La bibliotecaria di Auschwitz
eBook - ePub

La bibliotecaria di Auschwitz

Antonio G. Iturbe

Compartir libro
  1. 486 páginas
  2. Italian
  3. ePUB (apto para móviles)
  4. Disponible en iOS y Android
eBook - ePub

La bibliotecaria di Auschwitz

Antonio G. Iturbe

Detalles del libro
Vista previa del libro
Índice
Citas

Información del libro

Edita fa uno schizzo della baracca, con i suoi arcipelaghi di sgabelli, la linea della stufa e le due panche: una per lei e una per i libri. Ecco il suo mondo. Ad Auschwitz-Birkenau c'è l'unico campo "per famiglie" in cui vivono i bambini. Come uccelli rari in gabbia, i piccoli passano le loro giornate nel blocco 31, il paravento di normalità che i nazisti hanno costruito per gli ispettori della Croce Rossa. Qui Fredy Hirsch, un trentenne ebreo tedesco, ha organizzato in una baracca che è poco più di una stalla una scuola clandestina, dotata addirittura di una biblioteca. Gli otto volumi che la compongono - fra cui la Breve storia del mondo di H.G. Wells, un trattato di Freud, Le vicende del bravo soldato Švejk, un atlante geografico e Il conte di Montecristo - sono affidati alle cure della quattordicenne cecoslovacca Edita. Squadernati, strappati e malridotti, i libri sono arrivati lì per vie segrete, e difenderli non è certo semplice. Edita è disposta anche a rischiare la vita per salvare il suo tesoro, l'unico che le permette di fuggire dal dolore e dal plumbeo grigiore del campo di sterminio. Sarà proprio la sua fiducia nel potere dei libri a consentirle di vincere l'orrore.
Una storia vera di coraggio e speranza che ha venduto oltre cinquecentomila copie nel mondo.

Preguntas frecuentes

¿Cómo cancelo mi suscripción?
Simplemente, dirígete a la sección ajustes de la cuenta y haz clic en «Cancelar suscripción». Así de sencillo. Después de cancelar tu suscripción, esta permanecerá activa el tiempo restante que hayas pagado. Obtén más información aquí.
¿Cómo descargo los libros?
Por el momento, todos nuestros libros ePub adaptables a dispositivos móviles se pueden descargar a través de la aplicación. La mayor parte de nuestros PDF también se puede descargar y ya estamos trabajando para que el resto también sea descargable. Obtén más información aquí.
¿En qué se diferencian los planes de precios?
Ambos planes te permiten acceder por completo a la biblioteca y a todas las funciones de Perlego. Las únicas diferencias son el precio y el período de suscripción: con el plan anual ahorrarás en torno a un 30 % en comparación con 12 meses de un plan mensual.
¿Qué es Perlego?
Somos un servicio de suscripción de libros de texto en línea que te permite acceder a toda una biblioteca en línea por menos de lo que cuesta un libro al mes. Con más de un millón de libros sobre más de 1000 categorías, ¡tenemos todo lo que necesitas! Obtén más información aquí.
¿Perlego ofrece la función de texto a voz?
Busca el símbolo de lectura en voz alta en tu próximo libro para ver si puedes escucharlo. La herramienta de lectura en voz alta lee el texto en voz alta por ti, resaltando el texto a medida que se lee. Puedes pausarla, acelerarla y ralentizarla. Obtén más información aquí.
¿Es La bibliotecaria di Auschwitz un PDF/ePUB en línea?
Sí, puedes acceder a La bibliotecaria di Auschwitz de Antonio G. Iturbe en formato PDF o ePUB, así como a otros libros populares de Literatura y Literatura histórica. Tenemos más de un millón de libros disponibles en nuestro catálogo para que explores.

Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2014
ISBN
9788858664131

1

Auschwitz-Birkenau, gennaio 1944
Questi ufficiali vestiti di nero, che guardano la morte con la stessa indifferenza di un becchino, non sanno che su questo fango scuro, dove tutto sprofonda, Alfred Hirsch ha fatto sorgere una scuola. Non lo sanno, e non devono saperlo. Perché ad Auschwitz la vita di un uomo vale meno di niente; vale così poco che non si fucila più nessuno per non sprecare proiettili. Molto meglio le camere con lo Zyklon: basta un bidone di gas per uccidere centinaia di persone. Un ottimo sistema per abbattere i costi. La morte è diventata un’attività su scala industriale, redditizia solo se si lavora all’ingrosso.
Sotto la tettoia di legno della scuola di Hirsch, le aule non sono altro che cerchi di sgabelli stretti gli uni agli altri. Non ci sono pareti a separarle, le lavagne sono invisibili: i maestri tracciano in aria triangoli isosceli, accenti circonflessi e i corsi dei fiumi d’Europa. Le classi sono una ventina in tutto, ognuna con il proprio maestro, e tutte così attaccate che gli insegnanti sono costretti a fare lezione sussurrando perché la storia delle dieci piaghe d’Egitto non si confonda con la cantilena delle tabelline.
Credevano che fosse impossibile, che Hirsch fosse un pazzo, oppure un ingenuo: come si può pensare di mandare a scuola i bambini nell’abbrutimento di un campo di sterminio? Dove, come se non bastasse, è tutto proibito? Ma lui sorrideva. Hirsch sorrideva sempre con quella sua aria enigmatica, come se sapesse qualcosa che agli altri continuava a sfuggire.
Non importa quante scuole chiuderanno i nazisti, ribatteva. Ogni volta che qualcuno si ferma a un angolo di strada a raccontare una storia, e dei bambini si avvicinano ad ascoltarlo, ecco che ne è nata una nuova.
La porta della baracca si apre di colpo e Jakopek, l’assistente di vigilanza, corre verso lo stanzino del capoblocco Hirsch. I suoi zoccoli schizzano sul pavimento la terra umida del campo, e il bozzolo di silenzio e pace del blocco 31 va in frantumi. Nel suo angolo, Dita Adlerova è ipnotizzata da quei minuscoli schizzi di fango: sembrano insignificanti, ma imbrattano tutto di realtà, come gocce d’inchiostro in una ciotola di latte.
«Sei! Sei! Sei!»
È il segnale dell’arrivo delle SS, e in tutta la baracca si leva un gran mormorio. In questa industria specializzata in distruzione di vite che è Auschwitz-Birkenau, dove i forni funzionano giorno e notte alimentati da combustibile umano, il blocco 31 è una baracca fuori dal comune, una rarità. Anzi, una vera anomalia. Una conquista di Fredy Hirsch, che una volta era un insegnante di ginnastica e ora partecipa a una corsa a ostacoli contro il più grande rullo compressore di vite umane della Storia. Hirsch è riuscito a convincere le autorità del lager che tenere occupati i bambini avrebbe permesso ai genitori di lavorare meglio lì al campo BIIb, quello che chiamano «campo per famiglie» visto che nel resto del lager i bambini sono rari quanto gli uccelli. E ad Auschwitz non ci sono uccelli: muoiono folgorati contro le recinzioni.
Il comando del campo ha acconsentito alla creazione di una baracca destinata solo ai piccoli – forse avevano intenzione di crearne una fin dal principio –, ma a condizione che giochino e basta: tassativamente vietato insegnare materie scolastiche.
Hirsch compare sulla porta del suo stanzino da Blockältester e non ha bisogno di dire nulla né agli assistenti né ai professori, gli sguardi sono già tutti puntati su di lui. Fa un cenno impercettibile con il capo. Impartisce ordini con un solo sguardo. Lui fa sempre ciò che sa di dover fare e si aspetta che gli altri si comportino allo stesso modo.
Le lezioni si interrompono e i gruppi cominciano a cantare banali canzoncine in tedesco e a recitare indovinelli, fra poco i lupi ariani, con i loro sguardi gelidi, si affacceranno alla porta, ed è necessario che tutto sembri in regola. In genere la pattuglia, formata da un paio di soldati, entra, ma è difficile che si spinga oltre la soglia della baracca. Si fermano giusto pochi minuti a guardare i piccoli, solo rare volte applaudono un coro o fanno una carezza a un bambino, poi riprendono subito la loro ronda.
Ma Jakopek stavolta grida: «Ispezione! Ispezione!».
L’ispezione è una cosa diversa. Bisogna mettersi in riga, ci sarà una perquisizione, i più piccoli verranno interrogati nel tentativo di strappare loro qualche informazione, approfittando della loro ingenuità. Ma senza alcun risultato. I bambini capiscono molto più di quanto non appaia dai loro visetti da mocciosi.
Qualcuno sussurra: «Il Prete!…». E subito serpeggia un mormorio di terrore. Hanno soprannominato così un sottufficiale delle SS (un Oberscharführer) che cammina sempre con le braccia incrociate e le mani infilate nelle maniche della giacca, proprio come un sacerdote, anche se la sua unica religione è la crudeltà.
«Juda! Devi dire “È arrivato un bastimento carico carico di…”!»
«Di cosa, signor Stein?»
«Di quello che vuoi! Su, figliolo, di quello che vuoi!»
Due insegnanti levano lo sguardo atterriti. Hanno in mano qualcosa che ad Auschwitz è categoricamente proibito, se vengono scoperti rischiano la condanna a morte. Questi oggetti così pericolosi, che già solo a possederli si rischia la vita, non sparano, non sono appuntiti, taglienti o contundenti. Sono semplici libri: vecchi, squadernati, con le pagine strappate, quasi completamente a pezzi. Eppure i nazisti ne vanno a caccia in modo ossessivo, e quando li trovano li bruciano. Nel corso della Storia i dittatori, i persecutori e i tiranni di qualsiasi credo, razza, colore o ideologia, che difendessero la rivoluzione popolare, i privilegi delle classi benestanti, il mandato di Dio o la disciplina sommaria dei militari, hanno avuto questo in comune: la vocazione a censurare e a distruggere i libri. Perché i libri sono pericolosissimi: fanno pensare.
Ogni gruppo è al proprio posto, tutti cantano in attesa di veder comparire le guardie, solo una ragazza spezza l’armonia e si mette a correre in mezzo agli sgabelli.
«Ferma!»
«Che fai? Sei matta?» le gridano.
Un insegnante cerca di trattenerla per un braccio, ma lei si libera con uno strattone e continua a correre scansando tutti gli ostacoli che le si parano davanti, quando invece dovrebbe fare di tutto pur di non attirare l’attenzione. Sale sulla stufa alta un metro che divide in due la baracca e salta dall’altra parte. Atterra sul pavimento in modo troppo brusco e urta uno sgabello che rotola per terra con un baccano tale da coprire per un istante le canzoni.
«Maledizione! Ci metterai tutti nei guai!» grida la signora Krizková, rossa d’ira. I bambini la chiamano «signora Tacchini», ma lei ovviamente non lo sa. E non sa nemmeno che è stata proprio la ragazza contro cui sta sbraitando a inventare quel soprannome. «Stupida! Siediti in fondo insieme agli assistenti!»
Ma, invece di fermarsi, la ragazza continua a correre senza preoccuparsi degli sguardi di disapprovazione. Solo i bambini la guardano affascinati correre e saltare su quelle gambette infilate in un paio di calzettoni di lana a righe. È una ragazza molto magra, ma non fragile, con un caschetto castano che ondeggia mentre lei continua a zigzagare tra i gruppi. Dita Adlerova corre in mezzo a un sacco di persone, ma corre da sola. Corriamo sempre da soli.
Si fa largo fino al centro della baracca e da lì si fa strada a spintoni in un gruppo. Urta alcuni sgabelli e una bambina cade per terra.
«Ehi! Ma che hai?!» le urla, ancora stesa sul pavimento.
La maestra di Brno fissa sbalordita la giovane bibliotecaria che le si è parata davanti, ansimante. Non ha né tempo né fiato per dare spiegazioni: Dita le strappa il libro di mano e la maestra tira un sospiro di sollievo. È un istante, apre bocca per ringraziarla, ma Dita è già lontana. Mancano pochi secondi all’arrivo dei soldati.
L’ingegner Marody, che ha assistito a tutta la scena, la sta aspettando fuori dal cerchio dei suoi bambini. Le passa il libro di geometria come il testimone di una staffetta. Dita corre disperata verso gli assistenti che, in fondo alla stanza, fingono di spazzare per terra.
È ancora a metà strada quando le voci che si levano dai gruppi cominciano ad affievolirsi, a vacillare come la fiamma di una candela quando si apre una finestra. Non ha bisogno di voltarsi per sapere che la porta si è aperta e le SS stanno entrando. Si lascia cadere e atterra in mezzo a un gruppo di bambine di una decina di anni. Si infila i libri sotto il vestito e incrocia le braccia sul petto per impedire che le cadano. Le bambine la sbirciano divertite, mentre la maestra, tesissima, intima loro di continuare a cantare con un cenno del capo. Dopo aver gettato un rapido sguardo attorno dalla porta della baracca, le SS entrano gridando una delle loro parole preferite:
«Achtung!».
Cala il silenzio. Tacciono le canzoncine, tacciono le filastrocche. Tutti si immobilizzano. E in mezzo a quel silenzio qualcuno si mette a fischiare la Quinta sinfonia di Beethoven. Il Prete è un sergente temibile, ma anche lui sembra nervoso, forse a causa di quel compagno ancora più sinistro.
«Che Dio ci protegga» sussurra una maestra.
Dita riconosce Beethoven perché sua madre, prima della guerra, suonava il pianoforte. Ha già sentito fischiettare una sinfonia in quel modo, con la precisione che solo i melomani hanno. È successo dopo il viaggio di tre giorni sul vagone merci piombato che li ha portati fin lì dal ghetto di Terezín, il campo dove erano stati deportati dopo l’espulsione da Praga e dove avevano vissuto per un anno. Ammassati gli uni sugli altri senza acqua né cibo, arrivarono ad Auschwitz-Birkenau nel cuore della notte. Impossibile dimenticare il rumore metallico del portellone che si apriva. La prima boccata di aria gelida, pregna del puzzo di carne bruciata. L’intenso bagliore delle luci nel buio, la banchina illuminata come una sala operatoria. Poi arrivarono gli ordini, i colpi con il calcio delle mitragliette contro il vagone, gli spari, i fischi, le urla. E, in mezzo a quel caos, la sinfonia di Beethoven fischiata in maniera perfetta, con la calma più assoluta, da un capitano, un Hauptsturmführer che anche le SS guardavano con terrore.
Passò proprio davanti a Dita, con la sua divisa impeccabile, i guanti bianchi immacolati e la Croce di Ferro, la medaglia che ai tedeschi viene conferita solo in battaglia, appuntata sul petto. Si fermò davanti a un gruppetto di madri con i loro bambini, senza togliersi i guanti fece un buffetto a uno dei piccoli. Sorrise, persino. Poi indicò due gemelli, Zdenek e Jirka, e un caporale li allontanò subito dalla fila. La madre afferrò la guardia per la giacca e la implorò in ginocchio di non portarglieli via. Il capitano intervenne con la massima tranquillità.
«Nessuno li tratterà come lo zio Josef.»
Ed era vero. Nessuno in tutto Auschwitz torceva un capello ai gemelli che il dottor Josef Mengele collezionava per i suoi esperimenti genetici. Nessun altro li avrebbe mai trattati come li trattava lui al solo scopo di capire come le donne ariane avrebbero potuto partorire un maggior numero di gemelli per far proliferare meglio la razza. Dita se lo ricorda ancora, Mengele, mentre si allontanava con i bambini per mano, senza smettere di fischiettare sereno.
La melodia è la stessa che ora risuona nel blocco 31.
Mengele…
La porta dello stanzino del capoblocco si apre con un cigolio e Hirsch esce fingendo che la visita delle SS sia una gradita sorpresa. Saluta l’ufficiale con un sonoro colpo di tacchi; è un modo per esprimere rispetto verso l’alto grado del militare, ma anche per mostrare un atteggiamento fiero, né sottomesso né intimorito. Mengele lo guarda appena, è sovrappensiero e continua a fischiettare con le mani incrociate dietro la schiena come se niente di tutto ciò che gli accade intorno lo riguardasse. Intanto il Prete fa correre per la baracca uno sguardo vacuo senza sfilare le mani dalle maniche della giacca. Tiene le braccia appoggiate in grembo, non lontano dalla fondina.
Jakopek non si è sbagliato.
«Ispezione» sussurra l’Oberscharführer.
Le SS che lo accompagnano ripetono l’ordine e lo ripetono a voce così alta da farlo diventare un grido che perfora i timpani. Dita, ancora nel cerchio delle bambine, rabbrividisce, si stringe di più le braccia al corpo e sente i libri scricchiolarle contro le costole. Se li trovano, è finita.
«Non sarebbe giusto…» mormora.
Ha quattordici anni, tutta la vita davanti, un sacco di cose ancora da fare. Non ha avuto neanche il tempo di iniziare. Le viene in mente quello che da anni sua madre le ripete ogni volta che la sente lamentarsi: «È la guerra, Edita. È la guerra».
Quando tutto è iniziato era così piccola che quasi non ricorda più com’era il mondo prima della guerra. Si stringe i libri al cuore, il posto da cui le hanno strappato tutto, con la stessa disperazione con cui conserva nella mente un album di fotografie. Chiude gli occhi e cerca di ricordare com’era la vita prima della paura.
Eccola a nove anni, ferma ai piedi dell’orologio astronomico della piazza del municipio di Praga. Era l’inizio del 1939. Sbirciava di sottecchi il vecchio scheletro che sorveglia i tetti della città con le sue enormi e vuote orbite nere come pugni.
Quel grande orologio, le avevano spiegato a scuola, era un congegno meccanico progettato dal maestro Hanus più di cinque secoli prima. Ma i vecchi raccontavano una storia spaventosa: il re aveva ordinato ad Hanus di costruire l’orologio astronomico con la sfilata delle figure allo scoccare di ogni ora e, una volta finito il lavoro, aveva ordinato alle sue guardie di accecarlo perché non potesse costruire una simile meraviglia per nessun altro sovrano. Per vendicarsi, l’orologiaio aveva infilato una mano nel meccanismo: gli ingranaggi gliel’avevano strappata e il meccanismo si era bloccato. Ci erano voluti anni per ripararlo. Si diceva che certe notti Hanus sognasse la sua mano che strisciava in mezzo alle ruote dentate. A quel punto nel ricordo di Dita lo scheletro si metteva a suonare una campanella e lo spettacolo aveva inizio: una grande sfilata allegorica di figure che entravano e uscivano da quell’enorme carillon, minuti che spingevano altri minuti, ore che svanivano una dietro l’altra. A nove anni non rifletteva mai sullo scorrere del tempo, se ne rende conto soltanto adesso, sopraffatta dal terrore, ma se lo immaginava come una colla densa, un mare immobile e appiccicoso su cui si resta fermi. A quell’età gli orologi fanno paura solo se hanno uno scheletro sul quadrante.
Aggrappata a quei vecchi libri che possono portarla alla camera a gas, Dita ripensa con nostalgia alla bambina felice che è stata.
Quando accompagnava sua madre a fare spese in centro le piaceva fermarsi davanti all’orologio astronomico non certo per lo spettacolo meccanico – quello scheletro la turbava più di quanto volesse ammettere –, ma per guardare di nascost...

Índice