Io sono Giorgia
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Io sono Giorgia

Le mie radici le mie idee

Giorgia Meloni

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Le mie radici le mie idee

Giorgia Meloni

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"Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui." In questo libro, Giorgia Meloni parla per la prima volta di sé a tutto tondo. Delle sue radici, della sua infanzia e del suo rapporto con la mamma Anna, la sorella Arianna, i nonni Maria e Gianni e del dolore per l'assenza del padre; della passione viscerale per la politica, che dalla "sua" Garbatella l'ha portata prima al Governo della Nazione come Ministro e poi al vertice di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei; della gioia di essere madre della piccola Ginevra e della storia d'amore con Andrea; dei suoi sogni e del futuro che immagina per l'Italia e per l'Europa. Ma affronta anche, con la schiettezza e la chiarezza che la caratterizzano, temi complessi come la maternità, l'identità e la fede. Un racconto appassionato e appassionante, scandito nei titoli da quel tormentone nato per essere ironico ma diventato un manifesto identitario. Passato, presente e futuro del leader politico sul quale sono puntati gli occhi di molti, in Italia e non solo.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2021
ISBN
9788831804608

Sono italiana

Non andò tutto bene

Let the sky fall
When it crumbles
We will stand tall
Face it all together.a
Adele, Skyfall
Non ero mai stata al Festival di Sanremo, ma l’ho sempre guardato in televisione. Alcuni anni senza perdermi un minuto, altre volte rivolgendogli uno sguardo distratto. Penso di poter dire che il richiamo della principale manifestazione nazionalpopolare d’Italia sia sempre stato lì, ad attirarmi a sé, malgrado raramente vi abbiano partecipato i miei cantanti preferiti.
La mia vita, come quella di ciascuno di noi, ha la sua colonna sonora. E nel mio caso si tratta di una raccolta molto, molto corposa. Perché io, banalmente, la musica la amo tutta: dall’opera lirica all’heavy metal, dal pop più sdolcinato alla cosiddetta musica identitaria, come quella di Marcello De Angelis o degli Aurora, che ha accompagnato tutta la mia adolescenza. Eppure forse sorprenderà, ma di pochi cantautori conosco tante canzoni a memoria quanto quelle scritte da Francesco Guccini. Tanto che usai proprio una citazione del suo Cirano per chiudere la relazione congressuale con la quale mi candidavo alla guida di Azione Giovani: «E voi materialisti, col vostro chiodo fisso / che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso / le verità cercate per terra, da maiali / tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali». Per certa stampa fu una sorpresa, per la platea che mi ascoltava, invece, no.
Per le ragioni che ho già spiegato, figuratevi se io, come altri della mia comunità politica, potevamo mai restare indifferenti rispetto ai versi di De André o di altri grandi della musica italiana, per quanto organici potessero essere alla sinistra del secolo scorso.
Dunque, potete facilmente immaginare con quanta amarezza abbia accolto la versione riveduta e corretta di Bella ciao canticchiata da Guccini con i nomi di Giorgia Meloni, Salvini e Berlusconi, accompagnati dall’invito a esser «portati via» dai partigiani nel 2020.
Mi sono sentita come quando scopri che il Babbo Natale che ha appena suonato alla porta altri non è che tuo zio un po’ alticcio e un po’ imbolsito, ma fai finta di nulla, seppur con la morte nel cuore, pensando ai regali che ti ha portato.
E così, «al fin della licenza», continuerò comunque a cantare Cirano o Cristoforo Colombo, con la certezza che siano alcuni tra i versi più belli e profondi della musica italiana.
Ma torniamo al Festival di Sanremo. È il 17 febbraio 2011 e io ricordo la serata dedicata al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. In sella a un cavallo bianco Roberto Benigni entra nel Teatro Ariston, sventolando una bandiera tricolore. È venuto per l’esegesi del Canto degli Italiani, il nostro inno. Comunemente conosciuto come Fratelli d’Italia. Poco dopo sarebbe diventato anche il nome del nostro partito. Una sorta di premonizione.
Non dimenticherò mai i cinquanta minuti seguenti di Benigni sul palco. Una pioggia di brividi e di pensieri che inondò me e tutti gli italiani che ebbero la fortuna di assistervi.
Non mancarono le battute sul premier Berlusconi, più o meno gradevoli, ma il racconto del Risorgimento fatto nel luogo più popolare d’Italia sprigionò uno straordinario senso di appartenenza.
«Una grandezza senza pari, intrisa di gioventù. [...] Non potete sapere quanti ragazzi sono morti per noi. [...] Loro hanno imparato a morire per la patria perché noi potessimo vivere per la patria.» Ha fatto bene Benigni a sottolinearlo più volte, perché non furono congressi mondiali, illustri monarchi o grandi statisti a fare unita e libera l’Italia. Fu un popolo a farsene carico, in particolare i suoi giovani poeti guerrieri. Disposti a morire pur di trasformare un antico sogno in una nuova nazione.
«L’Italia è l’unico Paese al mondo dove è nata prima la cultura e poi la nazione» fu un’altra delle affermazioni più belle e vere di Benigni, quella sera. Al punto che credo si possa affermare che lo stesso tricolore italiano non sia figlio di una concessione straniera, ma dei versi premonitori del più grande fra i poeti del mondo. «Sovra candido vel cinta d’uliva / donna m’apparve, sotto verde manto / vestita di color di fiamma viva» sono le parole che usa Dante Alighieri al cospetto di Beatrice, l’amore della sua vita.
Appartenere a questa bellezza è un privilegio, ma anche un compito gravoso per chi fa politica in Italia. Purtroppo il sentimento di amor patrio è stato nei decenni deriso o negato, particolarmente nel secondo dopoguerra. Credo che ciò sia stato non solo ingiusto nei confronti di tutti i giovani caduti per l’Italia, ma anche controproducente per uno sviluppo coerente e condiviso dello Stato italiano.
«Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani.» Questa frase, famosissima, attribuita a Massimo d’Azeglio rappresenta la critica che più spesso ci sentiamo rivolgere: quella di non essere uniti come popolo e quindi di essere una nazione dove ognuno pensa quasi esclusivamente per sé. La realtà è molto più complessa di così. Esiste una grande contraddizione nel nostro popolo: ha coscienza di sé da molto prima che nascesse lo Stato italiano, eppure appare spesso distaccato rispetto alla propria nazione. Non di rado si è dubitato del sentimento di appartenenza nazionale degli italiani. Lo si è fatto storicamente: ad esempio prima del Risorgimento, quando si provava a raccontare che l’Italia non era altro che «un’espressione geografica». E a questo racconto, che in sostanza sostiene che l’Italia come nazione non esista – e che l’unica omogeneità sarebbe quella locale e comunale –, un po’ gli italiani stessi ci credono, ogni tanto. Salvo cambiare idea, poi, quando davanti alla Storia – quella con la «S» maiuscola – e alle sue grandi sfide dimostrano in prima persona di avere un fortissimo senso della comunità nazionale.
Lo testimoniano, oltre al Risorgimento, le trincee della Prima guerra mondiale, lì dove il sangue degli italiani si mischiò diventando un unico indissolubile. Lo dimostrarono gli eroi di El Alamein, e ce lo ricordano spesso gli italiani, nei luoghi e nei momenti più impensabili, come accadde in Iraq con un semplice ragazzo siciliano cresciuto in Liguria, Fabrizio Quattrocchi, con quel suo maestoso «Vi faccio vedere come muore un italiano» sbattuto in faccia ai suoi vigliacchi aguzzini.
Non è vero che gli italiani non siano capaci di grandi slanci altruistici nei momenti difficili. Tanti di quelli che leggeranno questo libro si riconosceranno come protagonisti di storie di coraggio e solidarietà. Come scordare chi è corso ad Amatrice nel 2016, in Emilia-Romagna nel 2012, all’Aquila nel 2009, in Umbria nel 1997 e, più indietro nel tempo, in Irpinia, in Friuli, in Sicilia, senza citare tantissimi altri luoghi in cui la furia della natura si è abbattuta? E come dimenticare le decine di italiani che si fecero avanti a Vermicino, nel 1981, per cercare di tirare fuori da quel maledetto pozzo Alfredino Rampi, il bimbo di sei anni che ci era caduto dentro, rimanendo incastrato? Durante le tragedie, che in maniera diversa hanno colpito la nostra nazione, è mancata spesso l’organizzazione dei soccorsi, ma non sono mancati mai i soccorritori. Mai quelli che, saputo che altri italiani erano in difficoltà, si sono messi subito in azione portando acqua, cibo, coperte e mani per scavare. Alcuni, molti, accorsi con appresso un tricolore, come a dire: «Grazie a questo simbolo siamo tutti fratelli e allora eccomi qui, questo è il mio posto».
Gli eventi drammatici più recenti sono raccontati dalle fotografie, dai video, dalle testimonianze di qualcuno che c’è stato e che ricorda com’era scavare nelle case distrutte e trovare qualcuno che da quelle case non era più uscito, oppure i simboli di una quotidianità perduta: un giocattolo, un libro, una testimonianza di vita.
Storie di straordinaria solidarietà, la cui lista è meravigliosamente e drammaticamente lunga.
Eravamo nazione da poco più di quarant’anni quando il 28 dicembre 1908 più di ottantamila persone morirono uccise da un terremoto che rase al suolo Messina, Reggio Calabria e gli altri paesi sulle due sponde dello stretto. Un’apocalisse.
E il resto d’Italia? Comitati spontanei per raccogliere fondi e «passeggiate di beneficenza». Una gara di solidarietà incredibile.
Solo sette anni dopo, il 13 gennaio 1915, la terra tremò di nuovo. Ad Avezzano, in Abruzzo.
Trentamila morti. E anche qui subito solidarietà e tanti volontari accorsi per scavare tre le macerie. Tra loro Nazario Sauro. Sì, proprio l’eroe istriano che ho già citato. Quanto avevano da condividere un marinaio istriano e un pastore abruzzese? Forse poco, certamente non il dialetto, ma qualcosa c’era e bastava: l’essere italiani. E per questo gli istriani andarono là. E non furono i soli.
Nella stessa lettera che ho già menzionato, indirizzata al figlio prima di morire, Sauro scriverà: «Vi viene in aiuto la Patria». Ecco, è là in Abruzzo, come poi sul fronte nella Prima guerra mondiale, che diventiamo nazione, che siamo uniti.
Non finiscono qui i momenti di solidarietà. Oltre a quelli più recenti, già citati, non posso non pensare agli «angeli del fango» che a Firenze – ma poi lo stesso appellativo verrà usato in altre occasioni, come a Genova e Parma nel 2014 – aiutarono a ricostruire la città sommersa dal fango che l’alluvione del 1966 aveva depositato. E salvarono anche opere d’arte, libri e testimonianze culturali inestimabili. Perché noi siamo questo. Forse distratti, forse persi nei nostri interessi particolari, ma poi pronti ad accorrere senza pensarci.
Gli italiani, insomma, hanno sempre dimostrato con i fatti un fortissimo sentimento di comunità: da nord a sud. L’anomalia non è questa. Qual è allora? È quella che si registra, rispetto alla normalità degli altri grandi Stati nazionali, con la disaffezione nei confronti dello Stato e delle istituzioni. Già, purtroppo gli italiani credono poco nello Stato. E questo per una serie di conclamate questioni storiche che hanno fatto sì che la loro fiducia ogni tanto sia stata davvero mal riposta. Forse è l’eredità d’essere la nazione dei mille campanili. O forse d’essere figli di un grande impero che è crollato, come se la parte più grande del nostro cammino di popolo fosse alle spalle e non davanti a noi. Questa sindrome del «grande passato» noi italiani la accusiamo più di tanti altri per l’enormità rappresentata dalla storia di Roma per l’umanità. Poi è intervenuta l’Unità d’Italia: snodo fondamentale della nostra storia, ma passaggio sofferto perché avvenuto di fatto più come un’annessione dei territori del Sud al Regno sabaudo che non come un’armonica ricomposizione di un’unica nazione. E ciò in parte ha contribuito ad alimentare questo scetticismo del popolo nei confronti dell’autorità dello Stato e delle sue élite, proprio come Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha magistralmente cristallizzato nella massima del Gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
E nel primo Novecento di cose ne sono cambiate. I repentini mutamenti di uno Stato liberale ben lontano dal suffragio universale, nel quale era rappresentata una ristretta parte della popolazione aristocratica e borghese; l’avvento del fascismo e poi la nascita di una Repubblica sorta proprio sulle macerie del regime: tutto in poco più di vent’anni. È come se dal 2000 a oggi avessimo avuto tutti questi continui cambiamenti: uno Stato che per tre volte muta completamente disconoscendo quasi tutto quello che c’era prima. Compreso il passaggio dalla monarchia alla Repubblica. Poi, certo, abbiamo avuto nel dopoguerra una prima fase luminosa – quella del «miracolo italiano» –, a cui è seguito però un lungo pantano determinato dal peggio della Prima Repubblica. E proprio questo momento storico è quello che ha segnato un enorme solco fra il popolo e il Palazzo.
Il risultato di tutto questo è un’Italia che ha un forte senso della comunità nazionale ma che diffida profondamente dei propri governanti, avendo la percezione – purtroppo spesso fondata – che chi governa non lo faccia nel nome della comunità, del suo bene e del suo futuro. E allora si innesca il circolo vizioso secondo il quale, se il comandante è inadeguato, scarso e menefreghista, allora i soldati si sentono svincolati dalle loro consegne. La sfida dell’Italia è proprio questa: riuscire a risolvere la sua grande contraddizione, avendo una classe dirigente, uno Stato che siano all’altezza del popolo italiano e del forte sentimento di unità che gli italiani hanno più volte dimostrato.
Non sarà facile recuperare la piena fiducia degli italiani nelle istituzioni. Troppe volte dopo la loro solidarietà sono rimaste le macerie. Per anni. Non solo in senso figurato. Perché, oggi, siamo costretti come Fratelli d’Italia a batterci in Parlamento per destinare le risorse del Recovery Fund anche alle zone terremotate del 2009 e 2016? Perché vediamo, come già in troppe altre occasioni, le casette provvisorie magari coperte di neve con gli abitanti disperati per degli aiuti che potrebbero ridare stabilità e futuro, che però non arrivano mai?
Forse non ci sentiamo popolo perché lo Stato a volte non ha rispettato il suo popolo. E non lo siamo perché c’è chi non vuole.
Quando il terremoto distrusse Avezzano nel 1915, il più grande intellettuale e comunicatore dell’epoca, Gabriele D’Annunzio, disse che gli italiani che accorrevano per aiutare erano il simbolo di un’Italia che poteva essere migliore e i libri che venivano fatti leggere a scuola raccontavano lo stesso. Pensate alle storie del libro Cuore di Edmondo De Amicis.
Quell’Italia era unita perché la cultura, la storia, l’educazione ci spingevano a esserlo.
E oggi? Quanti film raccontano dei volontari della Protezione civile? Non sarebbe una bella storia quella di due che si innamorano mentre salvano vite? Non sarebbe commovente seguire le vicende di uno studente universitario che scopre il suo posto nel mondo accorrendo ad aiutare sconosciuti che sono, come lui, italiani?
Eppure film simili non vengono girati.
E questo perché per troppi anni la cultura è stata in mano a una sinistra senza patria, a quella che, svendendo la nostra identità, ci ha voluto più deboli e meno capaci di essere popolo.
Tuttavia, nonostante decenni di propaganda anti-italiana, ancora c’è chi crede alla nostra nazione. Perché, in fondo, l’unica lezione che conta è quella di una vecchia canzone, che tutti conosciamo e che ci ripete ogni giorno: «Uniti, per Dio, chi vincer ci può?».
Siamo figli della nostra storia. Di tutta la nostra storia. Come per ogni nazione, il percorso che abbiamo fatto è complesso, molto più articolato e complicato di come lo si vorrebbe raccontare. So di entrare in un campo minato, ma non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo. D’altra parte, conosco ogni nome e ogni storia dei giovani sacrificati negli anni Settanta sull’altare dell’antifascismo. Talvolta solo per aver scritto un tema a scuola, e per questo condannati a morte. Questa violenza, culturale oltre che fisica, ha certamente generato in me una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Non lo nego affatto. Ma qui finisce il mio rapporto col fascismo. Davvero non saprei cos’altro aggiungere in più di quanto potrebbe fare, molto meglio di me, un qualunque storico che volesse analizzarne le caratteristiche e l’impatto su una società di quasi cent’anni fa.
Se poi mi si chiedesse un giudizio sull’infamia delle leggi razziali, non potrei che rispondere raccontando le mie personali sensazioni all’interno dello Yad Vashem di Gerusalemme. O meglio, all’uscita.
Lo visitai durante un viaggio ufficiale in Israele, al quale partecipavo come ministro del governo italiano. Fui accolta con curiosità e rispetto dalle autorità israeliane, malgrado avessi voluto visitare anche un campo profughi palestinese. La fredda modernità della struttura museale dedicata alle vittime della Shoah, mi sarebbe poi apparsa stridente con l’atmosfera soffocante al suo interno. Un racconto devastante fatto di immagini, cose, suoni. La Sala dei Nomi conclude il cammino nel museo ed è l’essenza del percorso nella memoria. È costituita da due coni, uno sospeso in aria e l’altro alla sua base, riempito di acqua. E in quello spazio unico sono raccolti i volti e i nomi di chi perse la vita in quella follia, per sempre. Migliaia di fotografie, di storie, ed è come se fossero tutti lì a guardarti, a chiederti cosa tu sia disposto a fare per impedire che accada di nuovo. Così quelle vittime vivono ancora, in eterno. Perché la straordinaria legge del contrappasso dello Yad Vashem è proprio restituire la vita a chi è morto, restituire umanità a chi la perse brutalmente. Ripercorrendo la strada a ritroso: da numero a nome.
Credo che nessuno possa uscire da quel luogo essendo la stessa persona che vi è entrata.
Ho continuato a pensarci a lungo, domandandomi come fosse stato possibile quell’orrore. Un genocidio si consuma a piccoli passi, poco alla volta. Viltà dopo viltà. Fino ad arrivare alla completa disumanizzazione delle vittime, attraverso vignette all’apparenza innocenti, canzoncine offensive intonate senza pensarci, pettegolezzi diffusi sempre più insistentemente.
Si tratta del punto di caduta del genere umano, non ho dubbi su questo. E non è affatto scontato che non possa ripetersi in futuro, in qualunque parte del pianeta, nonostante la maggiore conoscenza a cui oggi il mondo può attingere con facilità. La persecuzione degli ebrei non venne perpetrata nell’ignoranza, ma sostenuta da intellettuali, filosofi, scrittori. Soprattutto in Germania, che mai come allora rappresentava il vertice planetario nell’economia, nel pensiero, nelle scienze, nella musica. Ma accadde anche in Italia, durante il fascismo, malgrado fossero ebrei molti dei protagonisti dell’ascesa di Mussolini, come tanti degli eroi italiani della Prima guerra mondiale. È qualcosa che non sono mai riuscita a comprendere, e credo valga lo stesso per molti italiani dell’epoca.
Nel vialetto dietro il Memoriale dei Bambini all’interno dello Yad Vashem, c’è un albero dedicato a Giorgio Perlasca. Poco distante c’è un’intera foresta in cui sono stati piantati diecimila alberi, a simboleggiare le vite degli ebrei da lui salvati in Ungheria. Perlasca non fu solo un fervente sostenitore del fascismo, una camicia nera, fu anche protagonista della guerra in Etiopia e un volontario nella guerra civile in Spagna al fianco di Franco. È lì che imparò lo spagnolo, che gli permise di fingersi console generale iberico, salvando migliaia di vite, mettendo a rischio la propria. Il paradosso che avvolge il miracolo di astuzia e coraggio compiuto da Perlasca è che sarebbe scivolato via, nel dimenticatoio delle umane vicende, se fosse dipeso dalla sua ritrosia o dalla cronaca antifascista nazionale. Se oggi conosciamo (in pochi) la sua storia è perché le persone salvate nel ghetto di Budapest non sono riuscite a dimenticarlo. Soprattutto le donne, quelle che poi sarebbero diventate madri e nonne, generando migliaia di bambini altrimenti mai nati. Che a loro volta diventeranno genitori e così via. È impressionante come un gesto di coraggio o di altruismo possa avere conseguenze così importanti, persino immortali. Come l’opposto, purtroppo.
Ed è qualcosa alla portata di ognuno, in ogni momento della Storia. È qualcosa che ci riguarda tutti.
Nel mio viaggio in Israele, come in quelli negli USA, nel Regno Unito, in Irlanda, in Francia, in Spagna, in Giappone, in Sudafrica e Kenya, e in tutti i luoghi che ho potuto visitare per conoscere popoli diversi e arricchire la mia anima, ho avuto il grande vantaggio di poter interloquire direttamente con molte persone, senza bisogno di un interprete. Potrebbe sembrare curioso che una persona come me, così legata alla sua appartenenza, sia, allo stesso tempo, appassionata di lingue straniere. Perché la verità è che il sogno della mia vita era fare, di mestiere, l’interprete. Alla fine del liceo tentai anche di iscrivermi alla scuola per interpreti e tra...

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