Don Camillo
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Don Camillo

Le opere di Giovannino Guareschi #1

Giovannino Guareschi

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  1. 350 páginas
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Don Camillo

Le opere di Giovannino Guareschi #1

Giovannino Guareschi

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Información del libro

Don Camillo è il primo libro della serie Mondo piccolo (che comprende altri sei titoli): qui impariamo a conoscere il mondo della Bassa, irruente e sanguigno, e i due protagonisti, il parroco don Camillo - a volte intemperante nella sua missione pastorale - e il sindaco comunista Peppone, pronto a ignorare - nei casi di coscienza - le direttive di partito. Fra rivalità e dispetti continui, dichiarazioni di guerra e proclami di ultimatum mai eseguiti, don Camillo e Peppone ci insegnano, oggi come ieri, che il rispetto, la simpatia e l'amicizia non hanno nulla a che fare con il colore della bandiera o della tonaca. Quello che conta è l'umanità delle persone.

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Información

Editorial
BUR
Año
2018
ISBN
9788858637371

Qui, con tre storie e una citazione, si spiega il mondo di Mondo piccolo

Io da giovane facevo il cronista in un giornale e andavo in giro tutto il giorno in bicicletta per trovare dei fatti da raccontare.
Poi conobbi una ragazza, e allora passavo le giornate pensando a come si sarebbe comportata quella ragazza se io fossi diventato imperatore del Messico o se fossi morto. E, alla sera, riempivo la mia pagina inventando i fatti di cronaca, e questi fatti piacevano parecchio alla gente perché erano molto più verosimili di quelli veri.
Io, nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole, e son le stesse che usavo per raccontare l’avventura del vecchio travolto da un ciclista o quella della massaia che, sbucciando le patate, ci rimetteva un polpastrello.
Quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere: in questo libro io sono quel cronista di giornale e mi limito a raccontare dei fatti di cronaca. Roba inventata e perciò tanto verosimile che mi è successo un sacco di volte di scrivere una storia e di vederla, dopo un paio di mesi, ripetersi nella realtà. E non c’è niente di straordinario, è semplice questione di ragionamento: uno considera il tempo, la stagione, la moda e il momento psicologico e conclude che, stando così le cose, in un ambiente x possono verificarsi questa e quest’altra vicenda.
Queste storie quindi vivono in un determinato clima e in un determinato ambiente. Il clima politico italiano dal dicembre del 1946 al dicembre del 1947. La storia insomma di un anno di politica.
L’ambiente è un pezzo della pianura padana: e qui bisogna precisare che, per me, il Po comincia a Piacenza.
Il fatto che da Piacenza in su sia sempre lo stesso fiume, non significa niente: anche la Via Emilia, da Piacenza a Milano, è in fondo la stessa strada; però la Via Emilia è quella che va da Piacenza a Rimini.
Non si può fare un paragone tra un fiume e una strada perché le strade appartengono alla storia e i fiumi alla geografia.
E con questo?
La storia non la fanno gli uomini: gli uomini subiscono la storia come subiscono la geografia. E la storia, del resto, è in funzione della geografia. Gli uomini cercano di correggere la geografia bucando le montagne e deviando i fiumi e, così facendo, si illudono di dare un corso diverso alla storia, ma non modificano un bel niente, perché, un bel giorno, tutto andrà a catafascio. E le acque ingoieranno i ponti, e romperanno le dighe, e riempiranno le miniere; crolleranno le case e i palazzi e le catapecchie, e l’erba crescerà sulle macerie e tutto ritornerà terra. E i superstiti dovranno lottare a colpi di sasso con le bestie, e ricomincerà la storia.
La solita storia.
Poi, dopo tremila anni, scopriranno, sepolto sotto quaranta metri di fango, un rubinetto dell’acqua potabile e un tornio della Breda di Sesto San Giovanni e diranno: «Guarda che roba!».
E si daranno da fare per organizzare le stesse stupidaggini dei lontani antenati. Perché gli uomini sono delle disgraziate creature condannate al progresso, il quale progresso porta irrimediabilmente a sostituire il vecchio Padreterno con le nuovissime formule chimiche. E così, alla fine, il vecchio Padreterno si secca, sposta di un decimo di millimetro l’ultima falange del mignolo della mano sinistra e tutto il mondo va all’aria.
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Dunque il Po comincia a Piacenza, e fa benissimo perché è l’unico fiume rispettabile che esista in Italia: e i fiumi che si rispettano si sviluppano in pianura, perché l’acqua è roba fatta per rimanere orizzontale, e soltanto quando è perfettamente orizzontale l’acqua conserva tutta la sua naturale dignità. Le cascate del Niagara sono fenomeni da baraccone, come gli uomini che camminano sulle mani.
Il Po comincia a Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, il quale Mondo piccolo è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l’Appennino.
«... il cielo è spesso d’un bell’azzurro, come ovunque in Italia, salvo nella stagione men buona, in cui si levano fittissime nebbie. (...) Il suolo è la più parte gentile, arenoso e fresco, alquanto forte a monte e talora schiettamente argilloso. Una lussureggiante vegetazione ammanta il territorio che non ha un palmo spoglio di verzura, la quale cerca di stendere il suo dominio fin sopra i larghi renai del Po.
«I campi di ondeggianti messi, listati per tutto da filari di viti sposate agli oppii (...) coronati da prode di ben chiomati gelsi, mostrano la feracità del suolo (...) Frumento, granoturco, uve in copia, bachi da seta, canape, trifoglio, sono i principali prodotti: vi prova bene ogni generazione di piante, e assai vi allignavano un dì le roveri e ogni ragione di frutti: folte vincaie rendono irsute le coste della riviera, lungo la quale, in passato più che adesso, verdeggiavano larghi e ricchi boschi di pioppi, qua e là tramezzati da ontani e da salici, o resi vaghi dall’odorosa madreselva, che, abbracciando le piante, forma capannucce e guglie cosparse di colorite campanelline.
«Vi ha di molti buoi, bestie suine e pollame, insidiato questo dal martore e dalla faina: il cacciatore vi scova non poche lepri, preda soventi volte delle volpi, e, a tempo, fendono l’aria quaglie, tortore, pernici dal pennaggio brizzolato, beccacce che bezzicano il terreno a mo’ di crivello, e altri volatili di passo: vedi sopraccapo grandi schiere di rapidi storni: stuoli d’anitre stendonsi d’inverno sul Po. Il biancheggiante gabbiano brilla sull’ali attento, indi piomba e ghermisce il pesce: fra i canneti s’asconde il variopinto piombino, la passera cannaiola, la gallinella acquatica e l’astuta fòlaga: sul fiume odi ciurlotti, scorgi aironi, pivieri, pavoncelli e altri uccelli ripuari, rapaci falchi e roteanti poane terror delle chiocce, notturni barbagianni e silenziosi fatappi: talora furono ammirati e presi volatili maggiori, cui su per il Po o giù dall’Alpi, recarono i venti da strani paesi. In quella conca ti appinzano le zanzare (“da fangosiStagni gli antichi lai cantan le rane”), ma nelle smaglianti notti d’estate l’incantevole usignolo accompagna del soavissimo suo canto la divina armonia dell’universo lamentando forse che una simile non addolcisca i liberi cuori degli uomini.
«Nel fiume pescoso guizzano barbi, tinche, lucci voraci, argentei carpi, squisiti persici dalle pinne rosse, lubriche anguille e grossi storioni che talor, tormentati da piccole lamprede, risalgono il fiume, del peso qualche volta di centocinquanta e più chilogrammi ciascuno.
«...Sulla spiaggia del fiume giacciono i resti della villa di Stagno, un dì molto distesa, or pressoché tutta inghiottita dalle onde: nel canto ove il Comune tocca Stirone vicino al Taro, sorge la villa di Fontanelle, aprica e sparta. Là dove la strada provinciale s’incrocicchia coll’argine del Po, sta il casale di Ragazzola: verso mattina, dove il suolo più si abbassa, è il piccolo villaggio della Fossa; e la romita villicciuola di Rigosa sta, umile e incantucciata, tra gàtteri e pioppi ed altre piante poco lontano dal luogo dove il rivo Rigosa mette in Taro. Fra queste ville vedi Roccabianca
Quando rileggo questa pagina del notaio Francesco Luigi Campari,1 mi sembra di diventare un personaggio della favola che egli racconta, perché io son nato nella villa «aprica e sparta».
Il piccolo mondo del Mondo piccolo non è qui però: non è in nessun posto fisso: il paese di Mondo piccolo è un puntino nero che si muove, assieme ai suoi Pepponi e ai suoi Smilzi, in su e in giù lungo il fiume per quella fettaccia di terra che sta tra il Po e l’Appennino: ma il clima è questo. Il paesaggio è questo: e, in un paese come questo, basta fermarsi sulla strada a guardare una casa colonica affogata in mezzo al granturco e alla canapa, e subito nasce una storia.

Prima storia

Io abitavo al Boscaccio, nella Bassa, con mio padre, mia madre e i miei undici fratelli: io, che ero il più vecchio, toccavo appena i dodici anni e Chico che era il più giovane toccava appena i due. Mia madre mi consegnava ogni mattina una cesta di pane, un sacchetto di mele o di castagne dolci, mio padre ci metteva in riga nell’aia e ci faceva dire ad alta voce il Pater Noster: poi andavamo con Dio e tornavamo al tramonto.
I nostri campi non finivano mai e avremmo potuto correre anche una giornata intera senza sconfinare. Mio padre non avrebbe avuto neppure mezza parola anche se noi gli avessimo calpestato tre intere biolche di frumento in germoglio o se gli avessimo divelto un filare di viti. Eppure noi sconfinavamo sempre e ci davamo parecchio da fare. Anche Chico, che aveva due anni appena e aveva la bocca piccolina e rossa e gli occhi grandi con lunghe ciglia e ricciolini sulla fronte come un angioletto, non si faceva certamente scappare un papero quando gli arrivava a tiro.
Poi, ogni mattina, appena partiti noi, venivano alla fattoria delle vecchie con sporte piene di paperi, di gallinelle, di pulcini assassinati, e mia madre, per ogni capo morto, dava un capo vivo.
Noi avevamo mille galline che razzolavano per i nostri campi, ma quando si doveva mettere qualche pollo a bollire nella pentola, bisognava comprarlo.
Mia madre scuoteva il capo e continuava a cambiare paperi vivi con paperi morti. Mio padre faceva la faccia scura, si arricciava i lunghi baffi e interrogava brusco le donnette per sapere se si ricordavano chi dei dodici era stato a fare il colpo.
Quando qualcuna gli diceva che era stato Chico, il più piccolino, mio padre si faceva raccontare per tre o quattro volte la storia, e come aveva fatto a lanciare il sasso, e se era un sasso grosso, e se aveva colpito il papero al primo colpo.
Queste cose le ho sapute tanto tempo dopo: allora non ci si pensava. Ricordo che una volta mentre io, lanciato Chico contro un papero che passeggiava come uno stupido in mezzo a un praticello spelacchiato, stavo con gli altri dieci appostato dietro un cespuglione, vidi mio padre a venti passi di distanza che fumava la pipa all’ombra di una grossa quercia.
Quando Chico ebbe spacciato il papero, mio padre se ne andò tranquillamente con le mani in tasca e io e i miei fratelli ringraziammo il buon Dio.
«Non si è accorto di niente» dissi io sottovoce ai ragazzi. Ma allora io non potevo capire che mio padre ci aveva pedinati per tutta la mattinata, nascondendosi come un ladro, pur di riuscire a vedere come Chico ammazzava i paperi.
Ma io sto uscendo dal seminato: questo è il difetto di chi ha troppi ricordi.
Io devo dirvi che il Boscaccio era un paese dove non moriva mai nessuno, per via di quell’aria straordinaria che vi si respirava.
Al Boscaccio sembrava quindi impossibile che un bambino di due anni potesse ammalarsi.
Invece Chico si ammalò sul serio. Una sera, mentre stavamo per tornare a casa, Chico si sdraiò improvvisamente per terra e cominciò a piangere. Poi smise di piangere e si addormentò. Non si volle svegliare e io lo presi in braccio.
Chico scottava, sembrava pieno di fuoco: allora noi tutti provammo una paura terribile. Il sole tramontava e il cielo era nero e rosso, le ombre lunghe. Abbandonammo Chico in mezzo all’erba e fuggimmo urlando e piangendo come se qualcosa di terribile e di misterioso ci inseguisse.
«Chico dorme e scotta!... Chico ha il fuoco dentro la testa!» singhiozzai io appena mi trovai davanti a mio padre.
Mio padre, lo ricordo bene, staccò la doppietta dalla parete, la caricò, se la mise sottobraccio, e ci seguì senza dir nulla, e noi camminammo stretti attorno a lui e non avevamo più paura perché nostro padre era capace di fulminare un leprotto a ottanta metri di distanza.
Chico era abbandonato in mezzo all’erba scura, e con la sua lunga veste chiara e i suoi ricciolini sulla fronte s...

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