Le voci delle cose
eBook - ePub

Le voci delle cose

Progetto idea destino

Maurizio Vitta

Compartir libro
  1. 256 páginas
  2. Italian
  3. ePUB (apto para móviles)
  4. Disponible en iOS y Android
eBook - ePub

Le voci delle cose

Progetto idea destino

Maurizio Vitta

Detalles del libro
Vista previa del libro
Índice
Citas

Información del libro

La cultura moderna ha ridotto la fitta presenza degli oggetti d'uso nella nostra esistenza quotidiana a due figure principali, la funzione e la forma, il corpo tecnico e il design. Ma la definizione è incompleta. In realtà, l'oggetto è la risultante di una serie di forze disparate, che in esso convergono, interagendo in profondità con la nostra storia. Questo libro prende in esame la realtà multiforme dell'oggetto quotidiano, all'inizio evocato dal bisogno, e poi via via immaginato nel desiderio, definito nella funzione, disegnato nel progetto, realizzato nella produzione, distribuito come merce, classificato nel comportamento di consumo, vissuto nell' uso, apprezzato nel godimento estetico e infine, non di rado, esaltato come bene culturale. Ciò che a prima vista sembrava una «cosa» inerte, si rivela dunque un essere proteiforme, generatore di energie semantiche, simboliche, estetiche, tecniche, economiche, culturali, fra le quali il problema della forma acquista valenze sempre diverse. Non è un «oggetto» quello che appare in questa prospettiva: è un evento, che si dipana dinanzi ai nostri occhi in una trasformazione continua, e che pure resta sempre inflessibilmente uguale a se stesso.

Preguntas frecuentes

¿Cómo cancelo mi suscripción?
Simplemente, dirígete a la sección ajustes de la cuenta y haz clic en «Cancelar suscripción». Así de sencillo. Después de cancelar tu suscripción, esta permanecerá activa el tiempo restante que hayas pagado. Obtén más información aquí.
¿Cómo descargo los libros?
Por el momento, todos nuestros libros ePub adaptables a dispositivos móviles se pueden descargar a través de la aplicación. La mayor parte de nuestros PDF también se puede descargar y ya estamos trabajando para que el resto también sea descargable. Obtén más información aquí.
¿En qué se diferencian los planes de precios?
Ambos planes te permiten acceder por completo a la biblioteca y a todas las funciones de Perlego. Las únicas diferencias son el precio y el período de suscripción: con el plan anual ahorrarás en torno a un 30 % en comparación con 12 meses de un plan mensual.
¿Qué es Perlego?
Somos un servicio de suscripción de libros de texto en línea que te permite acceder a toda una biblioteca en línea por menos de lo que cuesta un libro al mes. Con más de un millón de libros sobre más de 1000 categorías, ¡tenemos todo lo que necesitas! Obtén más información aquí.
¿Perlego ofrece la función de texto a voz?
Busca el símbolo de lectura en voz alta en tu próximo libro para ver si puedes escucharlo. La herramienta de lectura en voz alta lee el texto en voz alta por ti, resaltando el texto a medida que se lee. Puedes pausarla, acelerarla y ralentizarla. Obtén más información aquí.
¿Es Le voci delle cose un PDF/ePUB en línea?
Sí, puedes acceder a Le voci delle cose de Maurizio Vitta en formato PDF o ePUB, así como a otros libros populares de Design y Design General. Tenemos más de un millón de libros disponibles en nuestro catálogo para que explores.

Información

Editorial
EINAUDI
Año
2016
ISBN
9788858424360
Categoría
Design
Categoría
Design General
Capitolo terzo

Design, designer

1. La forma degli oggetti.

La forma degli oggetti d’uso sembra prendere il sopravvento nel momento in cui essi si dimenticano della propria utilità per abbandonarsi interamente al loro intrinseco narcisismo, non senza rinunciare tuttavia alla propria reale natura. Il fenomeno è noto nella storia dell’arte, ma in senso contrario. La vecchia formula di Alois Riegl, che vide «nell’opera d’arte il risultato di un Kunstwollen determinato e cosciente del suo scopo che si afferma lottando con lo scopo utilitario, la materia prima e la tecnica» risuona ancora, ma solo trasformata nel suo opposto. La polemica fra Heidegger, Shapiro e Derrida circa le scarpe scalcagnate dipinte ripetutamente da Van Gogh dà conto di questa contraddizione, ma la fa restare chiusa in un episodio ben conosciuto nell’arte, vale a dire la presenza degli utensili d’ogni tipo in opere la cui intenzione artistica risulta assai lontana da essi, ma che senza volerlo denuncia la loro insostituibile presenza. Il quadro di Chardin, La fontaine de cuivre, del 1734, restituisce nel suo enigmatico isolamento il senso di una pentola da cucina, vecchiotta e ammaccata, che occupa lo spazio pittorico con la dignità di una natura morta; gli arredamenti moderni che Roy Lichtenstein dipinse intorno al 1990 fanno di quel mobilio delle dramatis personae, non dei semplici pezzi d’arredo.
La forma degli oggetti d’uso si pone viceversa in un versante impervio e contraddittorio. La loro utilità, che nell’arte si cerca di nascondere pudicamente, qui diviene il loro principium individuationis: l’oggetto si dà all’esperienza estetica a partire dalla sua identità pratica, che però si colloca in disparte, come garanzia di una natura che si vuol essere discreta e silenziosa. In tal modo questa forma rinuncia alla solitaria sublimità dell’arte, ottenendo in cambio una molteplicità di attributi che la fanno protagonista di poliedrici interessi. Che la poltrona «Fauteuil Grand Confort», disegnata nel 1927 da Le Corbusier e Perriand, mostri in modo diretto la sua funzionalità è evidente. Solo dopo si scopre l’eleganza delle sue linee piatte, il sottile gioco fra l’armatura in ferro e la morbida imbottitura, il carattere geometrico in grado di confrontarsi direttamente con l’architettura. Ma la scoperta dei suoi caratteri formali non incide sulla valutazione della sua funzione. I due momenti, l’estetico e il tecnico, convivono in un traballante equilibrio al quale la patina storica ormai consolidata conferisce un prestigio aggiuntivo. Per contro, la poltrona «Red & Blue», disegnata nel 1919 da Gerrit Rietveld, si impone a prima vista come un oggetto funzionale, che però lascia trapelare, a dispetto della sua struttura tecnica e della forma antropomorfica, un’ambizione dichiaratamente artistica (del resto resa evidente dall’intero sistema di ammobiliamento di cui essa faceva parte). I due esempi maggiori rendono, nella notorietà quasi canonica delle opere, la moltitudine dei punti di vista capaci di addensarsi intorno alla forma degli oggetti d’uso. Hegel ebbe fra i primi il sospetto di questo accumulo di esperienze a proposito della stessa opera d’arte, che a suo avviso, «come oggetto reale, singolo, non è per sé, ma per noi, per un pubblico che guarda e gode dell’opera d’arte». Ma il fenomeno risalta con prepotenza, e a segnalarlo è proprio la forma che il design ha conferito agli oggetti d’uso. Scrive Roberto Diodato:
Il compimento dell’estetica moderna è complessivamente il design […]. L’ontologia e il valore estetico dell’oggetto di design si determinano in un processo nel quale il ruolo classico del creatore è frammentato e inseparabile dalla comunicazione e dall’economia.
Gli ostacoli che tradizionalmente si ponevano tra l’istituto della funzione e la variazione delle forme alla fine svaniscono:
Infatti l’estetica è oggi piú che mai disciplina di confine, che accetta di sporcarsi le mani col mondo, e non soltanto in quanto luogo di transito disciplinare, ma innanzitutto perché ha a che fare con i corpi, con la concretezza e la pesantezza dei corpi, con la loro bellezza e il loro deperimento, con il loro non arrestabile divenire […]. L’estetica, disciplina ardua, rivendica nello spazio per filosofare l’attenzione alla corporeità e alla sua peculiare forza conoscitiva e produttiva.
L’antica e accorta dialettica fra «signore» e «servo», che in Hegel si presentò per un attimo nella sua cruda conflittualità, si ripropone nell’era del protagonismo degli oggetti come una disputa sottile, nella quale ragioni e torti si distribuiscono equamente. La reale scommessa che fa giocare a rimpiattino gli oggetti d’uso tra la «forma» e la «funzione» non è tanto il predominio assoluto dell’una sull’altra, quanto la scala di valori che ne soppesa ogni volta la supremazia e la relativa importanza. Un’automobile o un armadio, che si presentano all’inizio come valori sia di comodità sia di bellezza, scontano entrambi dopo qualche tempo la loro relativa obsolescenza nell’una o nell’altra personalità, e accettano silenziosamente di farsi da parte. Ciò che fino a quel momento posava sulla certezza della «funzione» scopre il valore assoluto dell’inutilità, lasciando dietro di sé tutt’al piú il ricordo nostalgico della «forma» che un tempo l’accompagnò sentimentalmente. Tuttavia, mentre l’idea della «funzione» primaria svanisce, quella della «forma» è pronta a emergere ancora, semplicemente mutando casacca. L’automobile d’epoca non è fatta per viaggiare, ma può fare bella mostra di sé in una esposizione di vecchi modelli; il cassettone dei bisnonni può offrire i suoi spazi per la biancheria, ma si propone in quanto reperto antico e affettivo. Il sentimento supera, nel tempo, la natura pratica degli oggetti, riservando a essi una pura partecipazione estetica. Viene alla mente la suddivisione medievale che indicava nella lettura la definizione di un senso letterale, uno allegorico, uno morale e infine, il piú alto, l’anagogico, destinato a una superiore conoscenza. Il design – paroletta magica cui è affidato il compito di dipanare questa complessa matassa – svolge candidamente il suo compito, districandosi tra una volontà di «forma» e un dovere di «funzione», cui assegna per principio pari diritti, lasciando però che l’oggetto sia libero di trovare alla fine la sua strada. L’antico schema quadripartito di lettura potrà svolgere ancora il suo compito, ma senza obbedire all’ordine classificatorio che va dal semplice al complesso, in una lenta risalita verso una improbabile verità. In realtà esso mantiene le sue promesse, ma solo a patto di porle tutte sullo stesso piano.

2. Design.

«Esce dalle mani di Dio l’anima semplice», verseggiò Eliot rifacendosi a Dante. Tale fu l’oggetto che per la prima volta uscí dalle mani di un essere umano, di esso bisognoso, desideroso, progettista, artefice e padrone. Il design, o almeno tutto ciò che viene gettato alla rinfusa in questo generoso sostantivo, non segue però l’ordinata direttrice che va dal bisogno al desiderio passando per la produzione, ma si agita sullo sfondo dell’intero processo.
Per la verità si prova un certo imbarazzo a parlare oggi di design. Il termine è abusato, logoro, ha perso la capacità di denotare un’area progettuale definita; e per di piú viene ormai utilizzato in riferimento a una varietà quanto mai eterogenea di competenze e settori. Non c’è neppure accordo sul valore del vocabolo: demonizzato, esaltato, volgarizzato, appesantito da attributi propri e impropri, esso va sfumando in una dimensione di assoluta genericità, che lo riduce a un’etichetta buona per tutti gli usi e priva di utilità. Il problema riguarda la storia del design, la sua critica, la sua stessa filosofia. Di esso sappiamo che si è rivelato nella modernità, ma da una radice antica, in stretto rapporto con la rivoluzione industriale, gli sviluppi della tecnica e la nascita di un mercato di massa, il che ha fatto credere che si tratti solo di un settore della produzione industriale, legato alle strategie del prodotto, e per di piú ha sollevato il sospetto che esso altro non sia che l’inevitabile esito del sistema capitalistico e della sua linfa vitale, il consumismo. Ma queste etichette, in gran parte ideologiche, non consentono di oltrepassare la soglia della comprensione approssimativa del fenomeno. Ciò nonostante, si conviene tuttora con Christopher Lorenz quando afferma: «Il design non è piú un lusso: è una necessità».
La parola «design» è frutto, come è ben noto, di un equivoco lessicale. Design in inglese, e con evidente derivazione latina, significa «progetto», e non si riferisce esplicitamente al solo progetto formale del prodotto industriale né, piú in generale, a quello dell’oggetto d’uso. È stato solo l’esotismo del termine a farlo accettare nella sua accezione impropria (o comunque restrittiva). Ciò nonostante, l’etimologia della parola è antica. Nelle lingue neolatine disegno rinvia storicamente al de signare latino, con il quale condivide anche il significato di ideazione. Per il Tommaseo, «quando si ha in mira un fine, si fa un disegno o dimolti per venire a quel fine». Nell’Atrée di Crébillon père, non a caso citato da E. A. Poe in un racconto famoso, si legge: «Un dessein si funeste, s’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste».
Ciò che il termine «design» nasconde in sé è però qualcosa di piú profondo. Le sue origini, nella lingua italiana, nella parola «disegno» vanno oltre la patina che ne fa scadere la funzione in semplice coadiutore del progetto degli oggetti, per riportarlo nel mondo dell’arte, che non fu in effetti quello suo proprio. «El fondamento dell’arte, [e] di tutti questi lavorii di mano, il principio è il disegno e ’l colorire», sentenziava già Cennino Cennini alla fine del XIV secolo. L’attenzione con la quale il disegno fu seguito ne testimoniò la centralità nel mondo dell’arte, ma anche dell’architettura. Il Ghiberti lo definí, nei suoi Commentarii del 1452, «fondamento e teorica» delle arti; e cosí Leonardo, l’Alberti, il Vasari, il Lomazzo. Non stupirà scoprire che a giudizio di Baldassarre Castiglione si pretendesse perfino da un nobile di conoscere tale arte, visto che «dal nostro cortegiano per alcun modo non debba esser lasciata indietro: e questo è saper disegnare e aver cognizione dell’arte propria del dipingere». Qui però affiora un altro aspetto della questione, quello pratico, visto che, a giudizio del Castiglione, dal disegno «si traggono molte utilità, e massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, rocche, fortezze e tai cose». Piú tardi Cesare Ripa raffigurò il disegno come un giovane riccamente vestito, con in una mano un compasso e nell’altra uno specchio, simboli dell’attenzione alla vera realtà delle cose e alla precisione della loro raffigurazione, anticipando involontariamente un futuro professionale ancora lontano. Alla fine, il tentativo di Kant di riassumere in quell’unica parola insieme l’utilità e il disinteresse di una pratica artistica troppo ingombrante per essere racchiusa nelle arti maggiori è spiegato, non senza perplessità, nella Critica del giudizio, dove si legge che «nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, nel giardinaggio, in quanto sono arti belle l’essenziale è il disegno, in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta la sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma».
Questa contraddittoria tradizione spiega la rapidità con la quale il termine inglese «design» sia entrato, nonostante la sua costitutiva genericità, nel vocabolario italiano (e non solo) nel momento in cui le sue caratteristiche tecniche, pratiche, operative videro la luce nella rivoluzione industriale. Il concetto iniziale di «arti applicate all’industria» mostrò ben presto la sua inadeguatezza di fronte al rapido espandersi del fenomeno. Il problema era presente, velatamente, da tempo, all’incirca da quando lo stesso Kant, discutendo sulle arti figurative, si ricordò di inserire tra le opere degne di attenzione estetica l’architettura, compresi il progetto dei mobili e i «lavori da falegname», tanto da sottolineare come insanabile quella frattura di fondo nell’idea stessa di «disegno». Ciò che fino ad allora era comunque rimasto integro nella sua funzione complessiva dell’arte si divise in due rami apparentemente lontani, ma soggetti sempre a tendersi in un abbraccio di riconciliazione: da un lato il «disegno» artistico, che mira soltanto all’unicità dell’opera e al suo disinteresse per ciò che non è pura forma; da un altro il «design», legato alla riproduzione meccanica, ai grandi mercati, alla ricerca, diretta o indiretta, di utilità o, per essere piú precisi, a una forma che garantisca l’utilità.
Come tutti sanno, il design propriamente detto nacque nel 1851, in un articolo del «Times» che sosteneva la necessità di un intervento di natura artistica nei prodotti industriali. Esso fu all’inizio condensato nella formula «arte applicata all’industria», ma divenne definitivamente «disegno industriale» cent’anni dopo. Nel I Congresso internazionale dell’industrial design, Argan lo definí «determinazione di un modello formale passibile di essere riprodotto in migliaia di esemplari senza perdere nulla della propria qualità […] l’oggetto prodotto dal design è insieme se stesso e la rappresentazione di sé». L’espressione era vaga, ma serviva meglio della piú ambigua definizione di «arte applicata all’industria», a circoscrivere un dominio culturale di per se stesso ambiguo e incerto. Piú oltre, in pieno clima di rivolgimenti «postmoderni», Andrea Branzi sconvolgeva il panorama professionale e culturale del design cosí delineato, parlando di un «Nuovo Design» destinato ad assumere «una diversa linea di sviluppo» al fine di proporre «anche all’industria (nella sua giusta misura) una diversa collaborazione operativa», consistente nel progettare «oggetti, industriali o artigianali (la distinzione non è assolutamente significativa), ma anche comportamenti, colori, suoni, odori ambientali».
Definizioni ormai canoniche, che hanno scandito la storia della disciplina, ma hanno anche dilatato progressivamente l’area di competenza del design. Cosí, quello che un tempo fu solo il «progetto della forma dell’oggetto d’uso» ha teso sempre piú a espandersi, si è proteso su territori nuovi, si è presentato in prospettiva come campo culturale egemone. Per questa strada siamo arrivati agli scenari piú recenti, che del «design» propongono una dimensione quasi metafisica, identificata da ultimo in un «design strategico» che dovrebbe collocarsi al di sopra degli artefatti, per coordinare e distribuire le varie operazioni necessarie per pervenire al prodotto finito (non solo l’oggetto, ma anche gli spazi, gli ambienti, i comportamenti, i modelli di relazione), fino a distendersi, come si legge nel programma del master in Design strategico del Politecnico di Milano, sull’intero arco di vita del prodotto come «attività di progettazione il cui oggetto è il sistema-prodotto, cioè l’insieme integrato di prodotti, servizi e comunicazione con cui un’impresa si presenta sul mercato, si colloca nella società e, cosí facendo, dà forma alla propria strategia».
In questo scenario, il rapporto tra progetto e oggetto, che fu un tempo diretto, sembra sfumare in un complicato gioco di specchi. Anziché di «design» si dovrebbe parlare di un metadesign: alla «forma dell’oggetto» si sostituisce, come obiettivo globale del progetto, la «forma della strategia» entro la quale il prodotto dovrà collocarsi, lasciando a una serie di sottoclassi (product design, interior design, car design, design per la comunicazione e cosí via) il compito di concretizzare le singole tipologie. Il rischio resta quello di dissolvere l’immanenza delle cose nella trascendenza delle loro pure forme e del loro sistema, altrettanto formale, di relazioni. Ma è lo stesso rischio che si corre sul versante opposto, quello di chi si ostina a considerare il design una semplice attività di problem solving. Norman Potter di ciò è convinto: per lui il design è «un’attività professionale minoritaria, esercitata da designer cui spetta il compito di contribuire a dare forma e ordine alle attività (amenities) della vita, in un contesto manifatturiero, di luogo o di occasione». Il design finisce dunque, in pratica, con l’apparire come una sorta di lapis philosophorum alchemico, in grado di risolvere tutti i problemi. Per questo la sua storia, che parte da queste incerte premesse, si impone in una trionfale ascesa nel XX secolo, ma appare scricchiolare pericolosamente nel XXI sotto il peso delle sue eccessive attribuzioni.

3. Disegno industriale.

Il disegno industriale, nel quale un tempo si espresse tutto intero il concetto di design, si presenta oggi come una variabile nel processo di ideazione e produzione degli oggetti d’uso. Negli anni della modernità matura l’accento fu posto d’autorità sulla natura di «prodotto» dell’oggetto d’uso, sulla sua serialità, inchiodando il design alla sua definitiva connotazione «industriale», che però non solo ne ha definito il campo culturale, ma ne ha anche moltiplicato le competenze. L’intervento del design, in quanto disegno ind...

Índice