Dell'abitare
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Dell'abitare

Corpi spazi oggetti immagini

Maurizio Vitta

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Maurizio Vitta

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Abitare è come venire al mondo, e venire al mondo è già abitare. Questo fenomeno fa parte della nostra natura in quanto specie, o meglio è la natura della nostra specie. Per questo spiegarlo fino in fondo, stabilirne l'origine o il principio concettuale fondativo appare impossibile. Ogni tentativo di circoscrivere l'abitare, disegnarne una fisionomia riconoscibile che dia conto del suo sviluppo, costringerlo in una prospettiva temporale sarà destinato a fallire. Questo libro non è dunque una storia dell'abitare, ma una riflessione sulle sue modalità, manifestazioni, rappresentazioni.
L'autore descrive la realtà fenomenica dell'abitare, la sua pratica quotidiana, attraverso la quale l'umanità ha ricoperto il pianeta di artefatti, spazi organizzati, forme, la cui densità è cresciuta nel tempo fino a sfiorare qua e là la saturazione. Sebbene l'abitare riguardi in un modo o nell'altro ogni forma vivente, è stato l'essere umano a imporlo all'ambiente secondo modalità sistematiche e pervasive, coincidenti con le vicende della cultura e della civiltà.
Con un ricco intreccio che mette a confronto i fondamenti antropologici dell'architettura e del design con le riflessioni che la filosofia, la letteratura, l'arte hanno dedicato a questo argomento, il libro descrive l'esperienza abitativa attraverso le sue quattro figure principali: i corpi, soggetti primari dell'abitare; gli spazi, i territori e le costruzioni in cui l'abitare si sviluppa e si organizza; gli oggetti - arredi, utensili, suppellettili - che integrano gli spazi abitativi; le immagini attraverso le quali si modifica la percezione dell'universo abitativo e affiora il carattere estetico dell'abitare.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2014
ISBN
9788858416662

Capitolo quarto

Oggetti

1. Arredare: architettura o design?
Kant non aveva dubbi: l’architettura è arte che «esibisce materialmente concetti di cose come potrebbero esistere in natura», e il cui aspetto essenziale è «la sua adeguatezza a un certo uso». Perciò ad essa appartengono di diritto le abitazioni, «potendosi anche aggiungervi i mobili (i lavori da falegname [Tischler] e simili utensili)». Il progetto dell’arredamento entra quindi di diritto nel progetto architettonico, forte di una illustre legittimazione: ciò che Kant sottintende, nella sovrana condiscendenza del suo accenno ai «falegnami» (inattesa irruzione della rozza quotidianità nel tempio della filosofia), è che la natura intrinsecamente progettuale dell’abitazione non si esaurisce nella sua dignità architettonica, ma si prolunga negli arredi fino alla piú modesta opera di un artigianato che, ai suoi tempi, era già esponente di una sofisticata specializzazione (sebbene egli non faccia alcun accenno agli ebanisti [Kunsttischler]). In tal modo il design si è affacciato sul progetto dell’abitazione nelle umili sembianze dell’artigiano, dalle quali però già traspariva l’orgoglio di un sapere a suo modo illustre, che ha pesato a lungo sugli sviluppi di questa moderna disciplina, al punto di contrapporla, nel disegno dell’arredamento, all’architettura.
Le storie del moderno abitare non sono avare di particolari circa il conflitto di competenze tra architettura e design sul terreno degli arredi. Nel crogiolo della cultura nordeuropea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, l’idea della Gesamtkunstwerk, dell’opera d’arte totale, di matrice wagneriana, ha riverberato il suo fascino sulla progettazione di un abitare che si volle il piú possibile unitario. L’ossessione di Henry Van de Velde per la continuità formale dell’abitazione, dal disegno degli spazi architettonici a quello degli arredi, fino ai piú minuti particolari, come le maniglie delle porte, gli utensili e perfino gli abiti degli abitanti, non fu che la spettacolare manifestazione di una tendenza che può essere fatta risalire a William Morris e che ha serpeggiato a lungo nella storia della cultura progettuale. La foto che ritrae Elisabeth Förster-Nietzsche sulla porta della sede degli archivi Nietzsche a Weimar, progettata nel 1904 da Van de Velde, con indosso l’abito disegnato dallo stesso architetto, che fa da contrappunto a una maniglia ispirata ai medesimi principî formali, o quella della moglie di Van de Velde, anche lei abbigliata nello stesso stile della casa d’abitazione interamente disegnata dal marito nel 1898, assumono il valore di un manifesto: l’abitare vi è inteso come un continuum tra il corpo, gli spazi, gli oggetti, secondo una visione che caratterizzerà, piú o meno ridimensionata, il lavoro di molti maestri moderni, da Mackintosh a Gropius, da Hoffmann a Gaudí, da Le Corbusier a Gio Ponti. Contemporaneamente, però, gli sviluppi dell’industria e del mercato ebbero come loro corollario il passaggio del design dall’idea di «arte applicata all’industria» a quella di «disegno industriale», che trovò proprio nel settore dell’arredamento il suo nucleo piú vitale.
Su questo versante, la cultura dell’arredare ha puntato sulla discontinuità, sulla disaggregazione dei mobili in «pezzi» autonomi, a se stanti, disegnati per se stessi, prodotti in serie e già pronti sul mercato, e quindi offerti alla scelta in vista di una loro ricomposizione condotta secondo criteri in gran parte indipendenti dal progetto architettonico. In ciò si riproduceva la tradizione degli antichi «campionari» degli ebanisti, da cui era possibile scegliere i singoli pezzi d’arredo. Ma la gamma delle opzioni offerta da questa alternativa è risultata infine pressoché illimitata: non solo i parametri funzionali obbediscono ormai a infinite variazioni tecnologiche, per cui la medesima funzione può essere assicurata da materiali e tecniche fra loro diversissimi, ma anche i valori formali si distendono sull’intero ventaglio degli stili, storici o di tendenza. Cosí i termini della questione sono rimasti pressoché invariati: per un verso, l’arredamento dell’abitazione aspira a nascere, per cosí dire, dall’architettura stessa, germogliando dai suoi spazi, dalle sue strutture, in una sorta di partenogenesi nella quale l’unità formale dell’opera troverà la sua sanzione e lo spazio abitativo il suo carattere unico, distintivo, identitario; per un altro, la standardizzazione degli arredi, la produzione seriale, un’inesauribile ricerca tecnica ed estetica, l’affiorare di piú specifiche competenze professionali ne fanno invece un campo autonomo, chiamato a dar forma al nudo spazio architettonico, ora inteso come neutro «contenitore», e a fornire, a sua volta, distinzione e personalità all’abitare.
L’imperativo dell’unità progettuale dell’abitazione fu affermato con forza, all’inizio del Novecento, sia che si trattasse di un appartamento di lusso, sia che si discutesse di case operaie. Josef Hoffmann ispirò il lavoro della Wiener Werkstätte all’idea che i mobili non potessero essere considerati indipendentemente dagli interni cui erano destinati, e di ciò il suo palazzo Stoclet offre l’espressione piú compiuta. Il modello abitativo che egli proponeva era però, proprio a causa del suo rigore formale, destinato ai ricchi borghesi austriaci («Aut-riche!», ironizzava Gustav Klimt con un ospite francese). Tuttavia, negli stessi anni, Heinrich Tessenow teorizzava gli spazi e gli arredi delle abitazioni per «lavoratori e piccolo-borghesi» secondo i medesimi principî, ma con la variante dell’economicità funzionale, del minimalismo razionale, di una sorta di dignitosa modestia di classe («se non disponiamo di una notevole quantità di denaro, – scriveva, – dobbiamo esigere mobili semplicemente utili, che assolvano gli scopi di cui abbiamo bisogno, che siano funzionali e ben rifiniti»). In entrambi i casi era l’architettura a decidere la qualità dell’abitare. Le ricche dimore borghesi ponevano gli stessi problemi delle abitazioni popolari, collocando nella medesima prospettiva dell’omogeneità stilistica tanto la villa patrizia quanto l’alloggio minimo operaio. Piú che uno schema spaziale, si proponeva un modello sociale e culturale: non per nulla, quello che Georges Teyssot ha definito l’«abitacolo familiare», e cioè la «cellula di un organismo modellabile» destinato a una «casa minima», è ricomparso nella seconda metà del Novecento come proposta avveniristica del «blocco» abitativo, frutto di una sperimentazione progettuale che mirava ad adeguare l’abitare ai nuovi orizzonti della modernità razionale e tecnologica1. Era in fondo ciò che Gropius intendeva proponendo piú tardi di affidare all’architetto la «missione storica» di «realizzare il coordinamento di tutte le attività volte a modellare l’ambiente fisico umano». Per contro, l’impetuoso sviluppo del disegno industriale in un’epoca di straripante espansione dei consumi ha portato la progettazione e la produzione dei mobili a un livello tale da garantire di per sé, di fronte all’anonimato degli interni architettonici sempre piú standardizzati, un livello formale di valore medioalto, il che ha finito con l’imporre l’autonomia culturale e professionale della disciplina.
Alla svolta del XXI secolo, la questione è rimasta inalterata, ma i rigori e le rigidità novecentesche sono sfumati in un crescente rispetto per la flessibilità, l’elasticità, l’adattamento. L’architettura ha rinunciato a imporsi come principio progettuale garante dell’unità stilistica dell’abitazione, e ha preferito giocare sulla distinzione tra «fisso» e «mobile», tra «oggettivo» e «soggettivo». Essa ha privilegiato la stabilità e la durata, puntando a integrare l’arredo funzionale nella struttura e teorizzando le cosiddette «frontiere interne» – armadi a muro, nicchie abitabili, pareti attrezzate. In qualche caso mira a progettare l’abitare come permanenza di molte generazioni d’abitanti, fornendo quindi all’arredo una struttura fissa, che faccia perno sulle invarianti antropologiche e culturali; in altri esempi punta invece alla modularità, alla intercambiabilità degli spazi e delle attrezzature. Il design, per contro, ha assunto come principî progettuali l’adattabilità, la malleabilità, la capacità di ricomposizione, disaggregando in infinite varianti le suddivisioni canoniche dell’arredamento, le tipologie dei mobili, le caratterizzazioni delle suppellettili. Sul terreno delle attrezzature domestiche, cucine e bagni si propongono ormai come universi in sé compiuti, come «soggetti» progettuali autonomi e autosufficienti, di cui il progetto architettonico dovrà tenere preliminarmente conto, ma che sono intrinsecamente disposti alla disaggregazione, alla componibilità, all’adattamento a spazi diversi.
Il problema della continuità stilistica dell’abitazione riaffiora nelle opere architettoniche individuali – la villa, l’appartamento di lusso – dove però tende a sfumare in una rappresentazione astratta del modello formale di base, per cui il mobile si propone piú come sottolineatura di una composizione spaziale già definita che come presenza ordinatrice, piú segnale della soggettività dell’architetto che di quella dell’abitante. Per contro, esso scompare nelle architetture standardizzate, nella serialità degli appartamenti ritagliati nel grandi blocchi edilizi, in cui il progetto architettonico si esaurisce nel perimetro delle pareti, lasciando un vuoto cui solo il montaggio dei mobili e delle suppellettili potrà conferire un senso. I due estremi, però, finiscono col convergere: nel primo caso, l’architettura rinuncia ormai quasi sempre a progettare direttamente gli arredi, accontentandosi del diritto di scelta dei singoli pezzi su un mercato che offre una quantità sterminata di opzioni, che essa si limita a coordinare secondo i propri criteri formali; nel secondo, la selezione degli arredi prescinde dal progetto architettonico, assumendone lo spazio come semplice criterio distributivo, ma si affida anch’essa al mercato, di cui privilegia i modelli piú accreditati. L’elemento di mediazione resta dunque il design.
Che l’esperienza dell’abitare si formi a partire proprio da questa mediazione sembrerebbe scontato. Ciò che piú importa, però, è che essa è destinata infine a superarla, immettendo negli spazi e negli oggetti un senso cui l’architettura e il design, presi singolarmente, non potranno mai aspirare. Entra qui in gioco l’irriducibile soggettività dell’abitare, che può piegarsi alle tendenze delle mode, ma sarà sempre pronta a riscattare la propria autonomia nel momento in cui la scelta iniziale si inserirà in un percorso di vita. La storia della casa nell’età moderna è storia di un’aspra dialettica tra le scelte del progettista e quelle dell’abitante. Ma è proprio su questo contrastato terreno che l’abitare prenderà forma, componendosi in un movimento, in una progressione, in una vicenda in cui il protagonismo iniziale del progettista – architetto o designer – tenderà a ritirarsi sullo sfondo, lasciando emergere con una fisionomia piú o meno definita, piú o meno identitaria, piú o meno distinta rispetto al modello sociale di base, quello dell’abitante. Da questo punto di vista, ogni discorso sull’arredamento sarà un discorso sull’abitare inteso nella sua pienezza; ma ogni discorso sull’abitare dovrà collocarsi in una prospettiva non spaziale – come quella dell’architettura e del design – bensí temporale, tramutandosi cioè in storia, in narrazione, in racconto. Inserito nella fluidità del tempo, l’abitare toccherà infine quella sintesi formale vanamente inseguita dai progettisti, ma solo per accorgersi che essa è in realtà sintesi di vita.
Ciò significa collocare l’analisi su un tempo che non è piú quello finito del progetto e della sua realizzazione, ma su quello indefinito della fruizione, dell’esperienza quotidiana che si rinnova di continuo; significa assumere come criteri di base i rapporti tra gli oggetti e i corpi, tra l’immobilità dello spazio arredato e la mobilità, la scorrevolezza delle esperienze fisiche e psichiche che vi si succedono; significa, in altre parole, penetrare nel mondo dell’abitare come in un universo in perenne formazione, nel quale si dovranno ogni volta individuare i criteri di orientamento, i riferimenti, le rotte per un viaggio non di esplorazione, ma di scoperta.
2. Attrezzare ammobiliare arredare.
Lo spazio architettonico è, come si sa, uno spazio doppio. Nella sua perimetrazione recinge, circoscrive, trattiene; nella sua estensione accoglie, ospita, contiene. In questa duplicità esso si presenta però come spazio neutro, nel quale l’abitare, anche quando costituisce il tema progettuale primario, è pensato come pura possibilità: la sua vuota cavità definisce semplicemente un interno, in cui si può solo intuire la potenziale interiorità che fonda l’esperienza dell’abitare. Perché lo spazio architettonico divenga spazio abitativo, occorre superare la sua semplice configurazione fisica, sviluppare l’intuizione in una precisa volontà, assumere il «trattenere» e il «contenere» come punto di partenza per un programma operativo destinato a comporli in abitazione.
L’esperienza dell’abitare ha la sua origine nel momento in cui il corpo dell’abitante prende possesso di quello spazio, di quella interiorità, misurandone le distanze, assaporandone le sensazioni, stimolandone le percezioni. Nulla è ancora definito, al di là dei confini tridimensionali della nuda cavità architettonica. Tuttavia già in quel momento i nebulosi contorni del desiderio si compongono in lineamenti piú precisi, che lambiscono il progetto d’architettura, se ne impossessano e lo rilanciano in un progetto di vita. È questo il momento aurorale dell’abitare: il confronto diretto fra il corpo e lo spazio ristabilisce per un attimo l’ordine ancestrale della tana, dell’antro, del nido, fissandone l’archetipo come scaturigine di ogni successivo sviluppo possibile. Ma si tratta, per l’appunto, di un istante: subito dopo, il progetto dell’abitare si dà forma, assume lineamenti sempre piú precisi, si organizza, incarnandosi in quel mondo di cose, oggetti, utensili, immagini attraverso il quale il semplice «interno» diviene abitazione, spazio domestico, universo individuale. A partire da quel momento, tra il corpo dell’abitante e lo spazio architettonico si interpone progressivamente un apparato funzionale – o multifunzionale – che nella sua concretezza si definisce come termine mediano, fascia di interposizione e di collegamento, nella quale la vera fisionomia dell’abitazione si incarna prendendo il nome di arredamento.
Arredo è vocabolo nato, a quanto sembra, dall’innesto della particella pleonastica ad-, di ceppo latino, sul corpo di un gotico raidjan, che equivale a «ordinare». Nella sua semplicità, esso fonde dunque fra loro due culture, che rinviano a modelli antropologici diversi, ma ribadiscono un comune concetto di «ordine», di «assetto», nel quale si esprime il senso profondo dell’organizzazione domestica, con un significativo risvolto nel verbo «corredare», che, poggiando sulla particella strumentale cum-, anch’essa latina e innestata sulla medesima base gota, rinvia al carattere fisico dell’arredamento, al suo darsi come insieme ordinato di oggetti, di cose. Ciò introduce a sua volta un concetto di «dis-posizione», di «dis-tribuzione», in cui alla particella separativa dis- è affidato il compito di esprimere il carattere aggregativo dell’arredamento, il suo comporsi di corpi individuali, i cui reciproci rapporti di contiguità e di lontananza sono stabiliti da un preciso programma spaziale. L’apparato arredativo assume cosí lo spazio architettonico come punto di partenza per una radicale ricomposizione. Esso si propone come ponte fra la vuota cavità fisica e la vitale pienezza dell’abitare, con un’energia semantica capace di articolarne le manifestazioni in un fitto ramificarsi di situazioni percettive, comportamentali, culturali.
Arredare implica dunque, in via preliminare, una mutazione dell’interno architettonico. Grazie ad esso, l’inerte spazio significato soltanto dalla sua tridimensionalità assumerà le fattezze del «campo», dell’«insieme» coerente di momenti sensoriali, di configurazione organizzata e riconoscibile all’interno della quale ogni oggetto o immagine si definirà in relazione a tutto il resto. Questa trasformazione non sarà però unitaria. In effetti il processo di arredamento di un interno si sviluppa lungo fasi ben distinte, che individuano ciascuna una settorialità culturale o addirittura disciplinare, e partono dall’atto dell’attrezzare, attraversano quello dell’ammobiliare e solo ...

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