John Lennon
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John Lennon

La biografia

Philip Norman, Aldo Piccato

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John Lennon

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Philip Norman, Aldo Piccato

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Información del libro

Sono passati decenni dalla sua tragica scomparsa, ma John Lennon rimane un'indiscussa icona pop, oltre che uno dei simboli meno controversi degli anni Sessanta. Al Beatle più carismatico ed eclettico Philip Norman dedica questa biografia. Grazie a una meticolosa ricerca su fonti mai prima pubblicate e alle preziose testimonianze di parenti, amici e compagni di strada, ne segue passo passo le tappe fondamentali: dall'infanzia all'adolescenza, dalle prime esperienze musicali alla fama mondiale, dallo scioglimento del gruppo alle battaglie per la pace e i diritti civili. Senza tacere delle tante crisi e dell'incessante ricerca di una «risposta», che lo spinse a provare le esperienze più diverse. Il ritratto che emerge da questa straordinaria biografia non nasconde né esalta le vicende di cui John fu, volta a volta, protagonista e vittima. Semplicemente mostra il percorso interiore che ha portato un introverso ragazzino di Liverpool a diventare uno dei personaggi chiave per capire la storia del XX secolo.

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2021
ISBN
9788835707288
Parte quarta

VAUDEVILLE ZEN

XIX

RESPIRA

In quell’istante i nostri occhi si sono incontrati e io e lei abbiamo avuto tutto chiaro. Semplicemente così
La donna destinata a trasformare completamente il resto della vita di John nacque a Tokyo il 18 febbraio 1933. In kanji la parola ko significa «bambino» e yoko si può tradurre o come «bambina dell’oceano» o come «bambina forte e risoluta». E infatti questa bambina era destinata ad avere ben pochi dubbi su se stessa e ad attraversare molti oceani, riuscendo a superare ondate di ostilità e incomprensioni.
Come quella di John, anche la prima infanzia di Yoko fu contrassegnata dalla sua classe sociale e, ancora come lui, lei si sarebbe in seguito costruita un’immagine pubblica del tutto estranea alle sue autentiche origini. Attraverso sua madre, Isoko, apparteneva a una delle quattro famiglie di commercianti, i cosiddetti zaibatsu, più ricche del Giappone, gli Yasuda. Il suo bisnonno, Zenjiro Yasuda, alla fine del XIX secolo si era costruito una fortuna commerciando in valuta e aveva infine fondato la terza banca nazionale del Giappone. Zenjiro era un personaggio ammirato da tutta la nazione, un musicista e poeta di grande talento.
Anche il padre di Yoko, Eisuke Ono, proveniva da una famiglia che aveva dato i natali a parecchi celebrati pittori, musicisti e accademici, nonché, nella persona della madre di Eisuke, Tsuruko, a una delle prime femministe giapponesi. Alto e affascinante, lo stesso Eisuke era un pianista classico di notevole bravura, ma aveva preferito fare carriera nel settore bancario.
Sua madre, Isoko, era una donna di straordinaria bellezza e una pittrice di successo, ed era una presenza costante sulle pagine delle riviste dell’alta società giapponese. Tanto la famiglia della madre quanto quella del padre di Yoko appartenevano dunque agli ambienti più colti, cosmopoliti e occidentalizzati del paese. Era un periodo di apparentemente infrangibile amicizia tra il Giappone e l’America, come anche di rapporti finanziari ed economici sempre più stretti. Poco prima della nascita di Yoko, Eisuke aveva accettato un posto nella filiale di San Francisco della banca e si era trasferito in America, lasciando Isoko a Tokyo. Yoko lo vide per la prima volta quando aveva già due anni, e anche in seguito lo incontrò sempre molto di rado.
Come membro del clan degli Yasuda, Yoko godeva di una vita piena di lussi e privilegi eccezionali. Vecchi filmati ancora in suo possesso mostrano una piccola bambina con i capelli tagliati alla maschietta, vestita da marinaretto oppure con una gonna scozzese, accanto a sua madre, sempre abbigliata all’ultima moda. Grazie alle strette relazioni degli Yasuda con la famiglia imperiale, a Yoko fu concesso di frequentare la Gakushuin, una scuola normalmente riservata ai figli degli imperatori e della più alta nobiltà del paese.
Ciò malgrado, Yoko ebbe un’infanzia segnata dalla solitudine e dall’insicurezza. Data la ricchezza e l’importanza della sua famiglia, poche bambine della stessa età erano ritenute degne di giocare con lei. Ogni estate sua madre la spediva nella loro grande casa di campagna affidandola alle cure della governante, mentre lei restava a Tokyo con suo fratello Keisuke, che aveva tre anni di meno. Come una sorta di principessina ereditaria medievale, Yoko era così costretta a consumare i suoi pasti da sola, con la governante che le stava seduta accanto e le sussurrava consigli di comportamento e buone maniere.
Lo scoppio della guerra con l’America (e quindi con la Gran Bretagna), nel 1941, fu un evento traumatico per i giapponesi colti e occidentalizzati come gli Ono. Sebbene suo padre si trovasse ancora lontano da casa per lavoro, questa volta nell’Indocina francese, all’inizio la vita di Yoko non fu quasi minimamente toccata dalla nuova situazione.
Quattro anni dopo, nel 1945, il Giappone era ormai stato sconfitto su tutti i fronti e gli americani avevano iniziato a bombardare Tokyo in preparazione dei successivi bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Non volendo lasciare la città, sua madre mandò i figli in campagna, facendoli accompagnare da un suo domestico che, essendo parzialmente invalido, non era stato richiamato in servizio. I contadini sfruttavano i profughi provenienti dalla città senza la minima pietà, obbligandoli a vendere i propri costosi vestiti e altri oggetti personali per qualche misera porzione di riso o di verdura. Yoko, che ora aveva dodici anni, si trovò cosi nella posizione di tutrice di suo fratello e della sua sorella più piccola, Setsuko.
Pur essendo stato colpito da due bombe atomiche, il Giappone, posto sotto l’occupazione americana, si riprese con una rapidità che lasciò l’Europa – e soprattutto la Gran Bretagna, ancora esausta e con il cibo razionato – assolutamente sconcertata e risentita. E i zaibatsu continuavano a conservare gran parte del loro antico potere. Quando Yoko si iscrisse alla Gakushuin, il prestigio degli Yasuda e degli Ono sembrava poterle assicurare una brillante carriera. Fu la prima studentessa di filosofia dell’università, aveva grande talento per le lingue e la letteratura come anche per le arti visive, ed era, al pari del padre, un’ottima pianista.
Sfortunatamente, questa talentuosa studentessa possedeva anche uno spirito ribelle, cosa allora estremamente inconsueta tra le giovani giapponesi della sua classe sociale. Anche se esteriormente sembrava dotata di una grandissima fiducia in se stessa, era ancora tormentata dalle insicurezze della sua infanzia, e in particolare dal senso di colpa che aveva sempre provato per la sua condizione privilegiata. «Mio padre voleva che facessi la pianista, ma non ero abbastanza brava. Come pittrice, almeno nel senso tradizionale del termine, mi sentivo messa in ombra da mia madre. E sapevo che non avrei potuto fare la linguista, come i miei zii. Insomma, tutte le porte erano chiuse, e dovevo trovarmi una strada tutta mia.»
Quando Yoko aveva diciotto anni, essendo suo padre stato nominato direttore della Banca di Tokyo a New York, tutta la famiglia si trasferì in America. Presero casa a Scarsdale, nel Connecticut, e Yoko si iscrisse al Sarah Lawrence College, vicino a Bronxville, per continuare i suoi studi di filosofia, letteratura e musica. Il Sarah Lawrence College, a quei tempi esclusivamente femminile, aveva fama di promuovere l’individualismo e il radicalismo, nella convinzione che le proprie studentesse sarebbero dovute entrare nel mondo come «provocatrici». Ma le teorie di Yoko sulla musica, la scrittura e le arti visive riuscirono ben presto a sconcertare persino questo college di tendenze così progressiste. Quando le mancava ancora un anno di corsi, abbandonò gli studi, ascoltando il consiglio di un amico professore, il quale le disse che avrebbe potuto trovare occhi e orecchie maggiormente ricettivi negli ambienti artistici di New York.
I suoi genitori avevano sperato che l’arte e la musica sarebbero state soltanto un gradevole passatempo, e che al momento giusto Yoko si sarebbe sposata assumendo il ruolo di una tradizionale e rispettosa moglie nippo-americana. Uno degli uomini più ricchi del Giappone aveva recentemente scritto a suo padre e chiesto la mano di Yoko per suo figlio. Ma Yoko non ne volle sapere e, all’età di ventitré anni, fuggì e si sposò con un compositore e pianista di origini giapponesi, Toshi Ichiyanagi. Senza la minima esitazione, rinunciò alle grandiose proprietà di famiglia e andò ad abitare in un loft privo di acqua calda al Greenwich Village, sbarazzandosi dei suoi costosi abiti e sostituendoli con indumenti rigorosamente neri in perfetto stile bohémien.
Qui, come il suo professore le aveva predetto, trovò rapidamente affinità intellettuali. All’inizio degli anni Sessanta si era associata al Fluxus Group, un circolo multietnico di artisti i quali, cosa piuttosto inconsueta per quei tempi, non si limitavano a usare un solo mezzo di espressione, ma combinavano insieme pittura, scultura, fotografia, musica, poesia, cinema e teatro. Prendendo Marcel Duchamp a loro supremo nume tutelare, i membri del Fluxus Group detestavano la cosiddetta arte elevata, e sceglievano come soggetto gli elementi più familiari e persino banali della vita di tutti i giorni.
Yoko divenne il simbolo dell’antiarte multimediale del Fluxus Group. Le sue opere erano per lo più sculture, o piuttosto collage tridimensionali, fatti con oggetti quotidiani e normalmente concepiti in modo da invitare a un contatto con lo spettatore. Talvolta l’opera consisteva in una sorta di pièce teatrale, con l’artista nel ruolo dell’opera stessa, in modo tale che la reazione del pubblico avrebbe contribuito a illuminare qualche verità sulla natura dell’arte o sulla condizione umana in generale. George Maciunas, l’ispiratore del Fluxus Group, definì la sua tecnica «teatro neo-haiku», mentre lo storico dell’arte Ken Friedman coniò l’espressione «vaudeville zen».
Il matrimonio con Toshi Ichiyanagi non durò a lungo, anche se i due rimasero in buoni rapporti. Toshi tornò in Giappone, dove successivamente divenne uno dei compositori più noti del paese. Con il suo incoraggiamento, anche Yoko tornò in patria per fare una serie di mostre. La stampa americana si era mostrata generalmente ben disposta nei suoi confronti, ma convincere i critici giapponesi si rivelò molto più difficile, e uno di essi scrisse una recensione piena di brutali malignità di carattere personale. Non essendo ancora abituata, come ricorda lei stessa, «a essere frustata», ebbe un esaurimento nervoso e si fece ricoverare in clinica per un periodo di riposo. Invece, fu sottoposta a incessanti angherie da parte dei giornalisti, incuriositi dallo spettacolo di una persona di così elevato rango sociale vittima della depressione.
Tra i suoi visitatori c’era un giovane autore cinematografico americano di nome Tony Cox, un appassionato ammiratore delle sue opere che era arrivato direttamente da New York per incontrarla. All’inizio Yoko si rifiutò di vederlo; ma dopo un po’, intenerita dai vasi di fiori che Tony le faceva portare ogni giorno da un’infermiera, cedette. Cox era un uomo molto bello, vagamente somigliante all’attore Anthony Perkins, con un grande fascino e una notevole capacità di persuasione. Riuscì ben presto a convincere Yoko che la vita era degna di essere vissuta, incoraggiandola a ridurre le pesanti dosi di Valium che la clinica le somministrava e, infine, a farsi dimettere. Nel 1962 Yoko divorziò da Toshi Ichiyanagi e, nello stesso anno, sposò Cox. A causa di un cavillo legale, il matrimonio fu annullato nel marzo 1963; ma si risposarono in giugno, e due mesi dopo Yoko diede alla luce la sua prima figlia, Kyoko.
Cox mise provvisoriamente da parte le proprie ambizioni artistiche e divenne un infaticabile promotore delle opere di Yoko, mettendosi alla ricerca di sponsor disposti a finanziarla, trattando con le gallerie e occupandosi anche di Kyoko, in modo che Yoko potesse dedicarsi interamente alla sua attività creativa. Ma Cox era una persona dal carattere estremamente volubile e Yoko sembrava interessata quasi esclusivamente al proprio lavoro; così, dopo appena tre anni, anche questo matrimonio era ormai sul punto di spezzarsi. Nel settembre 1966 il suo amico Mario Amaya, direttore della rivista «Art and Artists», la invitò a Londra per partecipare a un convegno sulla «Distruzione dell’arte». Yoko, più che altro per sfuggire alle crescenti tensioni del suo matrimonio, accettò. Tuttavia, Cox volle accompagnarla ugualmente, e quindi dovettero portarsi dietro anche Kyoko.
Dopo la conclusione del convegno Yoko decise di rimanere a Londra e di provare a tenere in piedi il suo matrimonio. Affittarono dunque un appartamento in Hanover Gate Mansions, un quartiere residenziale non lontano dagli studi di Abbey Road.
Nel 1966, per la maggior parte dei londinesi incontrare una giapponese era una cosa estremamente rara. A soli ventun anni dalla conclusione del conflitto, l’atteggiamento degli inglesi era ancora condizionato dai maltrattamenti che i jap avevano inflitto ai prigionieri britannici catturati nell’Asia sudorientale. Tuttavia, la minuta figura che si aggirava per le strade di Hanover Gate Mansions suscitava non ostilità ma semmai stupore e perplessità. I suoi lunghi capelli spettinati le ricadevano così fitti sul volto che gli occhi e la bocca sembravano confondersi e scomparire sotto di essi. In netto contrasto con i colori vivaci e le forme attillate della moda del momento, Yoko indossava sempre vestiti che le nascondevano il corpo e di un funereo color nero.
Il suo nome poteva essere ancora sconosciuto in Gran Bretagna, ma all’interno del suo ristretto mondo lei era già una star. Così, quando seppe che si trovava a Londra, John Dunbar le offrì immediatamente di fare una mostra all’Indica. Fu qui che, appena due mesi dopo che era arrivata in Inghilterra, John Lennon entrò nella sua vita.
Quel giorno Yoko stava ancora dando i ritocchi finali all’allestimento della sua mostra prima dell’inaugurazione, prevista per l’indomani, e quindi non fu particolarmente contenta di vedere Dunbar accompagnato da un visitatore. «Pensai: “Che sta facendo? Non gli avevo forse detto che non volevo che venisse nessuno prima dell’apertura?”. Ne fui un po’ irritata, ma ero troppo indaffarata per lamentarmi o protestare. E, malgrado tutto quello che è stato detto in seguito, non mi resi conto di chi fosse John in realtà. Era un tipo attraente … questo è tutto ciò che mi passò per la testa. Fino a quel momento, gli uomini inglesi mi erano sembrati tutti piuttosto fiacchi. Questo era il primo inglese sexy che vedevo.»
La mostra combinava opere che Yoko aveva già presentato a New York ad altre create specificamente per l’occasione. C’era Eternal Time Clock, un orologio che segnava soltanto i secondi sigillato entro un bolla di plexiglass e collegato a uno stetoscopio; Ladder Piece, una scala bianca sulla quale bisognava salire per arrivare a un biglietto appeso al soffitto, sul quale c’era la parola Yes scritta così piccola che per leggerla era necessaria una lente di ingrandimento. C’era poi un grosso sacco nero vuoto con una targa sulla quale era scritto CON DENTRO UNO SPETTATORE, e una semplice mela verde alla quale era appiccicato un cartellino con il prezzo di 200 sterline. Fu il primo autentico incontro di John con l’antiarte, e inizialmente pensò si trattasse di una presa in giro.
«Poi Dunbar chiama Yoko, perché, insomma, il Milionario era qui, giusto? Ci presenta e, visto che avrebbe dovuto esserci un certo “evento”, io le domando: “Ebbene, qual è questo evento?”. Lei mi consegna un biglietto con la semplice scritta “Respira”. Allora io dico: “Nel senso di esalare?”. E lei: “Esatto, proprio così” … Ho percepito l’umorismo della cosa; forse non ne ho colta tutta la profondità, ma mi ha dato una bella sensazione. E ho pensato: “Cazzo, posso farlo anch’io. Anch’io posso mettere una mela su un piedistallo. Voglio di più”».
I ricordi di Yoko sono leggermente diversi. «Lui disse: “Ho sentito che c’è un evento o qualcosa di simile … ha a che fare con un sacco”. E io risposi: “No, l’evento di oggi è questo”, e gli misi in mano un biglietto con la scritta “Respira”. Lui lo fece e, esalando l’aria, si accostò a me, quasi flirtando, in un certo senso. Poi si diresse verso la mela, l’afferrò e le diede un morso. Io pensai: “Come osa fare una cosa simile?”. Mi sembrava un gesto davvero disgustoso; non aveva neanche un minimo d’educazione. Dovette accorgersi che ero infuriata perché rimise subito la mela sul piedistallo.»
Poi John fu incuriosito da un’altra opera che effettivamente invitava a una partecipazione dello spettatore. «Salii su questa cosa che diceva PIANTATECI DENTRO UN CHIODO e dissi: “Posso piantare un chiodo?”; ma Yoko rispose di no, perché la mostra si sarebbe aperta soltanto il giorno dopo. Allora interviene Dunbar dicendo: “Lasciaglielo piantare”, come a sottintendere: “È un milionario, potrebbe anche comprarlo” … ci fu qualche parlottamento e alla fine lei disse: “Ok, puoi farlo per cinque scellini”. E io: “D’accordo, ti do cinque scellini immaginari e pianto un chiodo immaginario”. E in quel momento stesso è scattato tutto. In quell’istante i nostri occhi si sono incontrati e io e lei abbiamo avuto tutto chiaro. Semplicemente così.»
Circa due settimane dopo Yoko andò all’inaugurazione della mostra di un suo rivale – e amico – americano, lo scultore Claes Oldenburg. Stava passando fra la folla che circondava i giganteschi frullati di gesso e gli hamburger di gommapiuma di Oldenburg quando, come lei stessa ricorda, «sentii qualcuno fare un grugnito, e in un angolo vidi un tipo pallido e con la barba sfatta, proprio il classico drogato fuori di testa. Era stato in giro con John Dunbar o qualcun altro e aveva preso un acido. Sembrava molto arrabbiato … una persona completamente diversa da quella che avevo incontrato all’Indica».
Yoko avanzò tra la folla per andare a parlare con Claes Oldenburg, ma pochi minuti dopo capitò nuovamente vicino all’angolo dove si trovava John. «Poi Paul [McCartney] venne da me e iniziò a parlarmi, dicendo: “Il mio amico è venuto a vedere la tua mostra …”. Ma, mentre stavamo chiacchierando, arrivò anche John, che disse: “Dobbiamo andare ora” e si trascinò via Paul. Sembrava arrabbiato … un arrabbiato ragazzo della working class.»
I Beatles potevano anche aver smesso di suonare sul palco, ma dovevano continuare a farlo nei dischi, e qui non c’era nessun alleggerimento delle pressioni per superare i propri rivali su entrambe le sponde dell’Atlantico. Si trattava, in primo luogo, dei Rolling Stones, i cui concerti erano ora accolti con lo stesso folle entusiasmo che un tempo avevano suscitato quelli dei Beatles, e che, avendo raggiunto la celebrità presentandosi come il loro esatto opposto, ora sembravano volersi intromettere nel loro stesso territorio. L’album Aftermath, uscito nel 1966, non conteneva il consueto provocante R&B ma una ben strutturata serie di canzoni, chiaramente ispirata al modello di Rubber Soul, nella quale riluceva il talento del chitarrista solista Brian Jones, un istintivo genio musicale i cui virtuosismi sul sitar facevano apparire George Harrison quasi un principiante. Fu soprattutto per dimostrare che non si erano lasciati eclissare da Aftermath che John e Paul fecero un nuovo straordinario salto di qualità e crearono Revolver.
Pet Sounds, il superbo album pubblicato dai Beach Boys nel 1966, era stata una risposta a Rubber Soul ideata dal loro brillante ma instabile leader, Brian Wilson. E non appena i Beatles fecero uscire Revolver, Wilson replicò nuovamente con Good Vibrations. Anche i Byrds, nati come cloni dei Beatles, si erano ritag...

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