Homo stupidus stupidus
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Homo stupidus stupidus

Vittorino Andreoli

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Homo stupidus stupidus

Vittorino Andreoli

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È DISPONIBILE il nuovo saggio di VITTORINO ANDREOLI "IL RUMORE DELLE PAROLE".È possibile scongiurare l'agonia in cui sta scivolando la nostra civiltà? Che ne è dell'uomo quando smarrisce i benefici garantiti dalla parte più evoluta del suo cervello? Quando delega le sue funzioni ad appendici digitali, vere e proprie protesi, innescando una regressione che cancella ogni traccia del salto evolutivo per cui è stato definito sapiens sapiens, diventando stupidus stupidus? Quando la nostra mente perde progressivamente la razionalità e l'affettività, e intanto muore l'etica, muoiono gli dèi, che vengono sostituiti dal denaro e dal successo? Vittorino Andreoli sa che l'uomo si può "rompere", come psichiatra ha seguito e curato molti pazienti aiutandoli a sollevarsi dalle loro cadute. Ecco perché non ha perso la fede nell'uomo e nelle sue possibilità.
In queste sue nuove pagine vuole lanciare un allarme e spingerci a riflettere sulla regressione del nostro tempo, che rischia di cancellare le conquiste che hanno segnato la storia dell'Occidente. Convinto che la morte di una civiltà possa essere osservata e testimoniata, e che se ne possano indicare i segni premonitori, mette a fuoco tre comportamenti talmente diffusi da essere diventati regole: la distruttività, la caduta dei princìpi primi che sono alla base del vivere sociale e l'uomo senza misura. Intorno a questi tre grandi temi, svolge la sua analisi arrivando alla conclusione che l'uomo vada ormai escluso dall'ambito della sapienza. Il tratto che oggi lo definisce meglio è l'essere stupidus, secondo il significato etimologico, che condivide la radice con "stupore". Lascia infatti attoniti, sbalorditi, che un uomo possa assumere gli atteggiamenti dominanti nel nostro tempo, ma ancora più incredibile è che lo possa fare una comunità intera, un popolo.
Un margine per invertire la rotta ancora c'è, per farlo occorre però riaffermare i princìpi che permettono il procedere della ragione, la bellezza della cooperazione contro l'esasperato individualismo, integrando sentimenti e razionalità.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2018
ISBN
9788858694121

L’uomo senza misura

La disparità

Nel Settecento nasce con Immanuel Kant il concetto di «categoria della mente», con cui descrive le caratteristiche della fabbrica dei pensieri, delle idee e quindi anche della comprensione del mondo e del sapere. Le potremmo definire categorie dentro l’uomo e creare in questo modo lo spazio per definire anche le categorie sociali che distinguono e ordinano gli uomini all’interno della società.
Se nelle categorie della mente dominavano i princìpi della ragione, in quelle sociali si sono imposti i princìpi dell’economia.
Credo che anche la nascita di questo tipo di categoria si potrebbe collocare cronologicamente nel Settecento, quando, almeno in Europa, si diffonde l’industria, una vera e propria rivoluzione rispetto alle società precedenti, poiché promuove la dimensione della massa. Fino ad allora aveva dominato l’attività artigianale, destinata anch’essa alla produzione, ma limitata a pochi fruitori. I prodotti erano realizzati dall’uomo con il supporto di protesi che ne aumentavano le capacità esecutive: una sega a mano rendeva più facile tagliare il ramo di un albero e così un coltello facilitava la costruzione da quel tronco di un oggetto con una particolare funzione.
È la nascita dell’industria a segnare l’inizio dell’età delle macchine non più come protesi dell’uomo, ma come suoi sostituti. Per questo non solo è aumentata in maniera esponenziale la quantità di oggetti che si potevano ottenere, ma è diventato anche possibile fabbricare prodotti che dipendevano dalle macchine prima ancora che dall’uomo. E ben presto il rapporto si è invertito, ponendo l’uomo al servizio della macchina. È su questo capovolgimento che si fonderà la critica che, dal punto di vista economico, hanno mosso Marx ed Engels, mostrando che l’uomo ridotto a macchina perdeva la propria salute e la propria dignità.
Con la rivoluzione industriale, nel Settecento e in modo particolare in Inghilterra, nascono le categorie sociali, nella loro espressione più elementare che distingue la miseria dalla povertà e la povertà dalla ricchezza.
Le distinzioni sociali certamente esistevano anche prima, ma i criteri per stabilirle erano del tutto diversi. Da un lato c’erano i nobili, che dominavano sugli uomini ordinari e, a loro volta, dipendevano sempre da un monarca, il cui potere discendeva da Dio.
Tutto si svolgeva come se questa differenza fosse strutturale: una dimensione evoluzionistica ante litteram, prima ancora della teoria darwiniana. I nobili però erano pochi e costituivano una casta verso la quale gli «altri» non potevano nulla. Si trattava di una differenza di «specie». I nobili avevano ampie proprietà, con terreni che venivano lavorati dai servi, uomini senza qualità.
Un’altra categoria era costituita dai sacerdoti, che davano il proprio supporto alla nobiltà. Avevano potere sulla Terra, perché rappresentavano Dio. E si distinguevano per il loro sapere, per il fatto di possedere strumenti non accessibili né all’uomo senza qualità né ai nobili. E queste si ponevano come distinzioni abissali, ancor più notevoli che tra specie di animali differenti.
L’uomo senza qualità dipendeva sia dal nobile, poiché era al suo servizio, sia dai sacerdoti, che avevano potere persino sul suo futuro eterno.
Con questi brevissimi cenni voglio richiamare il periodo storico in cui le differenze sociali erano nette ma soprattutto scontate, accettate come se fossero inscritte nella natura, oppure perché parte di una disposizione addirittura divina. Mancava quasi del tutto la conflittualità e dominava un ordine naturale. Sembrava non esistessero, sul piano psicologico, nemmeno i desideri, che sono sempre all’origine dei conflitti. L’uomo senza qualità era la categoria più diffusa, priva al suo interno di ulteriori distinzioni.
Uscendo dall’Europa, si poteva osservare la struttura sociale delle cosiddette popolazioni primitive, che i Paesi coloniali conoscevano bene dopo averle sottomesse. Il villaggio era una struttura ordinata, senza contrapposizioni, senza conflitti, dunque. Il capo villaggio era come un piccolo monarca, e poi vi era lo sciamano, che in qualche modo richiamava il sacerdote, poiché si riteneva che le malattie fossero volute dagli spiriti cattivi e quindi spettava a lui allontanarli con degli esorcismi. Il resto della popolazione aveva compiti precisi e comuni, a seconda del genere e dell’età.
Tutto era codificato.
Con la rivoluzione industriale, in Europa le categorie sociali non rappresentano più delle variazioni stabili (secundum naturam), ma diventano mobili e sono in grado di dinamizzare la società, togliendo persino i confini e attivando quel comportamento che oggi dovremmo definire al contempo affascinante e drammatico: il protagonismo. Sorge l’idea, cioè, che l’uomo possa in qualche modo modificare il proprio stato sociale, e da questo momento si impongono le categorie mobili.
L’uomo si caratterizza non per quello che è, ma per ciò che riesce a fare e a «diventare». Entrano così in scena i desideri, i progetti, e viene sconvolto il concetto stesso di uomo e di umanità.
È in questo periodo (accettando uno schematismo elementare) che si pone la differenza tra miseria, povertà e ricchezza.

La miseria

La miseria è una condizione al limite della sopravvivenza, in cui occorre combattere contro il rischio di morire. I bisogni tipici sono sempre quelli che Darwin definiva primari: l’alimentazione, la difesa della propria incolumità e la sopravvivenza dei propri figli: la miseria non è una condizione in cui sia possibile la lotta, solo che si avvertono i bisogni, ma si resta chiusi nella dipendenza, nella passività.
La lotta darwiniana, poi, si pone non solo all’interno del singolo, ma in un contesto ambientale: presuppone cioè che esista un individuo in un ambiente, dal quale può ottenere soddisfazione ai bisogni. La miseria, invece, è una condizione all’interno della quale dall’ambiente non è possibile ottenere nulla. In un villaggio, dove la siccità ha desertificato, l’uomo è senza un ambiente, poiché la sabbia non permette di trarre ciò che serve ad alimentarsi, a difendersi dalle malattie, a far crescere la prole.
È in questo ambito che si pone il dramma dei bambini che muoiono di fame o delle malattie incurabili, poiché non c’è nemmeno lo sciamano.
Ancora oggi, nelle zone subsahariane, in un’Africa paragonabile a quella antica, la carestia mantiene uno stato di miseria per vincere il quale non è nemmeno possibile invocare la lotta, intesa come sforzo per raggiungere un luogo diverso, poiché in simili condizioni non è possibile nemmeno tentare di attraversare territori sconfinati di sabbia.
E lo stesso avviene nelle periferie di grandi città dell’America del Sud o dell’India, dove esistono ammassi di persone in un ambiente in cui manca persino la possibilità di una lotta per l’esistenza.
La miseria può ricevere, ma non conquistare. Ha bisogno di consumare, ma non è in grado di produrre. I miserabili della Parigi sotterranea di Victor Hugo (e siamo già nell’Ottocento) ci danno un’immagine eloquente di un uomo senza territorio, privato della condizione stessa per lottare e per esistere.

La povertà

La povertà si distingue dalla miseria proprio perché è una condizione di lotta. Al suo interno si ha la percezione che esista un ambiente in cui non solo è possibile risolvere i bisogni della sopravvivenza, sempre legati al qui e adesso, ma si intravede la possibilità di reperire ciò che serve per vivere anche domani.
La povertà è, o può essere, attiva. Percepisce i bisogni e immagina la strategia per darvi risposta e, dunque, per avere garantita l’alimentazione, la difesa della propria fisicità e la continuazione delle generazioni. Che si tratti di una condizione mobile è dimostrato dal fatto che si possono distinguere povertà differenti (di diversa intensità), ma anche casi di povertà che si trasformano in ricchezza. Una condizione sociale da cui si può uscire, ma in cui si può anche scivolare, pur essendone stati al di fuori fino a quel momento.
Se definire la misura che determina la miseria non pone alcun problema, la povertà è invece oggetto continuo di discussione per stabilire i criteri che la delimitano. Bisogna rapportarla ai diversi tipi di società e dipende dalla dimensione individuale.
Un insegnante di filosofia non è povero se è single, lo diventa se è padre di due figli. Esiste, dunque, un’enorme dinamica all’interno della povertà. Ci sono persone, persino gruppi, che sull’elemosina (espressione di una lotta per risolvere i princìpi darwiniani) costruiscono e nascondono delle ingenti ricchezze.

L’abbondanza

L’abbondanza è al di fuori di ogni imperativo darwiniano, nel senso che non considera nemmeno le necessità della sopravvivenza, poiché si trova in una dimensione dove, semmai, dominano gli eccessi, non i rischi della «paucità». È una visione del mondo diversa: invece di preoccuparsi della mancanza, si guarda al troppo. Se la sopravvivenza è precisamente definita, poiché al di sotto di date condizioni si muore, l’eccesso invece non ha limiti, teoricamente può essere infinito. Che non si tratti di un concetto teorico lo dimostrano le classifiche degli uomini e delle donne più ricchi del mondo, come quella stilata da «Forbes», dove si vede che la ricchezza del mondo è nelle mani di poche persone. Quando la Terra conta più di sette miliardi di viventi.
La dinamica dominante è che non esiste la sazietà, quel fenomeno biologico di limite oltre il quale si rifiuta il cibo (quando il livello di glucosio nel sangue è arrivato a una data concentrazione). Nella dinamica delle ricchezze domina infatti la bulimia, e il bulimico è uno che non è mai sazio, perché non funziona il freno dato dalla concentrazione del glucosio nel sangue. Così si diventa anche obesi.
Un ricco sembra una cassaforte elastica che racchiude tutta la ricchezza fatta di oggetti di valore. Ma andare oltre il necessario significa insinuarsi nella dimensione del superfluo, dell’inutile, favorendo una percezione irreale di sé e del mondo.
Le ricchezze esagerate hanno bisogno di puntare a un futuro di eternità e a una percezione di sé onnipotente. Un vero e proprio delirio di grandezza.
Il limite è dato da un’integrazione tra bisogni e desideri.
I desideri sono la caratteristica principale che definisce l’uomo e la specie umana. Esprimono la capacità di immaginarci domani diversi da come siamo oggi. E pertanto si legano alla percezione del tempo che si concepisce come sconfinato e spesso sono accompagnati da aggettivi come «infinito» e «illimitato», in cui si perde il senso della realtà.
I bisogni, sia pure variabili nei diversi periodi storici e nei singoli, mantengono una dimensionalità. Quelli del corpo sono ritmati dalla biologia, quindi da meccanismi guidati da leggi. E ogni legge si fonda su un limite.
La mente, oggi, viene definita come l’insieme delle funzioni del cervello e quindi è anch’essa un organo regolato dalla biologia. Pur tenendo conto della fantasia e dell’immaginario, il senso del limite (il rapporto di realtà) permane, consentendo in ogni momento di stabilire quando un desiderio è compatibile (realistico) o astratto. Il desiderio di volare è incompatibile con la struttura del corpo umano, e persino Icaro, che si era dotato di ali, non è riuscito a realizzarlo.
Mettendo in relazione questi rilievi al tema delle ricchezze, appare evidente che vi sono dimensioni che non hanno alcuna simmetria con i bisogni, ed esistono esempi in cui questa categoria economica è assolutamente inadeguata a chi vi appartiene e non risponde ai bisogni, anzi, finisce per indurre delle difficoltà, e quindi appesantire l’esistenza.
Mi ha sempre colpito il comportamento del risparmiatore, che è strumentale al bisogno di sicurezza del nostro tempo, ma rimanda all’imperativo della territorialità di Darwin come luogo di garanzia e di difesa dell’esistenza di sé e del gruppo di appartenenza.
Esistono però casi di straricchi che manifestano un’attenzione al risparmio esagerata, spesso persino per somme ridicole e mi sorprende che essi attivino addirittura dei piccoli imbrogli finalizzati, per esempio, a evadere le tasse. È come se raggiungere la ricchezza in tempi rapidissimi le togliesse il senso di mezzo per fare progetti. La spinta è ad aumentarla ancora di più, arrivando a volte al paradosso di dover aumentare ciò di cui si ignora persino l’entità.
Mi pare che queste considerazioni sottolineino bene che la ricchezza non è legata al «chi sei», ma a una sovrastruttura dell’io, che è appunto il «cos’hai», per riferirsi alla distinzione di Schopenhauer. Se vi si aggiunge il «cosa rappresenti», in questa dimensione la tua ricchezza distrugge la tua immagine, il senso che hai per gli altri. Si accumula l’inutile che potrebbe essere utile per la sopravvivenza di molti, che invece muoiono.
Basterebbe una «briciola» di quello che qualcun altro ha in eccesso.
Parlando di ricchezze s’impone anche la distinzione tra la ricchezza personale e quella dell’intera comunità. Ed è proprio nel Settecento che la ricchezza si evidenzia come ingiustizia e ciò avviene proprio nel momento (messo in luce da Marx e da Engels) in cui ci si rende conto che l’origine della ricchezza del «padrone» deriva dal lavoro del proletariato che non viene pagato per ciò che produce. È allora che sorge la conflittualità, poiché il padrone non è né il nobile né il sacerdote, eppure acquista una dimensione speciale sfruttando un altro uomo. Trattiene il plusvalore in maniera ingiusta. Se fino ad allora giusto e ingiusto non avevano significato (e al loro posto vi erano Natura e Dio), adesso è l’uomo che sfrutta l’uomo, che si arricchisce inducendo la povertà di quel suo simile che gliela rende possibile.
Marx, avendo capito che proprio da qui nasce il conflitto, parla di rivoluzione.
Ciò che non funziona è proprio il rapporto tra bisogni e desideri; si crea un dualismo: da una parte chi persegue i desideri oltre i bisogni, dall’altra chi non ha spazio per desiderare poiché non riesce a rispondere ai bisogni quotidiani di sopravvivenza.
Questa asimmetria tra bisogni e desideri che, sul piano sociale, ha generato ingiustizie all’interno di una stessa società, tra società diverse e persino tra aree del mondo ...

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