Il discepolo
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Il discepolo

La leggenda del vampiro

Elisabeth Kostova

  1. 680 páginas
  2. Italian
  3. ePUB (apto para móviles)
  4. Disponible en iOS y Android
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Il discepolo

La leggenda del vampiro

Elisabeth Kostova

Detalles del libro
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Índice
Citas

Información del libro

Una notte, curiosando nella biblioteca del padre, una ragazza fa una strana scoperta: un fascio di vecchie lettere indirizzate "Al mio caro e sfortunato successore". E, accanto alle lettere, un libro ancora più strano, dalle pagine completamente bianche eccetto quelle centrali, raffiguranti un drago e la scritta "Drakulya". Quel libro è la chiave d'accesso a un mistero - e a un orrore - sepolti nelle profondità della storia. Un viaggio in Turchia, Romania, Bulgaria alla caccia della vera tomba di Vlad si trasforma ben presto in un pericoloso confronto con lo stesso Dracula nella sua incarnazione di vampiro, ma anche nella scoperta dell'amore. Chi l'ha detto infatti che i vampiri non possono amare?

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Información

Editorial
BUR
Año
2017
ISBN
9788858642337

ELIZABETH KOSTOVA

Il discepolo











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Proprietà letteraria riservata
© 2005 by Elizabeth Kostova
This edition published by arrangement with Little, Brown and Company (Inc.), New York, New York, USA.
All rights reserved
© 2005 RCS Libri S.p.A., Milano
eISBN 978-88-58-64233-7
Titolo originale dell’opera: The Historian

Traduzione di Maria Barbara Piccioli

Prima edizione digitale 2013 da edizione BURextra ottobre 2009

Le citazioni negli occhielli sono tratte dalla seguente edizione italiana: Bram Stoker, Dracula, Rizzoli, Milano 1993 (traduzione di Rosanna Pelà).
Tutti i personaggi e gli episodi citati in questo volume sono fittizi. Ogni riferimento a persone è puramente casuale e non voluto dall’Autore.

In copertina: © Dunca Daniel Miha/Alamy
© Shutterstock
Progetto grafico di Mucca Design
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Dedica

A mio padre,
che per primo mi ha raccontato
alcune di queste storie.

Nota per il lettore

Non è mai stata mia intenzione mettere per iscritto la storia che state per leggere. Di recente, tuttavia, una serie di eventi mi ha spinta a ripensare agli episodi più tormentati della mia vita e di quella delle persone che più ho amato. Questo è il racconto di come, a sedici anni, andai alla ricerca di mio padre e del suo passato, di come lui stesso si mise sulle tracce del suo adorato mentore, e di come insieme ci trovammo a percorrere uno dei sentieri più bui della storia. È il racconto di coloro che sono sopravvissuti alla ricerca e di chi invece non ce l’ha fatta, e del perché. In qualità di storica so bene che non tutti coloro che fanno ritorno al passato ne escono vivi. Ma non solo in questo modo siamo in pericolo: a volte è la storia stessa che, inesorabile, ci raggiunge allungando i suoi oscuri artigli.
Nei trentasei anni successivi ai fatti che mi accingo a raccontare, la mia vita è stata relativamente tranquilla. Mi sono dedicata alla ricerca e ai viaggi, ai miei studenti e agli amici, alla stesura di libri di storia e agli impegni dell’università dove alla fine ho trovato rifugio. Nel rivisitare il passato, ho avuto la fortuna di poter accedere a un gran numero di documenti, in mio possesso da molti anni. Quando l’ho ritenuto opportuno, li ho cuciti insieme in modo da garantire continuità alla narrazione, che pure di tanto in tanto ho dovuto integrare con i ricordi. Spesso ho riportato i primi racconti di mio padre così come mi erano stati narrati a voce, altre volte ho preferito attingere dalle sue lettere.
Oltre a riprodurre queste fonti quasi per intero, ho effettuato molte ricerche, a volte tornando a visitare un luogo per rinfrescarmi la memoria. Tra i maggiori piaceri che ho tratto da questa impresa vi sono i colloqui – e in alcuni casi la corrispondenza – che ho avuto con i pochi studiosi ancora in vita che presero parte agli avvenimenti che qui riporto. I loro ricordi si sono dimostrati un inestimabile contributo. Il mio testo ha inoltre beneficiato dell’aiuto di studiosi più giovani, esperti in numerosi campi.
C’è un’ultima fonte a cui ho attinto in caso di necessità: l’immaginazione. L’ho fatto con prudenza, inventando per il mio lettore solo quanto sapevo essere probabile, e anche in questi casi solo quando un’ipotesi fondata serviva a inserire quei documenti nel giusto contesto. Quando non ero in grado di far luce su eventi o cause, li ho lasciati senza spiegazione, per riguardo alle loro realtà nascoste. Quanto agli eventi storici contenuti in questa narrazione, ho svolto le stesse accurate ricerche che avrei riservato alla stesura di un saggio accademico. Gli scorci di conflitti religiosi e territoriali tra l’oriente islamico e l’Occidente giudaico-cristiano risulteranno dolorosamente familiari al lettore.
Mi è impossibile ringraziare in maniera adeguata tutti quelli che hanno contribuito al progetto, ma vorrei nominarne almeno alcuni. La mia profonda gratitudine va, tra i tanti, al dottor Radu Georgescu dell’Università del Museo Archeologico di Bucarest, alla dottoressa Ivanka Lazarova dell’Accademia di Scienza Bulgara, al dottor Petar Stoichev, dell’Università del Michigan, all’instancabile staff della British Library, ai bibliotecari del Rutherford Literary Museum e della Library di Philadelphia, a Padre Vasil del Monastero di Zographou del monte Athos e al dottor Turgut Bora dell’Università di Istanbul.
La mia grande speranza nel rendere pubblica questa vicenda, è di trovare almeno un lettore in grado di coglierne i significati profondi. A te, perspicace lettore, affido la mia storia.
Oxford, Inghilterra
15 Gennaio 2008

Parte Prima

In quale ordine di successione siano presentate queste carte risulterà evidente a chi leggerà. Tutti i fatti superflui sono stati eliminati, in maniera che una storia apparentemente inverosimile e quasi incompatibile con le credenze di oggi possa reggere come una semplice realtà. Non sono riportati avvenimenti riferiti al passato, in cui la memoria potrebbe fallare: infatti tutti i documenti sono assolutamente contemporanei, e presentati dal punto di vista di coloro che li hanno scritti, e nell’ambito delle loro conoscenze.

Bram Stoker, Dracula, 1897

Capitolo 1

Era il 1972 e io avevo sedici anni: troppo pochi, secondo mio padre, per accompagnarlo nelle sue missioni diplomatiche. Preferiva sapermi seduta composta e attenta nell’aula della scuola internazionale di Amsterdam. A quei tempi, era lì che aveva sede la sua Fondazione, e Amsterdam era diventata la mia casa da così tanto tempo che avevo quasi dimenticato gli anni trascorsi negli Stati Uniti. Adesso mi sembra a dir poco strano che, mentre il resto del mondo sperimentava le droghe e protestava contro la guerra in Vietnam, io fossi invece una ragazzina ubbidiente e senza grilli per la testa; ma ero cresciuta in un ambiente talmente protetto che al confronto la mia carriera accademica di adulta si può addirittura definire avventurosa. Tanto per cominciare, ero orfana di madre, e ciò aveva reso mio padre iperprotettivo nei miei confronti. Mamma morì quando io ero molto piccola, diversi anni prima che papà fondasse il suo Centro per la Pace e la Democrazia. Papà non parlava mai di lei, ed eludeva senza scomporsi le mie domande in proposito; imparai molto presto che l’argomento gli riusciva troppo doloroso e che avrei fatto meglio a non toccare quel tasto. In ogni caso, mio padre si prese buona cura di me, affidandomi a una serie di istitutrici e governanti; nonostante il nostro stile di vita fosse semplice e privo di sfarzi, per la mia educazione non badò mai a spese.
L’ultima in ordine di tempo fu Mrs. Clay: il suo compito non si limitava alla cura della nostra casa secentesca sul Raamgracht, un canale che scorre nel cuore della città vecchia. Era Mrs. Clay ad accogliermi ogni giorno quando tornavo da scuola e a occuparsi di me quando papà era lontano, cosa che succedeva assai spesso. Inglese, più anziana di quanto sarebbe stata mia madre, Mrs. Clay si rivelò abile col piumino della polvere ma, ahimè, poco preparata in materia di adolescenti. A volte, quando la sorprendevo a osservarmi con quel suo sguardo carico di compassione, intuivo che stava pensando a mia madre, e la odiavo. Quando papà era via, la nostra bella casa sembrava vuota. Non c’era nessuno ad aiutarmi con l’algebra, nessuno ad ammirare il mio cappotto nuovo o a pretendere un abbraccio, nessuno a mostrarsi sorpreso per quanto ero cresciuta. Quando poi papà tornava da qualche località che per me era solo un nome sulla carta geografica in sala da pranzo, portava con sé l’aroma di altri luoghi e altri tempi, insieme a un odore pungente di spezie e di stanchezza. Trascorrevamo le vacanze a Parigi o a Roma, visitando diligentemente i monumenti che secondo mio padre dovevo vedere; ma io desideravo seguirlo nei posti in cui lui scompariva, strani e antichi luoghi dove non ero mai stata.
Durante le sue assenze, la mia vita scorreva sempre uguale: andavo a scuola di mattina e rientravo a casa nel pomeriggio, buttando i libri sul tavolo dell’ingresso immancabilmente tirato a lucido. Trascorrevo le serate in casa. Né Mrs. Clay né mio padre mi permettevano di uscire se non in qualche rara occasione per andare al cinema, ma solo per vedere film accuratamente selezionati e in compagnia di amici altrettanto accuratamente selezionati. In ogni caso – e ripensandoci mi pare incredibile – non trasgredii mai alle regole: ero abituata alla solitudine e mi ci trovavo a mio agio. Ero un’ottima studentessa, ma un disastro nella vita sociale. Le ragazze della mia età, figlie di diplomatici colleghi di mio padre, mi terrorizzavano con la loro aria vissuta, il linguaggio sboccato e la sigaretta perennemente tra le labbra. In loro compagnia avevo sempre la sensazione che il mio vestito fosse troppo lungo o troppo corto. I ragazzi invece mi mandavano in confusione, e le mie esperienze in fatto di uomini si riducevano a vaghe fantasticherie e a qualche sogno a occhi aperti. Di fatto, ero più felice da sola nella biblioteca di mio padre, un’ampia e bella stanza al primo piano della casa.
Da tempo mi aveva concesso di accedere liberamente alla sua collezione di libri, e quando era in viaggio passavo ore seduta a fare i compiti alla scrivania di mogano, oppure curiosando tra gli scaffali che tappezzavano le pareti. Solo in seguito compresi che doveva aver dimenticato un tomo su uno dei ripiani più alti o, più probabilmente, era convinto che non sarei mai stata in grado di arrivarci; fatto sta che una notte ci trovai non solo una traduzione del Kamasutra, ma anche un volume molto più antico insieme a un plico di fogli ingialliti.
Ancora adesso non so spiegare che cosa mi spinse a prenderli, ma l’immagine al centro del libro, l’odore di vecchio proveniente dalle sue pagine e la scoperta che quelle carte erano lettere private mi attrassero in modo irresistibile. Il divieto di ficcare il naso nei documenti di mio padre e il timore che Mrs. Clay potesse entrare all’improvviso per spolverare la scrivania mi fecero girare di scatto verso la porta. Ciò non mi impedì di leggere il paragrafo iniziale della prima lettera, in piedi accanto agli scaffali.

12 dicembre 1930
Trinity College, Oxford
Mio caro e sfortunato successore,
è con rammarico che ti immagino, chiunque tu sia, nell’atto di leggere quanto mi vedo costretto a mettere nero su bianco. Il rammarico è in parte per me stesso, perché se questa lettera giungerà nelle tue mani, di sicuro io sarò in pericolo, forse morto, o peggio. Mi dispero anche per te, amico ancora sconosciuto, perché solo chi ha bisogno di informazioni tanto spaventose leggerà un giorno questa lettera. Se non sei il mio successore in qualche altro senso, diverrai presto il mio erede, e mi rattrista tramandare a un altro essere umano la mia – forse incredibile – esperienza del male. Non so dire perché io stesso l’abbia ereditata, ma spero prima o poi di scoprirlo, magari mentre ti scrivo o nel corso di eventi futuri.

A quel punto il senso di colpa – o forse qualcos’altro – mi indusse a rimettere frettolosamente la lettera nella busta, ma continuai a pensarci per tutto il giorno e anche per quello successivo. Al ritorno di mio padre, cercai il momento adatto per chiedergli delle lettere e dello strano libro. Aspettavo che non avesse impegni e che fossimo soli, ma in quei giorni era molto occupato e qualcosa in ciò che avevo scoperto mi rendeva difficile avvicinarlo. Alla fine lo pregai di portarmi con sé nel suo viaggio successivo. Era la prima volta che gli tenevo segreto qualcosa, e la prima che insistevo con lui su qualcosa.
Papà acconsentì, con qualche riluttanza. Parlò con i miei insegnanti e con Mrs. Clay, e mi ricordò che avrei avuto tempo in abbondanza per fare i compiti mentre lui era occupato con le sue riunioni. La prospettiva non mi preoccupava, la figlia di un diplomatico è abituata alle attese. Preparai la mia valigia blu, mettendoci i libri scolastici e un numero spropositato di calze al ginocchio. Quella mattina, invece di andare a scuola, mi incamminai con mio padre verso la stazione, silenziosa e felice. Raggiungemmo Vienna in treno: papà detestava gli aerei, diceva che snaturano il senso stesso del viaggiare. Dopo una breve notte in albergo, un altro treno ci portò attraverso le Alpi, al di là delle vette bianco-azzurre sulla carta geografica di casa nostra. Fuori da una polverosa stazione gialla, mio padre mise in moto l’auto presa a noleggio e io trattenni il fiato finché non arrivammo alle porte di una città di cui mi aveva parlato così tante volte che l’avevo già vista nei miei sogni.
L’autunno arriva presto ai piedi delle Alpi slovene. Prima ancora di settembre, gli abbondanti raccolti sono seguiti da una pioggia improvvisa e violenta, che cade per giorni ricoprendo di foglie morte le strade dei villaggi. Oggi, a cinquant’anni, mi ritrovo periodicamente a percorrere quello stesso itinerario, rivivendo la mia prima impressione della campagna slovena. È un Paese antico. Ogni autunno lo addolcisce un po’ di più, in aeternum, annunciato dagli stessi tre colori: un paesaggio verdeggiante, due o tre foglie gialle che cadono in un pomeriggio grigio. Immagino che i romani – che qui lasciarono le loro mura e a ovest le loro colossali arene – contemplassero lo stesso autunno ricavandone un identico brivido. Quando l’auto varcò le porte della più antica delle città giuliane, mi strinsi nelle braccia. Per la prima volta, provavo l’eccitazione del viaggiatore che contempla il volto impenetrabile della storia.


È in questa città che inizia la mia storia. La chiamerò Emona, il suo nome romano, nella vana speranza di proteggerla così dalle orde di turisti assetati di rovine. Il primo insediamento di Emona risale all’Età del Bronzo, palafitte costruite lungo le rive di un fiume oggi costeggiato da edifici in stile liberty. Nei giorni seguenti, durante le nostre passeggiate, avremmo ammirato il palazzo del sindaco, le residenze secentesche ornate di argentei fleurs-de-lys e l’imponente facciata posteriore del grande mercato. Per secoli, la gradinata che scende fino al livello del mare era stata il luogo dove le imbarcazioni scaricavano le merci destinate alla città.
Poco lontano, la piazza principale si allungava sotto un cielo opprimente. Come le sue sorelle meridionali, Emona mostrava le vestigia di un passato camaleontico: déco viennese nel profilo dei tetti, il Rinascimento nelle imponenti chiese rosse erette dai cattolici di lingua slavonica, il Medioevo nelle cappelle brune di ispirazione celtica: san Patrizio aveva inviato missionari nella regione, riportando la nuova fede alle sue origini mediterranee, cosicché la città vanta un retaggio cristiano tra i più antichi in Europa. Qua e là, un elemento ottomano balenava nel vano di una porta o nella cornice ogivale di una finestra. Nei pressi del mercato, le campane di una chiesetta austriaca chiamavano alla messa serale. Uomini e donne in tuta da lavoro blu tornavano a casa al termine della giornata di lavoro, riparandosi sotto gli ombrelli. Addentrandoci nel cuore di Emona, mio padre e io attraversammo il fiume grazie a un bel ponte antico, sorvegliato alle due estremità da verdi draghi di bronzo.
«Là c’è il castello» mio padre puntò il dito verso l’alto, oltre la cortina di pioggia.
Mi sporsi e allungai il collo finché non lo vidi, attraverso i rami imperlati dalla pioggia: torri marroni e segnate dal tempo, in cima a una scoscesa collina nel centro della città.
«Quattordicesimo secolo» azzardò mio padre «o tredicesimo? Non me ne intendo molto, almeno non fino ad azzeccare il secolo esatto. Controlleremo sulla guida.»
«Si può visitare?»
«Ci informeremo domani, dopo i miei appuntamenti. Quelle torri sembrano sul punto di crollare da un momento all’altro, ma non si sa mai.»
Fermò l’auto in un parcheggio vicino al municipio e con galanteria mi aiutò a scendere, con la mano ossuta stretta nel guanto di pelle.
«È un po’ presto per andare in albergo. Ti va un tè caldo? Oppure potremmo fare uno spuntino in quella gastronomia.» L’occhiata dubbiosa che lanciò alla mia giacca e alla gonna di lana, mi spinse a tirar fuori la mantellina impermeabile con il cappuccio che mi aveva portato in regalo dall’Inghilterra. Il viaggio in treno da Vienna era durato quasi un giorno e, nonostante il pranzo nel vagone ristorante, avevo di nuovo fame.
Ma a irretirci non fu la gastronomia, con le sue luci rosse e azzurre che splendevano attraverso una vetrata sporca, le cameriere con i sandali a zeppa blu e l’arcigno ritratto del maresciallo Tito. Mentre ci facevamo largo tra la folla bagnata, mio padre scattò bruscamente in avanti. «Là!» Lo seguii di corsa, con il cappuccio che sobbalzava e mi scivolava sugli occhi...

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Kostova, E. (2017). Il discepolo ([edition unavailable]). BUR. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3304521 (Original work published 2017)

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Kostova, Elisabeth. (2017) 2017. Il Discepolo. [Edition unavailable]. BUR. https://www.perlego.com/book/3304521.

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Kostova, E. (2017) Il discepolo. [edition unavailable]. BUR. Available at: https://www.perlego.com/book/3304521 (Accessed: 17 June 2024).

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Kostova, Elisabeth. Il Discepolo. [edition unavailable]. BUR, 2017. Web. 17 June 2024.