Memorie di Adriano
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Memorie di Adriano

seguite da Taccuini di appunti

Marguerite Yourcenar, Lidia Storoni Mazzolani

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Memorie di Adriano

seguite da Taccuini di appunti

Marguerite Yourcenar, Lidia Storoni Mazzolani

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Il capolavoro di Marguerite Yourcenar unisce al cesello perfetto della ricostruzione storica il coraggio di presentare a tutto tondo un grand'uomo, l'altezza del suo pensiero, la disponibilità intellettuale, le intuizioni profetiche, donandoci non già un saggio erudito, ma un libro dei giorni nostri, e dei giorni a venire. Perché, come ha scritto la Yourcenar, «non siamo i soli a guardare in faccia un avvenire inesorabile». I Taccuini di appunti dell'autrice (annotazioni di studio, lampi di autobiografia, ricordi, vicissitudini della scrittura) perfezionano la conoscenza di un'opera che fu pensata, composta, smarrita, corretta per quasi un trentennio. La nota della traduttrice, Lidia Storoni Mazzolani, ci regala la storia di un'amicizia nata lavorando alla versione italiana. Con la cronologia della vita e delle opere e la bibliografia essenziale.

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Información

Editorial
EINAUDI
Año
2021
ISBN
9788858437872

Varius multiplex multiformis

Il mio avo Marullino credeva negli astri. Era un vegliardo alto, scarno, scolorito dagli anni. Mi concedeva lo stesso affetto schivo di tenerezza, di manifestazioni esteriori, quasi direi di parole, che aveva per gli animali della sua fattoria, per le sue terre, per la sua collezione di meteoriti. Discendeva da una lunga serie di antenati stabilitisi in Spagna dall’epoca degli Scipioni. Apparteneva alla classe senatoria, terzo di quel nome: prima, la nostra famiglia era stata d’ordine equestre. Sotto Tito, aveva preso parte alla vita pubblica, in posizioni di secondo piano. Era un provinciale; ignorava il greco, e pronunciava il latino con un rauco accento spagnolo, che mi trasmise, cosa che in seguito destò la derisione. Pure, non era totalmente incolto: dopo la sua morte, s’è trovata in casa sua una cassa piena di strumenti matematici e di libri, che non toccava da vent’anni. Aveva molte nozioni, per metà scientifiche, per metà contadine, quel misto di pregiudizi gretti e di antica saggezza che furono la caratteristica del vecchio Catone. Ma Catone fu per tutta la vita l’uomo del Senato romano e della guerra contro Cartagine, l’autentico rappresentante della dura Roma repubblicana. La rigidezza quasi impenetrabile di Marullino traeva da piú lontano, da epoche piú remote: egli era l’uomo della tribú, l’incarnazione d’un mondo ancestrale, quasi pauroso, di cui piú tardi ebbi a ritrovar le vestigia presso i nostri necromanti etruschi. Andava sempre a capo scoperto, e anch’io mi son fatto criticare, in seguito, per lo stesso motivo; i suoi piedi incalliti facevano a meno dei sandali. Gli abiti che indossava i giorni feriali si distinguevano a malapena da quelli dei vecchi mendicanti, dei campagnoli gravi, accoccolati al sole. Si diceva che esercitasse la magia, e la gente del paese evitava il suo sguardo; ma era dotato di poteri singolari sugli animali: l’ho visto avvicinar cauto, con dimestichezza, la sua testa canuta a un nido di vipere, ho visto le sue dita nodose eseguire una specie di danza davanti a una lucertola. Le notti d’estate, mi conduceva con sé ad osservare il cielo, in cima a una collina arida; mi addormentavo in un solco, stanco d’aver contato le stelle, ed egli rimaneva seduto, il capo levato, ruotando impercettibilmente col moto degli astri. Certo, doveva aver conosciuto i sistemi di Filolao e di Ipparco, e quello di Aristarco di Samo che io ho prescelto in seguito, ma queste speculazioni non lo interessavano piú. Gli astri per lui erano solo i punti incandescenti, gli oggetti, come le pietre, come gli insetti lenti dai quali traeva egualmente presagi, le parti costitutive d’un universo magico che comprendeva altresí le volontà degli dei, l’influenza dei demoni, e la sorte riservata agli uomini. Aveva ricostruito dal giorno della nascita il mio destino: una notte venne da me, mi scosse per destarmi, e mi preannunciò l’impero del mondo con quella stessa brusca laconicità con la quale avrebbe predetto un buon raccolto ai contadini della fattoria. Poi, colto da diffidenza, andò a prendere un fuscello incandescente dal focherello di sarmenti che alimentava per riscaldarci nelle ore fredde, me lo avvicinò alla mano, e lesse in quel rozzo palmo di undicenne non so quale conferma alle linee tracciate nel cielo. Il mondo, per lui era un blocco unico: una mano confermava gli astri. Tale annuncio mi stupí assai meno di quel che si potrebbe supporre: qualsiasi bambino s’aspetta di tutto. In seguito, ritengo ch’egli abbia dimenticato la sua stessa profezia, per quell’indifferenza verso gli avvenimenti presenti e futuri che è propria della vecchiaia. Lo trovarono un mattino nel bosco di castagni ai confini della proprietà, già freddo, beccato da uccelli rapaci. Prima di morire, aveva cercato d’insegnarmi la sua arte, ma senza successo: la mia curiosità naturale saltava subito alle conclusioni senza indugiare nei dettagli complicati e anche un po’ ripugnanti della sua scienza. Ma il gusto di certe esperienze temerarie m’è rimasto, fin troppo.
Mio padre, Elio Afro Adriano, era un uomo sopraffatto dalla virtú. La sua vita era trascorsa in amministrazioni senza gloria; in Senato la sua voce non aveva contato mai. Contrariamente a quel che avviene di solito, la carica di governatore d’Africa non l’aveva arricchito; da noi, nel municipio spagnolo d’Italica, si esauriva a comporre dissidi locali. Immune da ambizioni, privo di gioie, come avviene a tanti che a questa maniera finiscono per contare sempre meno, s’era ridotto a dedicare un’attenzione maniaca alle piccole cose alle quali limitava i suoi interessi. Le ho conosciute anch’io, le tentazioni onorevoli della minuzia e dello scrupolo. Le esperienze avevano sviluppato in lui uno scetticismo straordinario riguardo agli esseri umani, e vi includeva anche me, benché ancora bambino. I miei successi, se avesse potuto conoscerli, non l’avrebbero stupito per nulla. Era cosí forte l’orgoglio familiare, che non si sarebbe mai ammesso ch’io potessi aggiungervi qualche cosa. Avevo dodici anni, quando quest’uomo logorato ci lasciò, e mia madre si chiuse in una vedovanza austera per il resto dei suoi giorni. Dal giorno in cui partii per Roma, chiamatovi dal mio tutore, non l’ho piú rivista. Serbo intatto il ricordo, rinverdito dal busto di cera sulla parete degli avi, del suo viso allungato di spagnola, soffuso d’una dolcezza malinconica: aveva, delle fanciulle di Cadice, i piccoli piedi calzati da sandali stretti; e quella giovane matrona irreprensibile aveva il molle ancheggiare delle danzatrici della regione.
Ho riflettuto spesso sull’errore che commettiamo nel supporre che un uomo, una famiglia, necessariamente partecipino alle idee o agli avvenimenti del secolo nel quale si trovano a vivere. L’eco degli intrighi di Roma giungeva a malapena ai miei genitori in quell’angolo di Spagna, benché, all’epoca della rivolta contro Nerone, per una notte mio nonno abbia offerto ospitalità a Galba. Si viveva del ricordo d’un certo Fabio Adriano, bruciato vivo dai Cartaginesi nell’assedio di Utica, di un secondo Fabio, soldato sfortunato, che rincorse Mitridate sulle strade dell’Asia Minore – oscuri eroi da archivi sprovvisti di gloria. Degli scrittori contemporanei, mio padre ignorava quasi tutto: gli erano ignoti Lucano e Seneca, benché fossero, come noi, originari di Spagna. Elio, il mio prozio, che era un uomo colto, limitava le sue letture agli autori piú noti del secolo d’Augusto. Il disdegno delle mode li risparmiò da molti errori di gusto: a esso erano debitori d’essere immuni da ampollosità. L’ellenismo e l’Oriente erano ignorati, o guardati alla larga, con severo cipiglio: credo non ci fosse una sola statua greca pregevole in tutta la penisola. La parsimonia s’accompagnava alla ricchezza; una certa rusticità, a una solennità quasi pomposa. Mia sorella Paolina era seria, taciturna, quasi arcigna, ed era andata sposa ancor giovane a un uomo vecchio. La rettitudine era rigorosa ma si trattavano duramente gli schiavi. Non si avevano curiosità di nessun genere; si badava ad avere, su qualsiasi cosa, l’opinione che si conviene a un cittadino romano. Tutte virtú, se sono effettivamente tali, che sarebbe toccato a me dissipare…
La convenzione ufficiale vuole che un imperatore romano sia nato a Roma, ma io sono nato a Italica; a quel paese arido e tuttavia fertile ho sovrapposto in seguito tante regioni del mondo. La convenzione ha del buono: dimostra che le decisioni dello spirito e della volontà hanno la meglio sulle circostanze. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri. In minor misura, le scuole. Quelle di Spagna risentivano dell’ozio della provincia. La scuola di Terenzio Scauro, a Roma, faceva conoscere mediocremente filosofi e poeti, ma preparava abbastanza bene alle vicissitudini della vita: i maestri esercitavano sugli alunni una tirannia che io arrossirei d’imporre agli uomini; ciascuno, nei limiti angusti del proprio sapere, disprezzava i colleghi, i quali possedevano, con identica ristrettezza, nozioni diverse. Quei pedanti si facevano rauchi a furia di vane logomachie. Conflitti di precedenza, intrighi e calunnie m’hanno abituato a ciò che in seguito avrei incontrato in tutti gli ambienti nei quali ho vissuto; vi si aggiungeva la brutalità dell’infanzia. Purtuttavia, ho voluto bene ad alcuni dei miei maestri, mi sono stati cari quei rapporti stranamente intimi e stranamente evasivi che si stabiliscono tra insegnante e alunno, e le Sirene che cantano in fondo a una voce chioccia quando vi rivela per la prima volta un capolavoro o vi palesa un’idea nuova: il piú grande seduttore, in fin dei conti, non è Alcibiade, è Socrate.
I metodi dei grammatici e dei retori, forse, sono meno assurdi di quel che mi apparissero allorché vi ero sottoposto. La grammatica, con quella sua mescolanza di regole logiche e di usi arbitrari, fa pregustare ai giovani quel che gli offriranno in seguito le dottrine riguardanti la condotta umana, il diritto o la morale, tutti sistemi nei quali l’uomo ha codificato la sua esperienza istintiva. Quanto alle esercitazioni di retorica, nelle quali impersonavamo volta a volta Serse e Temistocle, Ottaviano e Marc’Antonio, mi inebriarono: mi sentii Proteo, imparai a penetrare volta a volta nel pensiero di ciascuno, a comprendere che ciascuno si determina, vive e muore secondo proprie leggi. La lettura dei poeti produsse in me effetti ancor piú conturbanti: non sono del tutto certo che conoscere l’amore sia piú inebriante che scoprire la poesia. Quest’ultima mi trasformò: l’iniziazione alla morte non mi inoltrerà piú avanti in un mondo diverso di quanto abbia fatto un crepuscolo virgiliano. In seguito, ho preferito la rusticità di Ennio, cosí vicino alle origini sacre della razza, o l’amarezza da saggio di Lucrezio, o anche l’umile frugalità di Esiodo alla opulenza di Omero. Ho amato soprattutto i poeti piú ermetici e oscuri, che costringono il pensiero alla ginnastica piú ardua, sia i recentissimi sia gli antichi, quelli che mi aprono sentieri completamente nuovi, o mi aiutano a rintracciare piste smarrite. Ma, in quell’epoca, amavo soprattutto nella poesia quel che tocca con immediatezza i sensi, la lucentezza metallica di Orazio, Ovidio e la sua mollezza carnale. Scauro mi gettò nella disperazione dichiarandomi che non sarei stato mai altro che un poeta mediocre: mi mancavano infatti il talento e l’applicazione. Per lungo tempo credetti che si fosse sbagliato: conservo sotto chiave, chissà dove, un paio di volumi di versi d’amore, per lo piú plagiati da Catullo. Ma, ormai, m’importa ben poco che le mie produzioni personali siano detestabili.
Fino alla fine dei miei giorni sarò riconoscente a Scauro per avermi costretto a studiare il greco per tempo. Ero ancora bambino, quando tentai per la prima volta di tracciare con lo stilo quei caratteri d’un alfabeto a me ignoto: cominciava per me la grande migrazione, i lunghi viaggi, e il senso d’una scelta deliberata e involontaria quanto quella dell’amore. Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario delle realtà, l’ho amata perché quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. Vi sono altre lingue, lo so bene: alcune sono pietrificate, altre dovranno nascere ancora. Alcuni sacerdoti egiziani m’hanno mostrato i loro antichi simboli, segni piú che parole, antichissimi conati di classificazione del mondo e delle cose, idioma sepolcrale d’una razza morta. Durante la guerra ebraica, il rabbino Giosuè m’ha decifrato lettera per lettera alcuni testi di quella lingua di fanatici, tanto invasati del loro dio da trascurare l’umano. Quand’ero alle armi, mi sono impratichito nella lingua degli ausiliari celti; ricordo soprattutto i loro canti… Ma i dialetti barbari valgono tutt’al piú perché rappresentano una riserva di parole alla espressione umana e per tutto quello che senza dubbio esprimeranno in avvenire. Il greco, al contrario, ha già dietro di sé tesori di esperienza, quella dell’individuo e quella dello Stato. Dai tiranni jonici ai demagoghi ateniesi, dalla pura austerità di Agesilao agli eccessi di Dionigi o di Demetrio, dal tradimento di Dimarate alla fedeltà di Filopemene, tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco. Altrettanto avviene delle nostre scelte interiori: dal cinismo all’idealismo, dallo scetticismo di Pirrone ai sogni sacri di Pitagora, i nostri rifiuti, i nostri consensi non facciamo che ripeterli; i nostri vizi, le nostre virtú hanno modelli greci. La bellezza d’un’iscrizione latina, votiva o funeraria, non ha pari: quelle poche parole incise sulla pietra riassumono con maestà impersonale tutto quel che il mondo ha bisogno di sapere sul conto nostro. L’impero, l’ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto.
Avevo sedici anni: tornavo da un periodo di addestramento nella Settima Legione, che a quei tempi si trovava acquartierata in pieni Pirenei, in una regione selvaggia della Spagna Citeriore, assai diversa dalle parti meridionali della penisola, dov’ero cresciuto. Acilio Attiano, il mio tutore, ritenne opportuno farmi alternare con un periodo di studio quei mesi di vita rude e di aspre cacce. Ebbe il buon senso di lasciarsi persuadere da Scauro a mandarmi ad Atene, presso il sofista Iseo, un uomo brillante, dotato soprattutto d’una rara capacità d’improvvisazione. Atene mi affascinò immediatamente; lo studentello un po’ goffo ch’io ero, l’adolescente dall’animo schivo si trovò ad assaporare per la prima volta quell’aria viva, quelle conversazioni rapide, quell’andare a zonzo nelle lunghe sere rosate, quella disinvoltura senza pari nella discussione e nella voluttà. Mi lasciai prendere, di volta in volta, dalle matematiche e dalle arti: ricerche parallele; ed ebbi occasione di seguire, ad Atene, un corso di medicina di Leotichide. Mi sarebbe piaciuta la professione medica: in sostanza, non differisce, nello spirito, da quello che ho cercato di infondere al mio mestiere d’imperatore. Mi appassionai a questa scienza, troppo vicina a noi per non essere incerta, esposta a entusiasmi e a errori, ma modificata senza posa dal contatto con l’immediato e con la nuda realtà. Leotichide affrontava le cose dal punto di vista piú positivo: tra l’altro, aveva elaborato un sistema mirabile di riduzione delle fratture. La sera passeggiavamo lungo le rive del mare: quell’uomo universale s’interessava alla struttura delle conchiglie e alla composizione del fondo marino. Gli mancavano i mezzi per dedicarsi agli esperimenti, rimpiangeva i laboratori e le sale di anatomia del Museo d’Alessandria, che aveva frequentato da giovane, e i contrasti di opinioni, le ingegnose competizioni umane. Spirito pratico, m’insegnò a preferire le cose alle parole, a diffidare delle formule, a osservare piuttosto che a giudicare. Quel greco amaro, m’insegnò il metodo.
Ad onta delle leggende che vanno in giro sul conto mio, ho amato assai poco la giovinezza, e la mia meno di qualsiasi altra. Considerata in se stessa, questa giovinezza tanto vantata il piú delle volte mi appare come un’epoca ancora rozza della nostra esistenza, un’età opaca e informe, malsicura e fuggevole. Va da sé che conosco un certo numero di eccezioni incantevoli a questa regola, due o tre perfino ammirevoli, delle quali tu, Marco, sei certo la piú pura. Per quel che mi riguarda, a vent’anni ero press’a poco come sono ora, ma lo ero senza consistenza. Non tutto era cattivo in me, ma tutto poteva esserlo: il buono o il meglio respingevano il peggio. Non posso ripensare senza rossore alla mia ignoranza del mondo, che pure credevo di conoscere, alla mia impazienza, a una sorta di frivola ambizione, di avidità grossolana. Dovrò confessarlo? Nel bel mezzo dei miei studi ad Atene, dove tutti i piaceri trovavano posto con misura, rimpiangevo non già Roma in se stessa, ma l’atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, il cigolio stesso degli organi della macchina del potere. Il regno di Domiziano volgeva alla fine; mio cugino Traiano, che s’era coperto di gloria sulle frontiere del Reno, si atteggiava a grand’uomo del popolo; la tribú spagnola si stabiliva a Roma. Al confronto con quel mondo dell’azione immediata, la dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate; l’insensibilità politica dei Greci mi appariva una forma meschina di rinuncia. La mia sete di potenza, di danaro – da noi spesso quest’ultimo apre la strada a quella – e di gloria – se vogliamo dare questo bel nome appassionato alla nostra smania di sentir parlare di noi – era innegabile. Vi si mescolava confusamente il sentimento che Roma, benché inferiore alla Grecia sotto tanti aspetti, recuperava vantaggio per la dimestichezza con affari di Stato che esigeva dai suoi cittadini, almeno da quelli dell’ordine senatoriale ed equestre. M’ero convinto, ormai, che la discussione piú banale a proposito dell’importazione di cereali dall’Egitto mi avrebbe insegnato di piú, sullo Stato, che non tutta La Repubblica di Platone. Già qualche anno prima, quando ero un giovane avvezzo alla disciplina militare, avevo creduto d’accorgermi che comprendevo i soldati di Leonida e gli atleti di Pindaro meglio dei miei professori. Lasciai dunque Atene, arida e dorata, per la città dove uomini ammantati in toghe pesanti affrontano il vento di febbraio, dove lusso e sregolatezza sono sgraziati, ma dove ogni minimo provvedimento si riflette sulle sorti d’una parte del mondo, e dove un giovane provinciale avido, ma non del tutto ottuso, convinto sulle prime di obbedire soltanto ad ambizioni grossolane, le avrebbe perdute via via che le vedeva attuate, avrebbe imparato a misurare se stesso in rapporto agli uomini e alle cose, a comandare, e infine – ed è forse questa in definitiva la cosa meno futile – a servire.
Non tutto era bello in quell’avvento d’una classe media laboriosa che s’affermava a sostegno d’un cambiamento di regime imminente: l’onestà politica vinceva la partita ma si serviva di stratagemmi alquanto loschi. Il Senato, affidando poco a poco tutte le cariche nelle mani di uomini suoi, portava a termine l’esautoramento di Domiziano, che ormai era agli ultimi aneliti; gli uomini nuovi, ai quali mi legavano vincoli di famiglia, forse non erano poi tanto diversi da quelli che si accingevano a soppiantare: erano, piú che altro, meno insudiciati dal potere. I cugini e i nipoti di provincia s’aspettavano solo qualche carica secondaria e si esigeva ancora che la occupassero con integrità. Ne toccò una anche a me: fui nominato giudice del tribunale a cui erano demandate le questioni ereditarie. Da quella posizione modesta assistetti alle ultime fasi del duello a morte tra Domiziano e Roma. In città, l’imperatore aveva perduto autorità; non si reggeva piú che a colpi di esecuzioni, e queste ne affrettavano la fine; l’esercito al completo tramava la sua morte. Non compresi gran che di quel duello, ancor piú mortale di quelli dell’arena; mi contentavo di assistervi col disprezzo arrogante d’un alunno dei filosofi verso il tiranno agli estremi. E, obbediente ai buoni consigli di Attiano, feci il mio mestiere senza occuparmi troppo di politica.
Fu un anno di lavoro, non molto diverso da quelli di studio: ignoravo il diritto; ma per mia buona sorte, mi fu collega in tribunale Nerazio Prisco, il quale si prese la briga di istruirmi, ed è rimasto mio consigliere legale e amico sino al giorno della sua morte. Apparteneva a quella categoria di spiriti rarissimi, i quali, benché profondi conoscitori d’una dottrina, in grado di vederla per cosí dire dal di dentro, da un punto di vista inaccessibile ai profani, conservano tuttavia il senso della relatività del suo valore nell’ordine delle cose, la misurano in termini umani. Piú esperto di chiunque nella prassi della legge, non esitava mai di fronte a innovazioni utili. Alcune riforme, in seguito, riuscii a farle attuare proprio per merito suo.
Altri compiti s’imponevano. Avevo conservato l’accento di provincia, e il primo discorso che pronunciai in tribunale fece ridere i presenti. Misi a profitto la familiarità che avevo con la gente di teatro, che scandalizzava tanto i miei: le loro lezioni di dizione costituirono per lunghi mesi il mio compito piú arduo ma anche il piú piacevole e il segreto piú gelosamente conservato della mia vita. Persino la dissolutezza diventava una materia di studio durante quegli anni difficili: cercavo di mettermi al passo con i bellimbusti di Roma; ma non ci son riuscito mai del tutto. Per una viltà propria di quell’età, in cui l’audacia puramente fisica si prodiga altrove, non osavo fidarmi di me stesso che sino a un certo limite; e, nella speranza di somigliare agli altri, attenuavo o accentuavo le caratteristiche della mia natura.
Non ero molto amato; ma, del resto, che motivo c’era perché mi amassero? Alcuni tratti del mio carattere – per esempio, l’amore per l’arte – passavano inosservati in uno studente di Atene, e sarebbero stati piú o meno generalmente ammessi nell’imperatore; urtavano, però, in un funzionario, in un magistrato ai primi passi della carriera. Il mio ellenismo faceva sorridere, tanto piú che, secondo i casi, me ne compiacevo e lo dissimulavo goffamente. In Senato, mi chiamavano «lo studente greco». Cominciava a crearsi la mia leggenda, quel riflesso luccicante, bizzarro, fatto per metà dalle nostre azioni, per metà da quel che di esse pensa il volgo. C’era chi, per vincere una causa, spudoratamente mi mandava la moglie, se veniva a sapere che avevo un’avventura con la consorte d’un senatore, o il figlio, quando ostentavo follemente la mia passione per qualche giovane mimo. Era divertente confondere gente di quella risma con l’indifferenza. I piú meschini eran quelli che, per riuscirmi simpatici, m’intrattenevano di letteratura. La tecnica che mi toccò elaborare in quella posizione mediocre, mi serví piú tardi, nelle udienze imperiali. Appartenere completamente a ciascuno durante la breve durata dell’udienza, fare del mondo una tabula rasa sulla quale in quel momento non esiste che il tale banchiere, il tal veterano, la tale vedova; accordare a persone tanto varie, benché naturalmente chiuse entro i limiti angusti di una categoria, tutta l’attenzione cortese che nei momenti migliori si concede a se stessi, e vederli immancabilmente profittare dell’occasione per gonfiarsi come la rana della favola; dedicare infine seriamente pochi momenti a pensare al loro problema, al loro affare… Eccoci di nuovo nel gabinetto del medico. Vi mettevo a nudo antichi odî tremendi, una lebbra di menzogne: mariti contro mogli, padri contro figli, parenti contro tutti: quel po’ di rispetto che ho personalmente verso l’istituto della famiglia non vi ha resistito molto.
Non ch’io disprezzi gli uomini: se lo facessi, non avrei alcun diritto, né alcuna ragione, di adoperarmi a governarli. So bene che sono vanitosi, ignoranti, avidi, irrequieti, capaci quasi di tutto pur di arrivare, pur di farsi valere, anche solo ai propri occhi, o anche soltanto per evitare di soffrire. Lo so bene: sono fatto anch’io come loro, almeno in alcuni momenti, o avrei potuto esserlo. Sono troppo tenui le differenze che scorgo tra gli altri e me, perché contino nel totale. Perciò, faccio del mio meglio affinché il mio atteggiamento si discosti tanto dalla fredda albagia del filosofo quanto dall’arroganza del Cesare. Non manca un barlume di luce neppure nel piú opaco degli uomini: un assassino suona il flauto con garbo; un aguzzino che lacera la schiena degli schiavi con le frustate è forse un figlio eccellente; un idiota può essere pronto a dividere con me l’ultimo cantuccio di pane che gli resta. E ce n’è ben pochi, di uomini, a cui non sia possibile insegnare qualcosa a dovere. Il nostro errore piú grave è quello di cercare di destare in ciascuno proprio quelle qualità che non possiede, trascurando di coltivare quelle che ha. Anche qui, nel r...

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