Le origini del totalitarismo
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Le origini del totalitarismo

Hannah Arendt, Simona Forti, Amerigo Guadagnin

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Le origini del totalitarismo

Hannah Arendt, Simona Forti, Amerigo Guadagnin

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Le origini del totalitarismo (1951) è un classico della filosofia politica e della politologia del Novecento. Per la Arendt il totalitarismo rappresenta il luogo di cristallizzazione delle contraddizioni dell'epoca moderna e insieme la comparsa in Occidente di un fenomeno radicalmente nuovo. Le categorie tradizionali della politica, del diritto, dell'etica e della filosofia risultano inutilizzabili; quanto avviene nei regimi totalitari non si può descrivere nei termini di semplice oppressione, di tirannide, di illegalità, di immoralità o di nichilismo realizzato, ma richiede una spiegazione «innovativa». Lungi dal presentare una struttura monolitica, l'apparato istituzionale e legale totalitario deve rimanere estremamente duttile e mobile, al fine di permettere la piú assoluta discrezionalità. Per questo gli uffici vengono moltiplicati, le giurisdizioni tra loro sovrapposte e i centri di potere continuamente spostati. Soltanto il capo, e una cerchia ristrettissima di collaboratori, tiene nelle sue mani gli ingranaggi effettivi della macchina totalitaria. Nelle Origini tale macchina viene smontata e analizzata pezzo per pezzo: i metodi propagandistici, le formule organizzative, l'apparato statale, la polizia segreta, il fattore ideologico e, infine, il campo di sterminio, istituzione suprema e caratteristica di ogni regime totalitario.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2017
ISBN
9788858426647
Categoría
Philosophy
Parte seconda

L’imperialismo

Annetterei i pianeti se potessi.
Cecil Rhodes
Capitolo quinto

L’emancipazione politica della borghesia

I tre decenni che vanno dal 1884 al 1914 separano il XIX secolo, conclusosi con la corsa alla conquista dell’Africa e la nascita dei pan-movimenti, dal XX, apertosi con la prima guerra mondiale. Si usa indicarli come l’epoca dell’imperialismo, caratterizzata da una quiete stagnante in Europa e da una frenetica ridda di avvenimenti in Asia e in Africa1. Taluni suoi aspetti fondamentali appaiono cosí vicini ai fenomeni totalitari del XX secolo che si è tentati di considerare l’intero periodo come la quiete che precede la tempesta, una fase preliminare delle successive catastrofi. D’altronde, la tranquillità e la sicurezza sono ancora cosí predominanti nella coscienza dei suoi uomini politici che quasi tutte le fonti ufficiali, anche quando si tratta di documenti rivoluzionari, parlano chiaramente il linguaggio del XIX secolo. Ci è difficile guardare con occhio non prevenuto questo passato recente, eppure già cosí lontano, perché conosciamo la fine di questa storia e sappiamo che essa ha portato a una rottura quasi completa con tutte le tradizioni dell’occidente. Peraltro, dobbiamo ammettere una certa nostalgia per questa «età aurea della sicurezza» (Stefan Zweig), in cui persino la crudeltà e l’orrore osservavano ancora determinate regole, non superavano determinati limiti e, tutto sommato, si poteva ancora contare sul buon senso. Cosí vicini come siamo cronologicamente a questo passato, le nostre esperienze politiche, i campi di concentramento e le fabbriche della morte, ce lo rendono non meno remoto degli altri periodi della storia occidentale.
In Europa il fatto centrale dell’epoca imperialista fu l’emancipazione politica della borghesia, che fino allora era stata la prima classe nella storia a conquistare la preminenza economica senza aspirare al dominio politico. La borghesia si era sviluppata di pari passo con lo stato nazionale, nel suo ambito; e per principio questo rimaneva al di sopra di una società divisa in classi, la governava. Anche dopo essersi affermata come classe dominante, essa gli aveva lasciato le decisioni politiche. Soltanto quando lo stato nazionale si dimostrò una struttura inadatta per l’ulteriore espansione dell’economia capitalista, il conflitto latente fra stato e società si trasformò in una lotta aperta per il potere. Durante l’epoca dell’imperialismo nessuna delle due parti conseguí una vittoria decisiva. Le istituzioni nazionali resistettero dovunque alla brutalità e megalomania delle aspirazioni imperialistiche, e i tentativi della borghesia di usare lo stato e i suoi strumenti di violenza per i propri scopi economici ebbero solo in parte successo. Ciò cambiò quando la borghesia tedesca puntò tutte le sue carte sul movimento hitleriano nella speranza di ottenere il potere con l’aiuto della plebaglia. Era comunque già troppo tardi. Essa riuscí a distruggere lo stato nazionale, ma la sua fu una vittoria di Pirro, perché la plebaglia si rivelò desiderosa e capace di assumere in proprio la guida politica e la esautorò insieme con le altre classi e istituzioni.

Espansione e stato nazionale

«L’espansione è tutto», diceva Cecil Rhodes, e si rammaricava al vedere ogni notte in cielo «le stelle… questi vasti mondi che non si possono mai raggiungere. Annetterei i pianeti se potessi»2. Egli aveva scoperto il principio basilare della nuova epoca: in meno di due decenni i possedimenti coloniali britannici si arricchirono di 4 milioni e mezzo di miglia quadrate e 66 milioni di abitanti, quelli francesi di 3 milioni e mezzo di miglia quadrate e 26 milioni di abitanti; nel frattempo i tedeschi crearono un nuovo impero di un milione di miglia quadrate e 13 milioni di indigeni, e il Belgio, mercé l’iniziativa strettamente personale del re, acquistò un territorio di 900 mila miglia quadrate con una popolazione di 8 milioni e mezzo3. Eppure, in uno sprazzo di saggezza Rhodes riconobbe l’intrinseca follia del principio e il suo contrasto con la condizione umana. Naturalmente, né l’intuizione né la tristezza ne modificarono la politica. Egli non sapeva cosa farsene dei lampi di saggezza che lo portavano cosí oltre le normali capacità di un affarista ambizioso con una marcata tendenza alla megalomania.
«La politica mondiale è per una nazione quel che la megalomania è per l’individuo»4, disse Eugen Richter, il capo del partito progressista tedesco, pressappoco nello stesso momento storico, e a proposito dello stesso fenomeno. Ma la sua opposizione alla proposta bismarckiana di appoggiare le compagnie private nella creazione di basi commerciali e marittime mostrava chiaramente che egli capiva ancor meno di Bismarck le necessità economiche nazionali. Coloro i quali combattevano o ignoravano l’imperialismo (Eugen Richter in Germania, Gladstone in Inghilterra, Clemenceau in Francia) sembravano aver perso il contatto con la realtà, e non rendersi conto che il commercio e l’economia avevano già coinvolto ogni paese nella politica mondiale. Il principio nazionale portava al provincialismo, e la battaglia contro la follia di una politica che poteva reggere solo se continuava nel movimento espansionistico era perduta.
Gli statisti che si opponevano coerentemente all’espansione imperialista rimanevano immuni da tale follia, ma commettevano pesanti errori. Cosí Bismarck, nel 1871, aveva respinto l’offerta dei possedimenti francesi in Africa in cambio dell’Alsazia-Lorena, e vent’anni dopo acquistò Helgoland cedendo alla Gran Bretagna l’Uganda, Zanzibar e Vitu: due regni per una vasca da bagno, come gli rimproverarono, non senza ragione, gli imperialisti tedeschi. Cosí negli anni ottanta Clemenceau attaccò il «partito degli agiati», dalla mentalità imperialistica, che voleva inviare in Egitto un corpo di spedizione contro gli inglesi, e trent’anni dopo, nell’interesse di un’alleanza anglo-francese, cedette alla Gran Bretagna i pozzi petroliferi di Mossul. Cosí Gladstone venne accusato da Cromer in Egitto di essere un uomo a cui non si potevano tranquillamente affidare i destini dell’impero britannico.
Era abbastanza comprensibile che degli statisti, i quali ragionavano principalmente dal punto di vista del territorio nazionale, diffidassero dell’imperialismo; solo che era in gioco molto piú di quelle che definivano «avventure d’oltremare». Essi sapevano per istinto, piú che per ragionamento, che questo nuovo movimento d’espansione, in cui il patriottismo si manifestava «nel modo piú utile ed efficace col guadagnar denaro» (Hübbe-Schleiden), e la bandiera nazionale era registrata come un «attivo commerciale» (Rhodes), avrebbe finito per distruggere il corpo politico dello stato nazionale. Nella storia piú recente le imprese di conquista e la fondazione di imperi erano cadute in discredito per buone ragioni. Esse erano state compiute con successo soltanto da forme statali basate, come la repubblica di Roma, principalmente sul diritto, perché alla conquista era seguita l’integrazione dei popoli piú eterogenei mercé l’imposizione di una legge comune. Invece lo stato nazionale, basato sul consenso attivo di una popolazione omogenea al suo governo («le plébiscite de tous les jours»5), mancava di un simile principio unificatore e, in caso di conquista, doveva assimilare anziché integrare, imporre il consenso anziché la giustizia, cioè degenerare in tirannide. Già Robespierre se n’era reso conto quando aveva esclamato: «Périssent les colonies si elles nous en coûtent l’honneur, la liberté».
L’espansione come fine supremo e permanente era l’idea centrale dell’imperialismo. Poiché non implicava né il temporaneo saccheggio del territorio conquistato né la definitiva assimilazione dei suoi abitanti, era un concetto assolutamente nuovo nella storia. La sua originalità (che sorprendeva perché i concetti radicalmente nuovi sono rarissimi in politica) era invero apparente, dovuta al fatto che si trattava di un concetto non realmente politico, che traeva origine dal campo della speculazione commerciale, in cui espansione significava continuo ampliamento della produzione industriale e delle transazioni economiche caratteristiche del XIX secolo.
Nella sfera economica l’espansione era un concetto adeguato perché lo sviluppo industriale era una realtà operante. Essa significava aumento dell’effettiva produzione di beni da usare e consumare. Tali processi produttivi sono di per sé illimitati, trovano un limite soltanto nella capacità dell’uomo di produrre il suo mondo, organizzarlo, equipaggiarlo, migliorarlo. Quando nell’ultimo terzo del secolo scorso la produzione e lo sviluppo economico rallentarono, gli ostacoli non furono tanto economici quanto politici: la rivoluzione industriale urtava contro i confini del territorio nazionale, la fabbricazione e la distribuzione dei suoi prodotti dovevano fare i conti con una molteplicità di popoli organizzati in sistemi politici molto diversi.
L’imperialismo nacque quando la classe dominante cozzò contro le limitazioni nazionali all’espansione dei suoi affari. La borghesia si dedicò alla politica spinta dalla necessità economica; perché, se non voleva buttare a mare il sistema capitalistico, basato sulla legge del costante sviluppo industriale, doveva imporre questa legge ai rispettivi governi proclamando l’espansione come il fine ultimo della politica estera.
Con la parola d’ordine «espansione per l’espansione» cercò di indurre i governi nazionali a porsi sul piano della politica mondiale. Non ci riuscí mai del tutto. Da principio il nuovo indirizzo proposto sembrò condurre a una specie di equilibrio naturale, perché piú nazioni lo adottarono contemporaneamente, in competizione l’una con l’altra. Nella sua fase iniziale l’imperialismo poté ancora apparire in realtà come una lotta fra «imperi concorrenti», ed essere distinto dall’«idea d’impero nell’antichità e nel Medioevo, che concerneva una federazione di stati soggetti all’egemonia di uno di essi, e abbracciava… l’intero mondo conosciuto»6. Tuttavia tale competizione era soltanto uno dei molti residui del passato, una concessione al principio nazionale ancora dominante, secondo cui l’umanità era una famiglia di popoli gareggianti fra loro, o alla convinzione liberale che la libera concorrenza stabilisse automaticamente i propri limiti, proteggendo il «gioco delle libere forze» e impedendo che un concorrente liquidasse tutti gli altri. Lungi dall’essere il risultato inevitabile di misteriose leggi economiche, questo felice gioco delle forze dipendeva abbondantemente, là dove sussisteva, dalle istituzioni politiche, giuridiche e poliziesche, che precludevano ai concorrenti l’uso della pistola. Una competizione fra giganteschi complessi economici, che orgogliosamente si fregiavano del titolo di «impero» ed erano armati fino ai denti, non poteva concludersi che con la vittoria di uno e la morte degli altri. Infatti la concorrenza, al pari dell’espansione, non racchiude in sé un principio politico; entrambe hanno bisogno di un potere politico che le freni e le controlli.
La struttura politica, a differenza di quella economica, non può espandersi all’infinito, perché non si basa sulla produttività umana, che è invero illimitata. Di tutte le forme di ordinamento statale, quella nazionale è la meno adatta all’estensione perché il consenso che ne è alla base viene difficilmente ottenuto da popoli sottomessi. Uno stato nazionale non potrebbe mai soggiogare popoli stranieri mantenendo pulita la sua coscienza, perché ciò è possibile soltanto quando il conquistatore è convinto di imporre una legge superiore a dei barbari7. Esso, invece, concepisce la sua legge come il distillato di una sostanza nazionale unica che non vale fuori del suo popolo e oltre i confini del suo territorio.
Dovunque si è presentato nella veste di conquistatore, ha infatti destato la coscienza nazionale e la volontà d’indipendenza nel popolo vinto, mandando a monte il tentativo di costruzione di un impero duraturo. Cosí i francesi trattarono l’Algeria come una provincia del territorio metropolitano, ma non poterono imporre le proprie leggi alla popolazione araba. Continuarono a rispettare la legge islamica e accordarono ai loro cittadini musulmani lo statut personnel, creando l’assurdo ibrido di un territorio nominalmente francese, che era giuridicamente parte integrante della Francia quanto il dipartimento della Senna, ma i cui abitanti non erano cittadini francesi.
I «costruttori imperiali» inglesi, fiduciosi nella conquista come metodo permanente di governo, non riuscirono mai a incorporare i loro immediati vicini, gli irlandesi, nell’ampia struttura del British Empire o del Commonwealth of Nations. E quando, dopo la prima guerra mondial...

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