La condanna del sangue
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La condanna del sangue

La primavera del commissario Ricciardi

Maurizio de Giovanni

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  1. 304 páginas
  2. Italian
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La condanna del sangue

La primavera del commissario Ricciardi

Maurizio de Giovanni

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Índice
Citas

Información del libro

Il romanzo dell'amore di madre.
Che succede a giocare con le illusioni, a cancellare i sogni?
Una cartomante e un'usuraia, nella stessa persona: inventare il futuro e sbriciolarlo tra le dita. Mentre la città si apre alla primavera, nel solito trionfo di profumi e canzoni, il piú tenero degli amori diventa la peggiore delle condanne: e spegne nel sangue anche il ricordo di un'antica passione. *** In nuova edizione l'intero ciclo delle «stagioni»: le prime quattro storie del commissario Ricciardi.
In ogni volume, in postfazione, l'autore dialoga con i suoi personaggi principali: lo stesso Ricciardi, che ha il dono, o la condanna, di sentire il dolore, vedere i morti di morte violenta e ascoltare le loro ultime parole; il brigadiere Maione, suo compagno di avventure; Bambinella, il femminiello che sa tutte le voci della città; e il razionale, umanissimo dottor Modo.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2021
ISBN
9788858438329

La condanna del sangue

Al bambino
nella carrozzina:
mio padre

I.

Nessuno poteva saperlo, ma quel pomeriggio c’era stata l’ultima pioggia dell’inverno. La strada rifletteva il fioco chiarore delle lampade sospese, ferme nell’aria senza piú vento. L’unica luce a quel punto della sera proveniva dal locale del barbiere. All’interno, un uomo lucidava l’ottone di uno specchio.
Ciro Esposito possedeva un ferreo orgoglio professionale. Aveva imparato il mestiere da bambino, spazzando tonnellate di capelli dal pavimento del negozio che era stato di suo nonno e poi di suo padre, trattato né piú né meno come gli altri lavoranti, anzi, con qualche schiaffone in piú, quando tardava un secondo a porgere il rasoio o un panno umido. Però gli era servito. Adesso, come allora, il suo salone contava clienti non solo del quartiere Sanità, ma anche della distante Capodimonte. Con loro aveva un ottimo rapporto: sapeva bene che dal barbiere si andava non soltanto per i capelli e la barba, ma soprattutto per un momento di libertà da lavoro e mogli e, in qualche caso, anche dal partito. Aveva sviluppato quella sensibilità speciale che gli consentiva di chiacchierare o restare zitto e di avere sempre un commento sugli argomenti che la gente preferiva.
Era diventato un notevole conoscitore di pallone, donne, soldi e prezzi, onore e disonore. Evitava la politica, di quei tempi terreno pericoloso. A un ambulante di frutta era capitato di lamentarsi perché non riusciva a procurarsi facilmente la merce: quattro tipi mai visti nel quartiere gli avevano sfasciato il carretto, dandogli del «porco disfattista». Evitava anche i pettegolezzi, non si poteva mai essere sicuri. Era fiero della convinzione che il suo salone fosse una specie di circolo, e proprio per questo lo preoccupava il fatto che l’episodio di un mese prima gettasse un’ombra sulla sua onorata attività.
Un uomo si era ammazzato, nel suo negozio. Si trattava di un vecchio cliente, frequentava il salone quando c’era ancora suo padre. Una persona gioviale, espansiva, sempre a lamentarsi della moglie, dei figli, dei soldi che non bastavano mai. Un impiegato statale, non ricordava di quale settore, o forse non l’aveva mai saputo. Ultimamente si era fatto torvo, distratto, non parlava piú né rideva alle rinomate barzellette di Ciro: la moglie lo aveva lasciato portandosi via i due figli.
Era successo che, senza preavviso, mentre lui passava con cura il rasoio sulla basetta sinistra, gli aveva abbrancato il polso e con un solo, deciso colpo si era tagliato la gola, da un orecchio all’altro. Fortuna che erano presenti il suo lavorante e due clienti, altrimenti sarebbe stato impossibile far credere alle guardie e al magistrato che si era trattato di un suicidio. Aveva subito ripulito tutto e il giorno successivo aveva tenuto chiuso il negozio, attento a non far trapelare niente. Il morto era di un altro quartiere e questo aveva aiutato. In una città tanto superstiziosa, ci voleva poco a farsi la fama sbagliata.
A questo pensava Ciro Esposito, quell’ultima sera d’inverno, quando terminate le pulizie si preparava a serrare i due pesanti battenti di legno che proteggevano la porta del salone. Era l’unico che finiva di lavorare cosí tardi, a via Salvator Rosa. Ma la giornata non era ancora terminata. Un uomo, mormorando un saluto, entrò nel locale.
Ciro lo riconobbe: era uno dei clienti piú strani. Magro, di statura media, taciturno. Una trentina d’anni; colorito scuro e labbra sottili. Anonimo in tutto, se non per gli occhi, verdi, vitrei, e per il fatto che non portava mai il cappello, nemmeno in pieno inverno.
Quel poco che sapeva di lui acuiva il disagio che la sua presenza gli procurava; non erano tempi di scontentare i clienti, specie quelli abituali, ma questo, in particolare, non era tra i piú semplici. Salutava, si sedeva, chiudeva gli occhi come se dormisse, dritto sulla poltroncina, come imbalsamato.
– Buonasera, dottore. Che facciamo?
– Solo i capelli, grazie. Non troppo corti. Una cosa svelta.
– Sissignore: subito subito ve ne faccio andare. Accomodatevi.
L’uomo si sedette. Si guardò rapidamente attorno e Ciro lo vide trasalire, trattenendo un attimo il respiro. Era suggestione, o aveva guardato la sedia in fondo al salone, quella del morto? Il barbiere pensò che la sua stava diventando una fissazione: gli sembrava che tutti quelli che entravano scorgessero le macchie di sangue che aveva rimosso con tanta pazienza.
Con un gesto secco, il cliente si tolse dalla fronte la ciocca di capelli ribelli che gli arrivava sul naso sottile. Alla luce artificiale sembrava piú pallido, come sofferente di fegato: il colorito bruno, adesso, pareva giallastro. L’uomo sospirò e chiuse di nuovo gli occhi.
– Dottore, vi sentite bene? Vi posso offrire un bicchiere d’acqua?
– No, no. Per favore, fate presto.
Ciro cominciò a sforbiciare sulla nuca, con velocità. Non poteva sapere che cosa l’altro, a occhi chiusi, cercava di non guardare.
Seduto in fondo alla sala, egli vedeva un uomo, la testa china, le mani abbandonate sulle gambe, un panno nero allacciato dietro il collo, lo sguardo rivolto allo specchio sulla parete. Subito sopra il panno, un enorme taglio, come un sorriso disegnato da un bambino, dal quale ribolliva ritmica un’onda di sangue. Da dietro le palpebre serrate, percepí il cadavere girare piano il capo verso di lui: il leggero schiocco delle vertebre del collo, lo sfregamento umido delle labbra della ferita.
Voglio vedere che dice adesso, la puttana. Adesso che ha tolto il padre ai figli.
Il cliente portò la mano alla tempia. Ciro era sempre piú a disagio: a quell’ora della sera non passava piú nessuno e quello sfaticato del suo lavorante se n’era andato da un pezzo. Cos’altro poteva accadere? Le forbici sferragliarono sempre piú rapide. L’uomo teneva le palpebre chiuse con forza, il barbiere scorse perle di sudore sulla sua fronte. Forse aveva la febbre.
– Abbiamo quasi finito, dotto’. Due minuti e ve ne faccio andare.
Dal fondo della sala, il morto ripeteva il suo lamento. Fuori, oltre la porta spalancata, la strada taceva e la primavera aspettava. L’aria sembrava sospesa.
L’uomo udiva il ticchettio delle forbici come chele impazzite, era determinato a non ascoltare. Ma che vuoi vedere? Non vedrai mai piú niente, adesso. Né che dice la puttana, né qualsiasi altra cosa.
Il barbiere con un profondo respiro slacciò il panno dal collo del cliente.
– Ecco, dotto’: pronto per voi.
Dopo aver gettato alcune monete sul tavolino che faceva da cassa, l’uomo uscí cercando aria. Si sentiva soffocare.
La sera abbracciò umida Luigi Alfredo Ricciardi, commissario di pubblica sicurezza presso la squadra mobile della regia questura di Napoli. L’uomo che vedeva i morti.
Tonino Iodice era rientrato a casa da moglie, madre e tre figli. La giornata era stata pessima. Come ogni sera, si era fermato nell’androne del vecchio palazzo di via Montecalvario per indossare la sua maschera, quella del padre di famiglia stanco ma soddisfatto, uno a cui le cose non andavano male. Sapeva che non era giusto ma lo faceva per il loro bene, non voleva buttare quel peso anche sulle loro spalle.
Toccava a lui stare tutta la notte a fissare il soffitto e ascoltare il respiro della sua famiglia, un altro giorno di quiete, chissà fino a quando potremo tirare avanti. Toccava a lui fare e rifare i conti, sempre gli stessi soldi e sempre gli stessi giorni, aspettando la data di scadenza della cambiale, cercando le parole con cui avrebbe tentato di convincere la vecchia a dargli un’altra possibilità.
Tonino aveva avuto un carretto di pizzaiolo e, a ripensarci ora, non se la passava male. Il guaio era stato non averlo capito, aver voluto cambiare. Si svegliava il mattino alle cinque, preparava la pasta e l’olio, metteva in ordine il carretto, si copriva per quanto possibile se c’era freddo oppure si rassegnava allo schiaffo del sole infame d’estate, e si avviava per la città. Sempre la stessa strada, le stesse facce, gli stessi clienti.
Gli volevano bene, a Tonino: cantava a voce alta, una bella voce, glielo diceva sua madre e glielo dicevano i clienti. Prendeva in giro le belle signore, fingeva di esserne innamorato, quelle ridevano e gli dicevano: va bene, va’, Toni’, damme ’sta pizza e vattenne. Era uno di quelli che portava il buonumore, col suo carrettino, col fischio e la voce, e i poliziotti si giravano dall’altra parte, senza chiedergli se avesse permessi e licenze; anzi, a volte si avvicinavano e lui offriva loro la pizza, pe’ senza niente, senza farsi pagare. Passavano i mesi e gli anni, si era sposato e la sua bella Concettina era allegra e povera piú di lui. Erano venuti Mario, Giuseppe e Lucietta, uno appresso all’altro, belli come la mamma e rumorosi come il papà, però affamati come tutti e due messi insieme. E col carretto aveva cominciato a non farcela piú.
Era stato allora che Tonino si era convinto che se non ci provava, a fare qualcosa di meglio, sarebbero andati incontro alla fame. E poi nessuno lo diceva, ma erano diventati tutti piú poveri e ci si arrangiava per mettere qualcosa sotto i denti. I clienti diminuivano, e con la pizza a otto giorni, mangi oggi e paghi tra una settimana, molti mangiavano e sparivano.
Cosí, aveva pensato che a pranzo fuori vanno i ricchi e che i ricchi si vogliono sedere a tavola, sentire il posteggiatore col mandolino, bere e fare festa. Il vecchio maniscalco del vicolo San Tommaso andava in pensione e cedeva il locale. Lí dentro entravano almeno due tavoli lunghi e uno piccolo, forse pure due: all’inizio lui avrebbe fatto le pizze e Concetta avrebbe servito; poi, quando le cose fossero andate meglio, Mario, il piú grande, avrebbe dato una mano.
Raccolti i risparmi di mammà e chiesto a parenti e amici tutto quello che si poteva chiedere, mancavano ancora un sacco di soldi. Venduto il carretto, non si poteva certo tornare indietro. Cosí un amico gli aveva detto che c’era una vecchia alla Sanità che prestava soldi con poco interesse, e a tempo lungo.
C’era andato, dalla vecchia, e l’aveva convinta, era bravo a convincere la gente, e con le donne anziane lo era ancora di piú: aveva ottenuto i soldi che gli servivano e sei mesi prima aveva aperto la pizzeria.
All’inaugurazione erano venuti tutti, parenti, amici e conoscenti. La vecchia no, gli aveva detto che non le piaceva uscire di casa. Erano venuti e avevano mangiato, quel giorno e il giorno dopo, per buon augurio, e lui non si era fatto pagare. Solo che poi non si era visto piú nessuno.
Tonino capí che l’invidia colpisce piú delle scoppettate, come dicevano i vecchi, e avevano ragione. Certo ogni tanto passava qualcuno e si fermava, ma il locale non si affacciava su una via principale, bisognava conoscerlo per arrivarci: e nessuno lo conosceva. Man mano che passavano i giorni e poi i mesi, Tonino si rese conto di aver fatto una fesseria: troppi soldi spesi per allestire e preparare, soldi che non sarebbero tornati piú. La vecchia dopo tre mesi aveva rinnovato il prestito per altri due, aumentando l’interesse, poi gli aveva concesso una proroga di un solo mese e l’aveva cacciato di casa gridando; lo aveva avvertito, era l’ultima scadenza, avrebbe dovuto pagare.
Tonino aprí la porta e Lucietta gli saltò in braccio, riempiendolo di baci: era sempre la prima a sentirlo arrivare. Lui la tenne stretta e, col sorriso stampato sulla faccia, andò incontro al resto della famiglia. Il cuore gli si stringeva in petto. L’indomani la cambiale scadeva, per l’ultima volta. E lui non arrivava nemmeno a metà della somma.

II.

La primavera arrivò a Napoli il 14 aprile 1931, poco dopo le due del mattino.
Arrivò in ritardo e, come al solito, con un colpo di vento nuovo dal Sud, dopo un acquazzone. Se ne accorsero per primi i cani, nei cortili delle masserie del Vomero e nei vicoli vicino al porto; alzarono il muso, annusarono l’aria e, sospirando, si rimisero a dormire.
Il suo arrivo passò sotto silenzio, mentre la città si prendeva quel paio d’ore di riposo tra la notte fonda e il primo mattino. Non ci furono feste né rimpianti. La primavera non pretese accoglienze, non richiese applausi. Invase le strade e le piazze. E si fermò paziente fuori dalle porte e dalle finestre serrate, ad aspettare.
Rituccia non dormiva: faceva finta. A volte funzionava. A volte lui si fermava a guardarla e poi tornava sul soppalco. Allora lei sentiva il rumore del vecchio letto, lui che si rigirava, e poi il russare rasposo, un suono orribile che a lei sembrava bellissimo perché le evitava l’orrore. A volte. A volte le era concesso di dormire.
Ma quella notte la primavera aveva bussato alla finestra, mescolando quel sangue inacidito dal vino da pochi soldi della taverna in fondo al vicolo. Fingere di dormire non le serví. Come ogni volta, a sentirsi addosso le mani del padre, pensò alla mamma. E la maledisse per essere morta.
Carmela si lamentò nel sonno: l’artrite era un ferro infuocato che le squassava le ossa. Non aveva freddo, la pesante coperta la riparava e non c’era umido sulle pareti. Fosse stata sveglia, piuttosto che immersa in un sonno senza sogni, la vecchia avrebbe guardato con orgoglio la carta da parati a fiori che aveva fatto mettere da non molto. Fosse stata sveglia, avrebb...

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