Fuga in Europa
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Stephen Smith

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Fuga in Europa

Stephen Smith

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L'Europa sta invecchiando e si sta spopolando. L'Africa è piena di giovani e di vita. La migrazione di massa, appena iniziata, è per modalità e dimensioni la sfida piú drammatica del ventunesimo secolo. L'Unione Europea conta oggi 510 milioni di abitanti che invecchiano; l'Africa un miliardo e 250 milioni, il 40% dei quali ha meno di quindici anni. Nel 2050, ci saranno 450 milioni di europei contro 2 miliardi e mezzo di africani. Da qui al 2100, tre persone su quattro del mondo saranno nate a sud del Sahara. L'Africa «sta emergendo» e, uscendo dall'assoluta povertà, si mette in marcia. Se gli africani replicheranno ciò che è sempre avvenuto e avviene nella storia dell'umanità, fra trent'anni l'Europa avrà dai 150 ai 200 milioni di afro-europei, rispetto ai 9 milioni odierni. Una pressione migratoria di questa portata sottoporrà l'Europa a una prova senza precedenti, col rischio di portare al parossismo la spaccatura tra élite cosmopolite e populisti difensori del suolo. Se lo stato sociale senza frontiere è una pia illusione, immaginare di fare del Mediterraneo il fossato di una «fortezza Europa» - erigendo intorno al continente della ricchezza e della sicurezza sociale dei muri per arrestare il flusso - dissolverebbe le basi stesse dell'Europa.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2018
ISBN
9788858429464
Capitolo quinto

L’Europa tra destinazione e destino

Per una massa critica di africani, per i quali le condizioni di vita sono oramai piú frustranti che disagiate, l’Africa s’è trasformata in un luogo di partenza. Quanti africani partiranno per l’Europa entro il 2050? Circa 150 milioni, come abbiamo visto, se l’Africa seguirà l’esempio del Messico quando uscí dalla povertà assoluta. Ma si tratta solamente di un ordine di grandezza che rimanda a un precedente storico. Per il momento, l’unica certezza è che sta preparandosi un «incontro migratorio» su ampia scala tra Africa ed Europa. In proporzioni dipendenti dalle circostanze, questo incontro sarà una scommessa sulla diversità: parola polivalente che andrà passata al vaglio con grande discernimento. Parola che divide: gli avversari della diversità sono sovente accusati di xenofobia, per non dire di razzismo; i partigiani della diversità, sono spesso accusati di voler indebolire l’identità nazionale o, per chi sia allergico a questo concetto, ciò che costituisce un collante in ambito statale, senza il quale la nazionalità si ridurrebbe a un contratto di locazione.
La migrazione africana assomiglia a una fontana dotata di piú vasche a straripamento. L’esodo rurale ha riversato in città centinaia di milioni di persone senza svuotare i villaggi, tanto alta è la crescita demografica; molti abitanti di villaggi si sono insediati nelle capitali, oramai «macrocefale», o in altri grandi poli urbani; alla ricerca di opportunità, molti hanno proseguito il cammino e attraversato frontiere per stabilirsi in un paese confinante, spesso nella metropoli; infine, con la progressiva costituzione di reti di «passatori», una quantità crescente di migranti abbandona il continente, perlopiú, ma non esclusivamente, per andare in Europa1, dove, nella prospettiva di trovare lavoro, diventa «braccia» o «cervelli» necessari, agli occhi di imprenditori, politici ed esperti, perché la diversità è una costrizione demografica. A loro avviso, giovane Africa e vecchio continente sono fatti l’una per l’altro. Lo youth bulge laggiú può compensare il pensioners’ bulge [rigonfiamento pensionistico] quassú. Gli africani potrebbero servire da «carne pensionistica» all’Europa che, in cambio, offrirebbe una via d’uscita a cadetti sociali impossibilitati a diventare grandi a casa loro.
Bisogna consentire agli africani di entrare in Europa? O bisogna «bloccarli» alle frontiere? Il vecchio continente sarebbe in grado di sopravvivere al fallimento del suo sistema pensionistico? Dove reperire le risorse per finanziare una previdenza sociale capace di accettare che un quarto almeno degli abitanti dell’Europa, piú della metà degli under trenta, siano africani nel 20502? Il dibattito sull’immigrazione è sempre stato a dir poco acceso e rischia di infiammarsi ulteriormente in futuro. Ogni parola è importante: sia per i suoi sottintesi, sia per i suoi significati espliciti, da cui i numerosi processi alle intenzioni e le requisitorie sostitutive delle argomentazioni. Gli uni temono costantemente di perdere la propria «anima», gli altri vogliono soprattutto dimostrare di averne una. In questo capitolo vorrei «de-moralizzare» il dibattito sulla migrazione africana in Europa. Non si tratta di scegliere tra il Bene e il Male ma di governare la polis nell’interesse dei suoi cittadini. Le migrazioni sono vecchie come il mondo ed è poco probabile che cessino. Il loro intensificarsi in direzione Africa verso Europa obbliga a ripartire da capo per costruire il piú ampio consenso possibile sulle politiche migratorie. Occorre prendere atto della pressione migratoria e utilizzarla come spunto per operare delle scelte: quali migranti accogliere e a quali condizioni? Due condizioni mi sembrano essenziali. Da una parte, non bisogna perdere il senso umanitario che si vuole sostenere nella lotta contro l’«invasione»; dall’altra, non bisogna sacrificare il proprio concittadino reale all’astrazione di un «uomo senza qualità», falsamente universale. In materia di immigrazione, l’irenismo umanitario mi sembra altrettanto pericoloso dell’egoismo nazionalista, del culto del sangue e del suolo.

1. Non bisogna fare i conti senza l’ospite.

Questo è il mio punto di vista iniziale: noi tutti siamo parti interessate nel grande popolamento in atto, sia come «persone che s’insediano altrove», in quanto migranti, sia come «persone che accolgono degli stranieri», in quanto ospiti. I migranti sono i pionieri di una nuova vita altrove. Abbandonano un luogo e si stabiliscono in un altro, ai loro occhi piú vantaggioso, a conclusione di un viaggio costellato di lasciapassare oppure costituito da un’odissea clandestina. In precedenza, per comodità, ho parlato di un duplice ruolo insito nella globalizzazione: uno attivo e l’altro passivo, distinzione che non è del tutto esatta perché il «globalizzatore» e il «globalizzato» hanno entrambi la capacità di agire, hanno entrambi un margine di manovra, ancorché differente. Per esempio: gli utenti africani hanno potuto appropriarsi della telefonia mobile in mille modi creativi, senza però essere padroni di questa nuova tecnologia comunicativa che è stata importata e continua a essere sviluppata, essenzialmente, all’estero. Possiamo quindi dire, per essere piú precisi, che la capacità di agire è distribuita in maniera diseguale nel mondo, in maniera altrettanto diseguale della ricchezza.
A queste ingiustizie se ne aggiunge un’altra, relativa alla distribuzione del «tempo del mondo», per dirla con lo storico Fernand Braudel, ossia l’ora contemporanea o, se si preferisce, la «contemporalità», che impone tanto all’immigrato quanto al suo ospite di regolare continuamente il pendolo. Un’imposizione profondamente perturbante. Oltre allo spazio, il migrante attraversa il tempo: si trova sia altrove, sia temporalmente sfasato. Deve adattarsi all’ora locale, il che è raramente il futuro che aveva sognato. Dal canto suo, l’ospite deve abituarsi a una temporalità introdotta, come per effrazione, nell’orizzonte a lui familiare. Quando il migrante proviene da un paese del Sud, questa temporalità gli rammenta, sovente, il proprio passato, salvo che per una sfumatura irritante: la «piccola differenza» che, secondo Freud, tormenta il narcisismo e può portare alla follia. L’ospite vede mutare il proprio orizzonte esistenziale senza avere traslocato, a causa della presenza di uno straniero diventato suo vicino senza condividere il suo rapporto col «tempo del mondo». Può facilmente accadergli, un giorno o l’altro, di fermarsi bruscamente nel suo quartiere, folgorato dall’impressione di essere diventato uno straniero nel suo paese. Se incollerito, dirà di essere «invaso».
L’arrivo di stranieri può importunare, la loro presenza può disturbare. Pretendere che non sia cosí mi sembra una petizione di principio idealistica e pericolosa in ordine al «lungo lavoro di accoglienza e aiuto, e [di] quello che significa in termini di lavoro su di sé e sugli altri», per dirla con lo scrittore Kamel Daoud che si premura di mettere in guardia da «una visione angelica che uccide»3. Né lo straniero, né l’ospite sono a priori «buoni» o «cattivi», «simpatetici» o «egoisti». Vengono a trovarsi, insieme, in una situazione che occorre cercar di capire al pari delle circostanze, ovviamente differenti per l’uno e per l’altro. La mancata assistenza a una persona in pericolo è un reato, a condizione di poter prestare aiuto senza esporsi a pericoli (ultra posse nemo obligatur). Al di là di questo caso limite, l’indifferenza non è in sé condannabile nella misura in cui la libertà di associazione non avrebbe senso se non implicasse la libertà di non associarsi. Per quanto attiene all’imperativo di aiutare i paesi del Sud, resta da stabilire (e lo faremo) se la causa della migliore distribuzione della ricchezza in questo mondo sia perseguita nel modo migliore accogliendo al Nord i transfughi da società disastrate quali sono i migranti. In ogni caso, al di là della risposta a questa domanda, la preoccupazione dell’equità internazionale non può confondersi con l’apertura delle frontiere a titolo di perequazione planetaria. Non è incoerente essere favorevoli all’equità internazionale e contrari alla totale apertura delle frontiere.
«Chi fa i conti senza l’ospite conta due volte»: ciò vale anche per la fattura dell’immigrazione. Accettiamo, pertanto, senza considerarla una genuflessione davanti all’altare dell’autoctonia, che l’ospite a casa propria sia nel suo pieno diritto, altrimenti l’ottenimento della nazionalità in un paese non significherebbe nulla. Il diritto di cittadinanza appartiene ai cittadini. Si può auspicare e anche proclamare la desuetudine dello Stato e delle sue frontiere, l’obsolescenza delle nazionalità. Per il momento, però, il passaporto funge da carta di adesione a un «club» che riserva ai suoi membri determinati diritti in cambio di determinati obblighi. Il modo in cui una comunità nazionale si definisce, in termini di patto di sangue o di contratto sociale liberamente accettato, con o senza religione di Stato, è irrilevante in questo contesto. Perché non si può dettare agli altri ciò che devono riconoscersi «in comune», soprattutto quando si tratta di un atto di candidatura per integrare la loro comunità. Non si aderisce a un club derogando alle sue regole, che possono essere rinegoziate solamente dopo esserne diventati membri. In casi estremi, come quello dello scrittore nazionalista Maurice Barrès che, nel 1888, affermò in Sous l’œil des barbares, «difendo il mio cimitero. Ho abbandonato tutte le mie altre posizioni», non c’è altra scelta se non lasciare che il rifiuto dell’altro si scavi la fossa.
Dayo Olopade sostiene che «la cartografia dell’odierna diaspora africana è speculare alla cartografia del colonialismo»4. Si capisce ciò che intende dire. Tuttavia, significa anche dimenticare non soltanto la tratta dei negri e le realtà che ne sono derivate, quali «l’Atlantico nero», ma anche fare della «postcolonialità» una parentesi per sempre aperta. Ora, il colonialismo, a sud del Sahara, è durato non piú di un’ottantina d’anni e, salvo ignorare la storia africana precedente e posteriore, non può definire il continente ad infinitum. Certo, una maggiore «familiarità» continua a mantenere un qualche legame tra nigeriani o sudafricani e Gran Bretagna, tra senegalesi o centroafricani e Francia, tra angolani o mozambicani e Portogallo, tra congolesi della Repubblica Democratica del Congo e Belgio, lola, «cielo», in lingua lingala. Ma, in primo luogo, la familiarità postcoloniale ha le sue ferite profonde. In secondo luogo, da oramai mezzo secolo alcune ex colonie hanno orientato le loro antenne in un’altra direzione. Per esempio, Kinshasa le ha orientate verso la Francia e gli Stati Uniti, Kigali ha persino avuto il tempo di orientarle prima in direzione di Parigi e poi di Washington e Londra, anche a costo di cambiare la sua lingua ufficiale. Al di fuori del continente africano, nessuno sosterrebbe che i vietnamiti, da sudditi postcoloniali, fanno gravitare il loro mondo unicamente intorno alla Tour Eiffel.
So bene che le relazioni tra la Francia e le sue ex colonie a sud del Sahara sono un’eccezione sotto molti aspetti, in particolare a motivo di una politica di assimilazione che ha cementato una connivenza tra le élite e un prolungamento della tutela francese ben oltre l’indipendenza, grazie alla guerra fredda e a un subappalto geopolitico per conto del «mondo libero». Ma il rapporto postcoloniale Francia-Africa e la sua metamorfosi criminale, denominata Françafrique e caratterizzata dalla corruzione, sono diventati degli specchi deformanti che non riflettono piú la realtà e servono soltanto a rassicurare l’ex madrepatria e i suoi passati possedimenti della loro importanza, anche solo per il regno dell’«intrallazzo». Ora, l’Atlantide postcoloniale è sommersa dalla risacca delle giovani generazioni a sud del Sahara. I migranti vanno a caccia di opportunità in tutte le terre. Genova è oggi piú «africana» che un bel po’ di porti francesi o britannici; la percentuale di studenti subsahariani è piú elevata a Montréal che a Parigi o a Londra; e i sudanesi stabilitisi ad Atlanta, la città della Cnn e della Coca-Cola, non hanno perso la bussola come del resto gli etiopi o gli eritrei di Washington D.C. Nel gioco delle sedie oramai diffuso a livello planetario, la «postcolonialità» è una vecchia aria nota unitamente a nuove melodie spesso piú coinvolgenti. Il fatto coloniale continua a contare qualcosa solo perché delle diaspore, costituite da lunga data nel territorio delle ex potenze coloniali, funzionano da sportelli d’accoglienza per nuovi arrivati. Questa migrazione a catena alimenta talvolta il fantasma di una «colonizzazione a ritroso» sotto forma di «vendetta» migratoria. Viste dai lidi da cui salparono, le caravelle di ritorno si scambiano facilmente per naviglio da guerra.
«Eravamo nel profondo dell’Africa | Gelosi guardiani dei nostri colori | Quando, sotto un sole magnifico | Questo grido vittorioso risuonò |Avanti! Avanti! Avanti!» Questa canzone trova posto nel repertorio nazionale delle marce militari francesi e nella raccolta ufficiale dei canti dell’esercito. Invitati alla sfilata del 14 luglio 2013, reparti dell’esercito maliano l’hanno intonata marciando a passo cadenzato lungo gli Champs-Élysées. Perlomeno se ne dovrebbe ricordare il ritornello: «Siam noi gli africani | Che ritornan da lontano | Giungiam dalle colonie | Per salvare la Patria» o, secondo una variante, per «difendere il paese». Con questo Chant des Africains come inno, l’«Armée B» francese, al comando del generale Jean de Lattre de Tassigny, partecipò a fianco della VII Armata statunitense allo sbarco in Provenza, dal 15 agosto 1944. La metà delle truppe «francesi» si componeva di reparti coloniali africani, soprattutto magrebini; l’altra metà di soldati di «origine europea», per nove decimi coloni provenienti, a loro volta, dall’Africa e, in particolare, dall’Africa del Nord. Il nome in codice dell’operazione – Anvil Dragoon – rifletteva perfettamente la situazione di questi africani di tutti i colori, presi tra l’incudine (Anvil) e il martello, come doveva esserlo, del resto, l’esercito tedesco in seguito al doppio sbarco degli Alleati in Normandia e in Provenza. E lo erano tanto piú perché molti di loro sbarcarono sulle spiagge mediterranee altrettanto costretti e forzati – dragooned –, come si sentiva Churchill che avrebbe invece voluto attaccare le truppe tedesche con una manovra a tenaglia nell’Europa centrale per arrivare a Berlino prima dei sovietici. Churchill insistette affinché il nome dell’operazione di sbarco ricordasse che gli era stata forzata la mano.
Il Mare nostrum, condiviso da Africa, Europa e Vicino Oriente, non è solamente un luogo della memoria o, ai nostri giorni, un mare da attraversare a bordo di imbarcazioni di fortuna. È, altresí, una rada gigantesca per imbarcazioni fantasmatiche di immaginari collettivi. Sulle stesse spiagge comprese tra Nizza e Tolone, dove sbarcarono dei colonizzati giunti per liberare la «loro» madrepatria, lo scrittore Jean Raspail ha scaricato nel 1973 – anno dello «shock petrolifero» che segnò la fine dei Trenta gloriosi e lanciò l’appello alla manodopera immigrata… – un milione di «sventurati» che avrebbero sommerso la Francia e travolto la civiltà occidentale. Lo fece nel romanzo Il campo dei santi, moltiplicando i riferimenti all’Apocalisse di san Giovanni. Non menziono questo libro per rinverdire la polemica che ha suscitato e continua ad alimentare a ogni ristampa, né per giocare a rimpiattino con questa allegoria e la realtà5: ritengo infatti che quest’opera di finzione non sia diventata una profezia perché nel 2015 un milione di migranti ha attraversato il Mediterraneo. Il campo dei santi, tuttavia, ha un suo interesse poiché conferisce nuova attualità all’immaginario dell’«invasione barbarica», nello stesso modo in cui Sottomissione, il romanzo di Michel Houellebecq, che racconta la presa del potere in Francia da parte di islamisti «moderati», conferisce nuova attualità all’immaginario della conquista musulmana. In entrambi i casi, l’avvenire è tanto piú spaventoso perché coniuga il revisionismo storico con il futuro anteriore: il lettore è precipitato in un mondo in cui Carlo Martello sarebbe stato stracciato, in cui l’Europa, assal...

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