Mi vivi dentro
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Mi vivi dentro

Alessandro Milan

  1. 208 páginas
  2. Italian
  3. ePUB (apto para móviles)
  4. Disponible en iOS y Android
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Mi vivi dentro

Alessandro Milan

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Índice
Citas

Información del libro

Tutto comincia alle sei di mattina, in radio, dove due giornalisti assonnati si danno il turno. Francesca è bassina, ha i capelli biondi sparati, due occhioni azzurri che illuminano il mondo. È una forza della natura, sempre in movimento, sempre allegra. Alessandro è scherzoso e un po' goffo, si lascia travolgere da Francesca e dall'amore che presto li lega. E così anni dopo, insieme, si troveranno a combattere la più terribile delle battaglie, quella che non si può vincere. Non è una favola, la loro. È però una storia piena di speranza, di amore, di attaccamento alla vita, un inno alla resilienza. Non c'è lieto fine, perché le storie più belle, semplicemente, non finiscono.

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Información

Editorial
Mondadori
Año
2022
ISBN
9788835716341
1

La clessidra

Cammino sul lungomare di Sámara, in Costa Rica. Avanzo zigzagando, con la testa bassa, lo sguardo fisso sui piedi che a ogni passo affondano nella sabbia. Le dita spariscono per un attimo, immerse tra i granelli dorati che contrastano col bianco della pelle. Ne avverto anche il suono, una sorta di croc. Di tanto in tanto alzo gli occhi in cerca di una zona soleggiata. Mi dirigo lì, e mentre continuo ad avanzare mi colpisce lo sbalzo di temperatura. Quando il bruciore ai piedi diventa insopportabile, torno al riparo di una palma e l’approdo mi dà sollievo e qualche brivido lungo la schiena.
Dev’essere l’ora dell’alta marea, perché la riva si sta ritirando. Vedo due persone a cavallo, in lontananza. Tra me e loro, il vuoto. Abbasso gli occhi. Poi mi lascio cadere, l’atterraggio è soffice, un pof sulle tibie e sulle rotule. Osservo per un attimo al largo, il cielo è talmente terso e il mare talmente blu che fatico a distinguere la linea dell’orizzonte. Sorrido e rimango incantato qualche secondo davanti a quel paesaggio. Nel frattempo le persone a cavallo si sono avvicinate, ora passano dietro di me, a pochi metri. Sono due bambini, che si dicono qualcosa e ridono, ma le loro parole mi arrivano ovattate. Gli zoccoli dei cavalli, invece, non fanno rumore.
Improvvisamente guardo giù e affondo le mani nella sabbia. Eppure non ne percepisco il calore. Quando sono tutte e due coperte, le stringo a pugno, poi le sollevo, ma le dita sembrano di vetro, non trattengono neppure un granello. Riprovo. Immergo entrambi i palmi nell’oro, chiudo, li sollevo. Sono vuoti. Provo una terza volta. Non racimolo nulla. Lieve la sabbia scivola via, scorre come quella di una clessidra. Solo che questa non si può capovolgere, cade per sempre.
Il rumore di una porta che si chiude alle mie spalle mi fa riaprire gli occhi e mi riporta alla realtà. Devo essermi addormentato per qualche istante.
Sono in ospedale, seduto in uno di quegli slarghi tra un reparto e l’altro che sembrano fatti apposta per spingerti a meditare sulla mestizia dei muri e degli arredi. Perché sono sempre così tristi, illuminati da luci fredde che ti fanno perdere la cognizione del tempo? Rischi di non distinguere il giorno dalla notte, se non hai un orologio o una finestra nei paraggi.
La mamma di Francesca mi raggiunge. Si siede al mio fianco. I suoi capelli corti, sempre precisi e pettinati, mi paiono di colpo arruffati, la sua consueta grinta si è spenta. Da alcuni giorni pende dalle mie labbra, oltre che da quelle dei dottori. Ma io non ho certezze da offrirle, anzi.
Sospira, gli occhi le si velano di lacrime.
«Mi siedo qui, accanto al mio “generino”.»
Io non rispondo, guardo fisso davanti a me.
«Ma sta succedendo davvero?» aggiunge. Non so quante volte me lo ha già chiesto.
Io non ho molto da dire. «Eh… Pare…» bofonchio.
Restiamo in silenzio due o tre minuti, durante i quali penso che per lei dev’essere ancora più difficile che per me. Lei, in fin dei conti, è la mamma.
Giocherello con le dita della mano destra sul bracciolo della poltrona, la schiena e il sedere affondati nel cuscino, le gambe protese in avanti. Lei invece è composta, ritta, come a volersi tenere su. Ha un fazzoletto di carta tra le mani, e lo tormenta in continuazione. Ormai è diventato macilento.
Poi lei si alza. «Ho bisogno di fare due passi» dice. E si allontana.
È allora che accade. Un incontro casuale, perché la dottoressa che mi passa davanti era diretta da tutt’altra parte, non stava venendo da me. La conosco, o meglio l’ho intravista nei giorni scorsi: Francesca è ricoverata nel reparto del primario dal quale lei dipende. Sapete quelle scene da film in cui il luminare fa il giro delle stanze per controllare lo stato dei pazienti e attorno a sé ha tutto quel codazzo di vice, aiutanti e specializzandi che lo seguono come se fosse il pifferaio magico? Ecco, l’ho notata due o tre volte in quelle occasioni. È giovane, non ha lo sguardo sperduto dei colleghi di primo pelo ma nemmeno la corazza o il tono ieratico del professorone. In più è donna, e mi convinco che probabilmente questo possa averla dotata di una sensibilità e un’empatia maggiori nei confronti di mia moglie.
Non so neppure se mi abbia riconosciuto, ma quando i nostri occhi si incrociano è come se mettesse a fuoco la situazione. Magari avrebbe preferito tirare dritto per la sua strada, ma viene verso di me. Il suo avvicinarsi mi fa scattare qualcosa nella testa, non so esattamente cosa. Forse è che conosco troppo gli altri medici e allora sospetto che mi parlino con una sorta di freno a mano tirato, che non riescano a essere del tutto sinceri perché vogliono troppo bene a Francesca, e anche a me. Sta di fatto che scelgo lei.
«Scusi, dottoressa, non so a chi altro chiedere…»
«A che proposito, mi dica.»
«Senta, mia moglie… È così compromessa la situazione?»
Lei dapprima abbassa un pochino lo sguardo, poi mi fissa negli occhi e accenna un sì con la testa.
«Ok. Ma… “compromessa” cosa vuol dire?»
Certo, l’ho chiesto io. Lo so bene. Ma uno può scegliere le domande, non le risposte.
«Mi spiace doverglielo dire io, perché vi conosco poco. Ma tra un mese, al massimo tre, sua moglie non ci sarà più.»
No.
Non è vero.
Non può averlo detto.
Non può.
D’accordo, Franci sta male, la situazione è complicata, di più, magari anche disperata, ma non può averlo detto. Oggi è il 9 novembre, tra un mese e mezzo è Natale. L’albero, le luci colorate, i regali, chissà magari uno spruzzo di neve.
Un mese, al massimo tre?
Forse vedremo l’anno nuovo insieme, forse no.
Sento il pianto sgorgare da dentro, trovando uno sfogo prima nello stomaco, poi nella gola, infine nella bocca, nel naso. Come un’esplosione dall’interno verso l’esterno. Incontrollabile.
Farfuglio qualcosa, inizio a voltarmi da ogni parte in maniera compulsiva, evitando il suo sguardo, per vergogna e pudore. Forse mi esce un «va bene» strozzato nelle corde vocali, o forse non dico niente. Poi mi alzo e imbocco il corridoio. Mentre mi allontano sento che la dottoressa mi chiama, ma non posso restare qui. Non voglio sentire altro.
Raccolgo le forze per recuperare lucidità, perché sto per passare vicino alla stanza di Franci e potrei incontrare qualcuno tra infermieri, parenti e dottori.
Un’occhiata veloce e invece niente, per fortuna. Via libera, non c’è nessuno. Anzi no, c’è Stefano, il dermatologo, anche lui estraneo in questo reparto, è venuto qui solo per noi. Tenta di salutarmi ma gli faccio un cenno come a dire “no, non ora” e a grandi falcate attraverso il corridoio. Devo trovare un posto dove piangere, da solo. Sento che devo buttare fuori tutto.
Vado dalla parte opposta, dove c’è un altro salone, solite pareti grigie e neon. Mi siedo lì e lascio che gli argini vengano travolti dalla piena. Mi prendo il volto tra le mani, le spalle iniziano a sussultare per i singhiozzi. Il Natale… C’è l’albero da fare tutti insieme. Cazzo, Franci è forte, com’è possibile? Noi dobbiamo fare ancora tante cose. Mi strofino la fronte, le guance, mi ingobbisco, mi rannicchio e fisso il pavimento. Piango e sento che ho la bocca aperta, mi sembra spalancata, ora trema. Me la copro, per vergogna. Ma da chi ti nascondi, Ale? ’Fanculo, in ospedale si piange, no? No, no, non è possibile, ora vado di là e dico alla dottoressa che si è sbagliata.
Un mese, al massimo tre. D’improvviso la sabbia della clessidra ha preso a cadere più in fretta.
È poco tempo. Maledettamente poco. E ora che faccio? Cosa dico a sua mamma, a suo papà? Chi mi aiuterà? A un certo punto mi sembra quasi di avvertire un conato di vomito.
Non dire nulla, Ale. Nulla. Niente di niente, questa conversazione non è mai avvenuta.
Tiro su con il naso, provo a calmarmi, poi mi massaggio le tempie con le dita, mi strofino le sopracciglia. Lo sbuffo d’aria che butto fuori è il segnale che il peggio è passato.
Ora sono impaziente. Sento che non posso più restare qui, seduto. Sono già venti minuti che manco dalla stanza di Francesca ed è bene farsi vedere, prima che si insospettisca. E poi, se il tempo che ci resta è un mese o al massimo tre, questi minuti sono già stati uno spreco enorme. Ora ogni granello di quella sabbia vale dieci volte di più.
Così imbocco di nuovo il corridoio. Mi asciugo le lacrime da sotto gli occhi, che immagino siano rossi, gonfi, inguardabili. Sono sconvolto, la vista è appannata. Riesco a scorgere a una decina di metri da me la chiazza bianca di un camice. È ancora Stefano. Mi rendo conto che poco fa sono stato scortese, scacciandolo con la mano, perciò gli vado incontro e lo saluto. Lui mi fissa e non sa cosa dire, non apre bocca, visibilmente imbarazzato. Anche perché – me ne rendo conto soltanto adesso, girando appena la testa – di fronte a lui c’è…
Oddio, è Franci. Ce l’ho a un metro e mezzo e non me n’ero accorto.
La guardo.
Mi guarda.
È il panico, in un attimo.
So di avere il volto devastato. Allora improvviso uno di quei sorrisi ebeti, automatic...

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