costituire di per sé un ostacolo alla crescita; basti pensare al gettito fiscale che è necessario reperire per finanziare gli interessi sul debito. Inoltre, la combinazione di alto indebitamento e bassa crescita porta spesso a crisi del debito, poiché gli investitori perdono fiducia nella capacità del governo di onorare le sue obbligazioni: in questi casi, le politiche di austerità vanno intese come un tentativo di ristabilire tale fiducia.
Talvolta, debito eccessivo e crisi si combinano. Si consideri, ad esempio, l’ultimo ciclo di austerità, quello del periodo 2010-2014, che ha seguito la Grande recessione: molti Paesi (ad esempio Italia e Grecia) già all’inizio della crisi partivano da alti livelli di indebitamento, accumulati senza una buona ragione. In altri Paesi, invece, il debito era relativamente basso, ma solo per via di una bolla nel settore immobiliare che aveva prodotto entrate fiscali eccezionalmente alte (si pensi ai casi di Spagna e Irlanda); non appena la bolla immobiliare è scoppiata, è esplosa anche la bolla fiscale. In sintesi, la crisi finanziaria ha generato una crisi del debito perché ha colpito economie in cui politiche fiscali sbagliate avevano portato a livelli di indebitamento pericolosamente alti.
La conclusione che si può trarre è che l’austerità è talvolta necessaria, a causa di politiche sbagliate oppure di una combinazione di politiche sbagliate e shock negativi inattesi. Questi ultimi, fortunatamente, sono relativamente rari, pertanto l’austerità è quasi sempre il risultato di scarsa lungimiranza e di un livello di spesa pubblica eccessivo rispetto al gettito fiscale.

1.1.2 Quale tipo di austerità?

La discussione sui costi e i benefici delle politiche di austerità messe in atto dopo la crisi finanziaria del 2007 è stata aspra, e ha spesso assunto un tono ideologico. Da una parte, alcuni economisti sostenevano che l’austerità in Europa, negli Stati Uniti e negli altri Paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (l’OCSE) fosse inutile. A parer loro, quello di cui queste economie avevano bisogno era più spesa pubblica e più tempo per riprendersi dalla crisi finanziaria e uscire dalla recessione. I governi avrebbero dovuto lasciare crescere ulteriormente i deficit di bilancio, e per più tempo. Il fronte anti austerità sostiene che una politica fiscale restrittiva sia stata controproducente, poiché ha prodotto un aumento, invece che una riduzione, del rapporto debito/PIL: ha generato una riduzione del denominatore, che ha più che compensato il miglioramento del numeratore. La versione più estrema di questa posizione è che non fare niente, anziché adottare una qualunque forma di austerità, avrebbe portato a un rapporto debito/PIL più basso. Sul fronte opposto, altri economisti sostenevano invece che il rapido aumento del debito pubblico, specialmente in alcuni Paesi europei, avrebbe portato al collasso del sistema bancario, poiché molte banche detenevano grandi quantità di debito sovrano. Questo a sua volta avrebbe generato un’ulteriore crisi finanziaria, e una recessione ancora più lunga e severa. Molti hanno temuto il crollo dell’euro, che avrebbe avuto conseguenze economiche e politiche imprevedibili, e in ogni caso potenzialmente drammatiche. Inoltre, l’accumulo di ulteriori debiti avrebbe reso inevitabile l’adozione di un’austerità ancora più severa in futuro. I mercati non sono sembrati convinti della posizione anti austerità: nei Paesi con debiti fortemente in crescita, come Grecia, Italia, Portogallo e Spagna, lo spread (ossia il differenziale di rendimento dei titoli di Stato a dieci anni rispetto ai bund tedeschi) è salito alle stelle ed è ridisceso solo quando sono state adottate misure di austerità e quando la Banca centrale europea (BCE) ha deciso di intervenire.
Il principale messaggio di questo libro è che esistono due tipi di austerità: solo partendo da questo presupposto sarà possibile comprenderne appieno gli effetti. Il primo tipo di austerità si basa su aumenti delle tasse, dirette o indirette: nelle economie OCSE che hanno livelli di tassazione già molto alti, ulteriori aumenti delle imposte hanno esattamente gli effetti che i detrattori dell’austerità temono, ossia sono fortemente recessivi nel breve-medio periodo (fino a tre, quattro anni dopo la loro introduzione) e sono seguiti da significative contrazioni del PIL. Al contrario, le politiche di austerità basate su tagli alla spesa – almeno considerando i Paesi OCSE negli ultimi tre decenni – hanno avuto effetti opposti a quelli previsti dal fronte anti austerità: i loro costi in termini di perdita di prodotto sono stati molto bassi, in media vicini a zero. L’austerità basata su aumenti delle tasse è spesso risultata in un aumento del rapporto debito/PIL; è però difficile dire se tale rapporto sarebbe cresciuto anche di più in assenza di quegli aumenti. Al contrario, l’austerità basata su tagli alla spesa ha spesso portato a riduzioni significative del rapporto debito/PIL. Il fatto che aumenti delle tasse e riduzioni della spesa abbiano effetti diversi dipende da due fattori: il primo è che queste due politiche hanno risultati diversi sul denominatore del rapporto debito/PIL, come mostrato sopra; il secondo è che i tagli alla spesa – in particolare quelli che limitano l’aumento delle voci di spesa automatiche, come i programmi di previdenza sociale – hanno un effetto più duraturo sul deficit rispetto agli aumenti delle tasse. Questo avviene perché le tasse dovranno prima o poi coprire la crescita automatica dei vari programmi di spesa, se questa non è affrontata in altro modo. Se la tassazione continua ad aumentare, la crescita del prodotto interno lordo ne sarà rallentata, e questo inciderà sul denominatore del rapporto debito/PIL; in caso contrario, il numeratore aumenta, perché la spesa cresce mentre il gettito fiscale resta invariato.
Che cosa può spiegare queste considerevoli differenze tra l’austerità basata sulla spesa e quella basata sulle tasse? In questo libro considereremo varie interpretazioni alternative. Una possibilità è che ai due tipi di austerità siano sistematicamente associate politiche di accompagnamento diverse: in particolare, l’austerità basata sulla spesa potrebbe beneficiare più spesso del sostegno della politica monetaria, di svalutazioni del tasso di cambio e di riforme sul lato dell’offerta. Dimostreremo, però, che non è questo il caso. Una spiegazione più interessante ha a che fare con le aspettative e la fiducia. Si pensi ad esempio a un’economia in cui il sentiero di crescita del debito pubblico è insostenibile: prima o poi occorrerà una stabilizzazione di bilancio. Quanto più a lungo questa viene rimandata, tanto più alti dovranno essere gli aumenti delle tasse o i tagli alla spesa nel futuro. Quando finalmente il consolidamento fiscale è attuato, si elimina l’incertezza legata alla possibilità di ulteriori ritardi, che avrebbero reso la stabilizzazione fiscale ancora più costosa. È però probabile che dalla rimozione di tale incertezza si traggano benefici maggiori nel caso di tagli alla spesa, piuttosto che nel caso di aumenti delle tasse; questo perché gli aumenti delle tasse non affrontano direttamente la crescita automatica dei sussidi o di altri programmi di spesa, e perciò non producono un effetto duraturo sul bilancio. Il risultato è che le tasse dovranno continuamente essere alzate per coprire l’aumento delle spese. Pertanto, nel caso di aumenti delle tasse, l’impatto sulla fiducia sarà probabilmente molto più limitato, perché imprese e consumatori si aspettano che in futuro le tasse continueranno a salire. Questa teoria è supportata dai risultati delle nostre ricerche sulla fiducia delle imprese durante i periodi di austerità.
Un altro tipo di interpretazione riguarda il lato dell’offerta, che reagisce in modo molto diverso agli aumenti delle tasse e alle riduzioni della spesa. Per esempio, un aumento delle imposte sul lavoro riduce l’offerta di impieghi e ne alza i costi per le imprese, quindi i prezzi dei beni prodotti. Inoltre riduce la domanda aggregata dei consumatori, data la diminuzione del reddito disponibile. Anche i tagli alla spesa riducono la domanda aggregata, ma, specialmente quando sono percepiti come permanenti, riducono anche l’ammontare di tassazione che i consumatori si aspettano di dover pagare in futuro; e possono anche influenzare l’offerta di lavoro, dato che ci si aspetta una diminuzione delle imposte. Queste interazioni tra domanda e offerta producono effetti di «equilibrio generale», che vengono spesso tralasciati nelle analisi delle politiche fiscali. Come vedremo più avanti, un fattore cruciale esplicativo di queste interazioni è la natura permanente o transitoria delle variazioni di politica fiscale: torneremo più in dettaglio su queste questioni nel corso del capitolo 7.

1.1.3 L’austerità può essere espansiva?

Sì, può esserlo. L’austerità espansiva si ha quando la riduzione della spesa pubblica è più che compensata dalla crescita delle altre componenti della domanda aggregata (consumi, investimenti ed esportazioni nette). Più avanti studieremo il ruolo particolarmente importante degli investimenti privati. Poiché l’idea dell’austerità espansiva ha generato un certo scetticismo, è importante chiarire fin da subito questo concetto: considerare la possibilità che l’austerità sia espansiva non significa assumere che l’economia cresca ogni volta che un governo riduce la spesa pubblica. L’espressione «austerità espansiva» si riferisce piuttosto al fatto che, in certi casi, il costo diretto in termini di PIL dei tagli alla spesa è più che compensato dalla crescita di altre componenti della domanda aggregata.
Dunque cosa vuol dire, esattamente, che l’austerità può essere «espansiva»? Si potrebbe dire che l’austerità è espansiva quando si osserva crescita positiva nel periodo in cui viene messa in atto una politica di austerità, o nei periodi immediatamente successivi. Questa però sarebbe una definizione poco efficace: immaginiamo che siano adottate politiche di austerità in un periodo in cui la maggior parte delle altre economie sono in espansione, e che il Paese che implementa tali politiche consegua una crescita minore della media, ma pur sempre positiva. Avrebbe senso parlare di «austerità espansiva» in questo caso? E un ragionamento simmetrico vale nell’eventualità in cui un Paese applichi politiche di austerità durante una recessione mondiale. In alternativa, l’austerità potrebbe essere definita espansiva quando è accompagnata da un tasso di crescita del PIL che supera una certa soglia (ad esempio quando tale tasso di crescita è fra i più alti registrati nello stesso periodo in Paesi simili). Questa è la definizione che adotteremo nel corso della nostra analisi descrittiva. Uno sguardo d’insieme alle evidenze empiriche disponibili suggerisce alcuni esempi di austerità espansiva: Austria, Danimarca e Irlanda negli anni Ottanta; Spagna, Canada e Svezia negli anni Novanta. Nel periodo successivo alla crisi finanziaria, i due Paesi che hanno conseguito risultati migliori con politiche di austerità sono stati Irlanda e Regno Unito, nonostante gli enormi problemi del sistema bancario irlandese. Entrambe le nazioni hanno operato prevalentemente tagli di spesa. Questi e altri...

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