L'infinito viaggiare
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L'infinito viaggiare

Claudio Magris

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L'infinito viaggiare

Claudio Magris

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"Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, l'emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell'attimo ma accolto come proprio. Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell'incontro, della seduzione e dell'avventura; la ventesima o centesima volta in cui si parla con un amico o si fa all'amore con una persona amata sono infinitamente più intense della prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno, come l'odissea, e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. "Perché cavalcate per queste terre?" chiede nella famosa ballata di Rilke l'alfiere al marchese che procede al suo fianco. "Per ritornare" risponde l'altro."

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2017
ISBN
9788852041242
Categoría
Viajes

Prefazione

1. Le prefazioni sono sempre sospette; inutili se il libro che esse introducono non le richiede o indizi della sua insufficienza se esso ne ha bisogno, rischiano pure di guastare la lettura, come la spiegazione di una barzelletta o l’anticipazione del suo finale. Ma forse il prologo si addice a una raccolta di pagine di viaggio, perché il viaggio – nel mondo e sulla carta – è di per sé un continuo preambolo, un preludio a qualcosa che deve sempre ancora venire e sta sempre ancora dietro l’angolo; partire, fermarsi, tornare indietro, fare e disfare le valigie, annotare sul taccuino il paesaggio che, mentre lo si attraversa, fugge, si sfalda e si ricompone come una sequenza cinematografica, con le sue dissolvenze e riassestamenti, o come un volto che muta nel tempo.
La prefazione è una specie di valigia, un nécessaire, e quest’ultimo fa parte del viaggio; alla partenza, quando ci si mette dentro le poche cose prevedibilmente indispensabili, dimenticando sempre qualcosa d’essenziale; durante il cammino, quando si raccoglie ciò che si vuole portare a casa; al ritorno, quando si apre il bagaglio e non si trovano le cose che erano sembrate più importanti, mentre saltano fuori oggetti che non ci si ricorda di aver messo dentro. Così accade con la scrittura; qualcosa che, mentre si viaggiava e si viveva, pareva fondamentale è svanito, sulla carta non c’è più, mentre prende imperiosamente forma e si impone come essenziale qualcosa che nella vita – nel viaggio della vita – avevamo appena notato.
Il viaggio sempre ricomincia, ha sempre da ricominciare, come l’esistenza, e ogni sua annotazione è un prologo; se il percorso nel mondo si trasferisce nella scrittura, esso si prolunga nel trasloco dalla realtà alla carta – scrivere appunti, ritoccarli, cancellarli parzialmente, riscriverli, spostarli, variarne la disposizione. Montaggio delle parole e delle immagini, colte dal finestrino del treno o attraversando a piedi una strada e girando l’angolo. Solo con la morte, ricorda Karl Rahner, grande teologo in cammino, cessa lo status viatoris dell’uomo, la sua condizione esistenziale di viaggiatore. Viaggiare dunque ha a che fare con la morte, come ben sapevano Baudelaire o Gadda, ma è anche un differire la morte; rimandare il più possibile l’arrivo, l’incontro con l’essenziale, come la prefazione differisce la vera e propria lettura, il momento del bilancio definitivo e del giudizio. Viaggiare non per arrivare ma per viaggiare, per arrivare più tardi possibile, per non arrivare possibilmente mai.
2. Il viaggio dunque come persuasione. Forse è soprattutto nei viaggi che ho conosciuto la persuasione, nel senso dato a questa parola da Carlo Michelstaedter; quella vita autosufficiente, libera e appagata che Enrico, il personaggio del mio romanzo Un altro mare, insegue con autodistruttivo e vano accanimento. La persuasione: il possesso presente della propria vita, la capacità di vivere l’attimo, ogni attimo e non solo quelli privilegiati ed eccezionali, senza sacrificarlo al futuro, senza annientarlo nei progetti e nei programmi, senza considerarlo semplicemente un momento da far passare presto per raggiungere qualcosa d’altro. Quasi sempre, nella propria esistenza, si hanno troppe ragioni per sperare che essa passi il più rapidamente possibile, che il presente diventi quanto più velocemente futuro, che il domani arrivi quanto prima, perché si attende con ansia il responso del medico, l’inizio delle vacanze, il compimento di un libro, il risultato di un’attività o di un’iniziativa e così si vive non per vivere ma per avere già vissuto, per essere più vicini alla morte, per morire.
Il viaggio incalzante e incalzato, imposto sempre più freneticamente dal lavoro e dalla sua necessaria spettacolarizzazione – specialmente a quel manager di se stesso e dello Spirito che è l’intellettuale, enfasi e caricatura del manager industriale –, è la negazione della persuasione, della sosta, del vagabondare; assomiglia piuttosto a quella eiaculazione precoce che Joseph Roth, riprendendo nel suo romanzo I cento giorni un pettegolezzo in materia riguardante Napoleone, attribuisce all’Empereur, il quale non vuol tanto fare all’amore, quanto averlo subito già fatto, sbrigato e liquidato. Il viaggio del conferenziere, tra un aeroporto o un albergo e l’altro, non è dissimile da questo orgasmo assillato.
Ma quando viaggiavo nei vasti paesi danubiani o nei periferici microcosmi, avviandomi in una certa direzione, sempre disponibile a digressioni, soste e deviazioni improvvise, vivevo persuaso, come davanti al mare; vivevo immerso nel presente, in quella sospensione del tempo che si verifica quando ci si abbandona al suo scorrere lieve e a ciò che reca la vita – come una bottiglia aperta sott’acqua e riempita del fluire delle cose, diceva Goethe viaggiando in Italia. In un viaggio vissuto in tal modo i luoghi diventano insieme tappe e dimore del cammino della vita, soste fugaci e radici che inducono a sentirsi a casa nel mondo. C’è il viaggio al di là delle colonne d’Ercole e quello minimo di Pickwick alle sorgenti di Hampstead o quello da una stanza all’altra della propria abitazione, spedizione non meno avventurosa né meno ricca d’incanti e di rischi. I capitani fiumani e triestini di lungo corso che attraversavano gli oceani chiamavano beffardamente “capitan de cadin” (di catino) quelli che percorrevano solo piccoli tratti fra Trieste e l’Istria o tra Fiume e le vicine isole del Quarnero, ma anche in quel golfo la bora provoca tempeste in cui si può naufragare.
Pure nei capitoli di questo libro si va agli antipodi ma anche nei microcosmi dei bisiachi o nei nanocosmi della Ciceria e il passo del viaggiatore vorrebbe assomigliare all’andatura di Lawrence Sterne. Viaggiare sentendosi sempre, nello stesso momento, nell’ignoto e a casa, ma sapendo di non avere, di non possedere una casa. Chi viaggia è sempre un randagio, uno straniero, un ospite; dorme in stanze che prima e dopo di lui albergano sconosciuti, non possiede il guanciale su cui posa il capo né il tetto che lo ripara. E così comprende che non si può mai veramente possedere una casa, uno spazio ritagliato nell’infinito dell’universo, ma solo sostarvi, per una notte o per tutta la vita, con rispetto e gratitudine. Non per nulla il viaggio è anzitutto un ritorno e insegna ad abitare più liberamente, più poeticamente la propria casa. Poeticamente abita l’uomo su questa terra, dice un verso di Hölderlin, ma solo se sa, come dice un altro verso, che la salvezza cresce là dove cresce il pericolo.
Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire, echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono.
3. “Dove siete diretti?” si chiede nell’Enrico di Ofterdingen, il grande romanzo di Novalis. “Sempre verso casa” è la risposta. Il suo è uno dei grandi libri nei quali il viaggio appare quale odissea ovvero quale metafora del viaggio attraverso la vita. Ogni odissea pone l’interrogativo sulla possibilità di attraversare il mondo facendone reale esperienza e formando così la propria personalità; la domanda se Ulisse – specie quello moderno – alla fine torni a casa confermato, nonostante le più tragiche e assurde peripezie, nella propria identità e avendo trovato o ribadito un senso dell’esistenza, oppure se egli scopra soltanto l’impossibilità di formarsi, se egli perda per strada se stesso e il significato della sua vita, disgregandosi anziché costruirsi nel suo cammino.
Nella visione classica il soggetto, pur smarrito nella vertigine delle cose, finisce per trovare se stesso nel confronto con questa vertigine; attraversando il mondo – viaggiando nel mondo – egli scopre la propria verità, quella verità che all’inizio in lui è soltanto potenziale e latente e che egli traduce in realtà attraverso il confronto col mondo. L’eroe di Novalis viaggia in lontananze spaziali e temporali ma per arrivare a casa, per trovare se stesso attraverso il viaggio; nel Principio speranza Bloch dice che la Heimat, la patria, la casa natale che ognuno nella sua nostalgia crede di vedere nell’infanzia, si trova invece alla fine del viaggio. Quest’ultimo è circolare; si parte da casa, si attraversa il mondo e si ritorna a casa, anche se a una casa molto diversa da quella lasciata, perché ha acquistato significato grazie alla partenza, alla scissione originaria. Ulisse torna a Itaca, ma Itaca non sarebbe tale se egli non l’avesse abbandonata per andare alla guerra di Troia, se egli non avesse infranto i legami viscerali e immediati con essa, per poterla ritrovare con maggiore autenticità.
Il Bildungsroman, il romanzo di formazione che si pone un problema centrale della modernità ossia si chiede se e come l’individuo possa realizzare o no la propria personalità inserendosi nell’ingranaggio sempre più complesso e “prosaico” della società, è quasi sempre – dal Wilhelm Meister di Goethe all’Enrico di Ofterdingen di Novalis – pure un romanzo di peregrinazione, di viaggio. Ma presto qualcosa, nel rapporto fra il singolo e la totalità che lo avvolge, s’incrina; nella macchina della società moderna il viaggiare diventa anche un fuggire, un violento rompere limiti e legami. Il viaggio scopre non solo la precarietà del mondo, ma anche quella del viaggiatore, la labilità dell’Io individuale, che comincia – come intuisce con spietata chiarezza Nietzsche – a disgregare la propria identità e la propria unità, a diventare un altro uomo, “oltre l’uomo”, secondo il significato più autentico del termine Übermensch, che non indica un superuomo, un individuo tradizionale più dotato degli altri, ma un nuovo stadio antropologico, oltre l’individualità classica.
Il viaggio diviene allora un cammino senza ritorno, alla scoperta che non c’è, non può e non deve esserci ritorno. Al viaggio circolare, tradizionale, classico, edipico, conservatore di Joyce, il cui Ulisse torna a casa, subentra il viaggio rettilineo, nietzscheano dei personaggi di Musil, un viaggio che procede sempre avanti, verso un cattivo infinito, come una retta che avanzi pencolando nel nulla. Itaca e oltre, come dice il titolo di un libro che ho scritto; le due modalità esistenziali, trascendentali del viaggiare. Nella seconda il soggetto, l’Io, il viaggiatore si getta sempre in avanti; non porta se stesso, tutto se stesso, nel suo procedere, ma ogni volta annienta l’intera sua identità precedente e si getta via. “Lâchez tout”, mettersi in viaggio, scriveva nel 1922 Breton esortando al dépaysement.
L’Io delle pagine che seguono cammina talora, anzi spesso, sull’orlo di questa dissoluzione, guarda la scia della sua vita disperdersi dietro di lui, ma è un guerrigliero che cerca di resistere a quella dispersione e di portarsi dietro – fedele a tutto, nonostante tutto – la vita intera, come una tartaruga che viaggia insieme alla sua casa. Perdendosi nel mondo e abbandonandosi al mondo si disgrega, ma infine pure si riconosce e si ritrova, come dice la parabola di Borges che ho scelto quale epigrafe per i miei Microcosmi: “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.
4. Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.
Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. In Verde acqua Marisa Madieri, ripercorrendo la storia dell’esodo degli italiani da Fiume dopo la Seconda guerra mondiale, nel momento della riscossa slava che li costringe ad andarsene, scopre le origini in parte anche slave della sua famiglia in quel momento vessata dagli slavi in quanto italiana, scopre cioè di appartenere anche a quel mondo da cui si sentiva minacciata, che è, almeno parzialmente, pure il suo.
Quando ero un bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perché era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perché là cominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perché quelle terre, annesse dalla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo. “Dov’è la frontiera?” chiede Saramago sul confine tra Spagna e Portogallo ai pesci che, nello stesso fiume, nuotano, a seconda che guizzino vicino a una sponda o a un’altra, ora nel Duero ora nel Douro.
5. Richiamo del noto o dell’ignoto? La sortita di don Chisciotte vorrebbe essere la scoperta, la verifica e la riconferma di ciò che si sa, della verità letta nei libri di cavalleria, delle leggi immutabili dell’amore e della lealtà, della bellezza di Dulcinea e della forza dei giganti. Anche gli ebrei orientali che escono dal ghetto o dallo shtetl, dal loro borgo misero ma familiare e regolato dal Libro, si avventurano verso Occidente, entrano nella Storia, pensando di incontrare sempre un mondo retto secondo le tavole della Legge e anzi interpretando ogni cosa, anche la più sconcertante e antitetica alla loro visione, secondo i parametri della Legge.
Ma “all’aperto piove e nevica. Nevica storia”, come dice Yakov Bok, il misero tuttofare in cerca di fortuna, nell’Uomo di Kiev di Malamud. Il don Chisciotte della Mancia e quello ebraico-orientale si trovano faccia a faccia con l’ignoto, con la violenza, la brutalità e la volgarità di una realtà ad essi sconosciuta e che cercano di non ammettere; ma proprio la loro amorosa fedeltà a un ordine noto li costringe a percepire più acutamente il disordine del mondo in cui si avventurano. Il viaggiatore è un anarchico conservatore; un conservatore che scopre il caos del mondo perché lo commisura con un metro assoluto che ne svela la fragilità, la provvisorietà, l’ambiguità e la miseria. Come ben sapeva Kafka, senza il senso profondo della legge non si può scoprire la sua vertiginosa assenza nella vita. Risalito dalla caverna di Montesino, don Chisciotte racconta tutte le meraviglie e le magie che ha visto, ma quando Sancho gli obietta che secondo lui si tratta di fandonie, egli risponde “Potrebbe anche essere”.
Utopia e disincanto. Molte cose cadono, quando si viaggia; certezze, valori, sentimenti, aspettative che si perdono per strada – la strada è una dura, ma anche buona maestra. Altre cose, altri valori e sentimenti si trovano, s’incontrano, si raccattano per via. Come viaggiare, pure scrivere significa smontare, riassestare, ricombinare; si viaggia nella realtà come in un teatro di prosa, spostando le quinte, aprendo nuovi passaggi, perdendosi in vicoli ciechi e bloccandosi davanti a false porte disegnate sul muro.
La realtà, così spesso impenetrabile, d’improvviso cede, si sfalda; il viaggiatore, dice Cees Noteboom, sente “gli spifferi dalle fessure dell’edificio causale”. Il reale si rivela probabilistico, indeterministico, soggetto a improvvisi collassi quantici che fanno sparire alcuni suoi elementi, inghiottiti, risucchiati in vortici dello spazio-tempo, mulinelli della mortalità di tutte le cose, ma anche dell’imprevedibile emergere di nuova vita.
Viaggiare è un’esperienza musiliana, affidata al senso delle possibilità piuttosto che al principio di realtà. Si scoprono, come in uno scavo archeologico, altri strati del reale, le possibilità concrete che non si sono materialmente realizzate ma esistevano e sopravvivono in brandelli dimenticati dalla corsa del tempo, in varchi ancora aperti, in stati ancora fluttuanti. Viaggiare significa fare i conti con la realtà ma anche con le sue alternative, con i suoi vuoti; con la Storia e con un’altra storia o con altre storie da essa impedite e rimosse, ma non del tutto cancellate.
Fin dall’Odissea, viaggio e letteratura appaiono strettamente legati; un’analoga esplorazione, decostruzione e ricognizione del mondo e dell’io. La scrittura continua il trasloco, impacca e disfa, aggiusta, sposta i vuoti e i pieni, scopre – inventa? trova? – elementi sfuggiti all’inventario e perfino alla percezione del reale, quasi li ponesse sotto una lente d’ingrandimento. Anche il mio viaggiatore danubiano parla di fessure incise come lame nelle quinte del teatro quotidiano, attraverso le quali spera s’infiltri almeno un soffio o uno spiffero della vita vera, celata dal paravento del reale. Trascendenza di ogni viaggiare, che pure affonda nella carne, nella polvere, nell’immediatezza dell’ora che scende e che sempre scombina, poco o molto, le attese. Basta attraversare la strada o il pianerottolo per smentire l’orgogliosa garanzia assicurata anni fa dallo “Spiegel” in una sua rubrica intitolata “Bestseller Service”, che prometteva di parlare solo dei libri di successo di cui tutti parlavano e si aspettavano che si parlasse: “Le sorprese sono escluse”.
Vivere, viaggiare, scrivere. Forse oggi la narrativa più autentica è quella che racconta non attraverso la pura invenzione e finzione, bensì attraverso la presa diretta dei fatti, delle cose, di quelle trasformazioni folli e vertiginose che, come dice Kapuciński, impediscono di cogliere il mondo nella sua totalità e di offrirne una sintesi, consentendo di afferrarne, come un reporter nel caos della battaglia, solo dei frammenti. Egli stesso del resto crea una vitalissima letteratura tuffandosi nella realtà, raffigurandola con rigorosa precisione, afferrando come un cane da caccia i suoi dettagli rivelatori anche più fuggevoli, e componendo il tutto in un quadro, fedele e insieme reinventato, che è il ritratto del mondo e del viaggio attraverso il mondo. Forse il viaggio è un’espressione per eccellenza di quella letteratura, di quella narrativa “non fiction” teorizzata da Truman Capote.
6. Il viaggio nello spazio è insieme un viaggio nel tempo e contro il tempo. La complessità stratificata e condensata di un luogo talora emerge con violenza, come semi che spacchino il guscio. Noi siamo tempo rappreso, ha detto una volta Marisa Madieri. Non solo un individuo, anche un luogo è tempo rappreso, tempo plurimo. Non è solo il suo presente, ma pure quel labirinto di tempi ed epoche diverse che si intrecciano in un paesaggio e lo costituiscono, così come pieghe, rughe, espressioni scavate dalla felicità o dalla malinconia non solo segnano un viso, ma sono il viso di quella persona, che non ha mai soltanto l’età o lo stato d’animo di quel momento, bensì è l’insieme di tutte le età e gli stati d’animo della sua vita. Paesaggio come viso, l’uomo nel paesaggio come l’onda nel mare; il paesaggio – come nella poesia di Andrea Zanzotto – è stratificazione di terra e di storia. Non è solo natura e architettura, golfi boschi e case, sentieri di erba e di pietra, ma anche e soprattutto società, persone, gesti, abitudini, pregiudizi, passioni, cibo, bandiere, fedi. La foresta del viandante moderno è la città, con i suoi deserti e le sue oasi, il suo coro e la sua solitudine, i suoi grattacieli o le sue osterie di periferia, le sue strade rettilinee in fuga verso l’infinito. Il passante con gli occhi e i sensi aperti è forse il viaggiatore più autentico; il suo sguardo penetra e disfa lo scenario urbano come un’insurrezione, come accade alla sacrale e stravolta Milano di Luca Doninelli nel suo possente Crollo delle aspettative. Paesaggio è passaggio; è anche un’andatura, come uno stile della scrittura. Ognuno attrav...

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