Sulla vita
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Sulla vita

Lev Nikolaevic Tolstoj, Emanuela Guercetti

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  1. 252 páginas
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Sulla vita

Lev Nikolaevic Tolstoj, Emanuela Guercetti

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Información del libro

Scritto alla soglia dei sessant'anni, quando era già noto e seguito per le sue posizioni religiose eretiche, ma non era ancora diventato un oppositore del potere zarista, Sulla vita espone le idee di Tolstoj sul significato della vita e della morte, intesa come il passaggio a una dimensione eterna nel tempo e infinita nello spazio. L'autore si interroga sullo scopo ultimo dell'essere umano in una forma filosofica e insieme pedagogica, destinata a coloro che, in numero sempre crescente, aderivano al suo insegnamento. Censurato in patria, il libro conobbe un immediato successo nel resto dell'Europa e negli Stati Uniti, per poi passare in secondo piano rispetto alla produzione narrativa. Solo negli ultimissimi anni l'interesse per il Tolstoj filosofico sembra essersi rinnovato, ed è emersa un'idea più chiara della continuità con il Tolstoj narratore. Pubblicato qui in una nuova traduzione che restituisce tutte le sfumature linguistiche e concettuali di un testo denso di immagini e significati, Sulla vita illumina di una luce nuova l'opera letteraria del grande scrittore russo.

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Información

Editorial
BUR
Año
2021
ISBN
9788831804554
Categoría
Literature

Appendice 1

Di solito si dice: noi non studiamo la vita in base alla consapevolezza che abbiamo della nostra vita, ma in generale, al di fuori di noi. Questo però equivale a dire: noi non osserviamo gli oggetti con gli occhi, ma in generale, al di fuori di noi.
Vediamo gli oggetti fuori di noi perché li vediamo nei nostri occhi e conosciamo la vita fuori di noi solo perché la conosciamo in noi. E così vediamo gli oggetti solo come li vediamo nei nostri occhi, e definiamo la vita fuori di noi solo come la conosciamo in noi. Ora, in noi conosciamo la vita come aspirazione al bene. E pertanto, senza definire la vita come aspirazione al bene, non la si può non solo osservare, ma neppure vedere.
Il primo e principale atto della nostra conoscenza degli esseri viventi consiste nell’includere molti elementi diversi nel concetto di un singolo essere vivente, e nell’escludere questo essere vivente da tutto il resto. E facciamo entrambe le cose sulla base della definizione (che tutti troviamo nella nostra coscienza) della vita come aspirazione al bene per noi stessi in quanto esseri distinti dal resto del mondo.
Riconosciamo che un uomo su un cavallo non è una pluralità di esseri e non è un essere solo non perché osserviamo tutte le parti che compongono l’uomo e il cavallo, ma perché né nella testa, né nelle gambe, né nelle altre parti dell’uomo e del cavallo vediamo un’aspirazione al bene distinta, come quella che conosciamo in noi stessi. E riconosciamo che l’uomo sul cavallo non è un solo essere ma due, perché vi riconosciamo due distinte aspirazioni al bene, mentre in noi stessi ne conosciamo una sola.
Solo da questo riconosciamo che c’è vita nell’unione del cavaliere e del cavallo, che c’è vita in una mandria di cavalli, che c’è vita negli uccelli, negli insetti, negli alberi, nell’erba. Se invece non sapessimo che il cavallo desidera il proprio bene e così l’uomo, che lo stesso desidera ogni singolo cavallo della mandria, che quel bene lo desidera ogni uccello, moscerino, albero, filo d’erba, non vedremmo gli esseri distinti l’uno dall’altro, e non vedendo questa singolarità non potremmo mai capire nulla di vivo: un reggimento di cavalleggeri, un gregge, gli uccelli, gli insetti e le piante – tutto sarebbe come le onde del mare, e tutto il mondo si fonderebbe per noi in un unico moto indifferenziato, in cui non potremmo mai trovare la vita.
Se so che il cavallo, e il cane, e la zecca nascosta nel suo pelo sono esseri viventi, e posso osservarli, è solo perché il cavallo e il cane e la zecca hanno ciascuno il proprio scopo distinto: lo scopo, per ciascuno, del proprio bene. E lo so perché la stessa aspirazione al bene la conosco in me.
In questa aspirazione al bene consiste il fondamento di qualsiasi conoscenza della vita. Nessuno studio, nessuna osservazione della vita è possibile, se non si ammette che l’aspirazione al bene che l’uomo sente in sé è vita e segno di ogni vita. Perciò l’osservazione comincia quando la vita è già nota, e non è osservandone le manifestazioni che si può (come suppone la falsa scienza) definire la vita stessa.
Gli uomini non ammettono che si definisca la vita come l’aspirazione al bene che trovano nella loro coscienza, ma ammettono la possibilità di conoscere questa aspirazione nella zecca, e sulla base di questa ipotetica, infondata conoscenza del bene a cui aspira la zecca, fanno osservazioni e traggono conclusioni sull’essenza stessa della vita.
Qualsiasi mio concetto della vita esterna è basato sulla consapevolezza della mia aspirazione al bene. E perciò solo dopo aver appreso in che cosa consistono il mio bene e la mia vita sarò in grado di apprendere anche che cosa sono il bene e la vita degli altri esseri. Mentre non potrò mai conoscere il bene e la vita degli altri esseri, senza aver conosciuto la mia.
Osservare gli altri esseri, i quali tendono ai loro scopi che mi sono ignoti e che presentano analogie con il bene al quale sento dentro di me di aspirare, non solo non può chiarirmi niente, ma probabilmente può ostacolare la mia vera conoscenza della vita.
Infatti, studiare la vita negli altri esseri senza avere una definizione della propria è come tracciare una circonferenza senza conoscerne il centro. Solo dopo aver fissato un punto fermo come centro si può tracciare la circonferenza. Ma qualunque figura disegniamo, senza un centro non sarà una circonferenza.

Appendice 2

Studiando i fenomeni che accompagnano la vita e supponendo di studiare la vita stessa, la falsa scienza con questa supposizione travisa il concetto di vita; e perciò, quanto più a lungo studia il fenomeno di ciò che chiama vita, tanto più si allontana dal concetto di vita che vuole studiare.
Inizialmente si studiano i mammiferi, poi gli altri vertebrati, i pesci, le piante, i coralli, le cellule, gli organismi microscopici, e si arriva al punto di non distinguere più fra viventi e non viventi, fra organico e inorganico, fra i confini di un organismo e quelli di un altro. Si arriva al punto che l’oggetto più importante d’indagine e di osservazione sembra essere ciò che non è più osservabile. Sembra che il mistero della vita e la spiegazione di tutto stia in virgole, in esserini non già visibili, ma piuttosto ipotizzabili, oggi scoperti e domani dimenticati. Si suppone di trovare la spiegazione di tutto in organismi che sono contenuti in organismi microscopici, e in altri a loro volta contenuti in quelli… e così via all’infinito, come se l’infinita divisibilità del piccolo non fosse anch’essa infinità, come quella dell’infinitamente grande. Il mistero si svelerà quando tutta l’infinità del piccolo sarà indagata fino in fondo, cioè mai. E gli uomini non si accorgono di come l’idea che il quesito trovi soluzione nell’infinitamente piccolo sia la prova inconfutabile che il quesito è mal posto. E proprio quest’ultimo stadio di follia – che mostra chiaramente la totale perdita di senso delle indagini – è ritenuto trionfo della scienza; l’estremo grado di cecità è creduto suprema acutezza visiva. Gli uomini sono entrati in un vicolo cieco e così hanno toccato con mano quanto fosse sbagliata la via per la quale procedevano; ma non c’è comunque limite ai loro entusiasmi. Basta potenziare ancora un poco i microscopi e comprenderemo il passaggio dall’inorganico all’organico e dall’organico allo psichico, e ci si svelerà tutto il segreto della vita.
Studiando le ombre invece degli oggetti, gli uomini si sono completamente dimenticati dell’oggetto di cui studiavano l’ombra, e immergendosi sempre di più nell’ombra sono arrivati alle tenebre assolute, e si rallegrano che l’ombra sia totale.
Il senso della vita è rivelato nella coscienza dell’uomo come aspirazione al bene. Lo scopo principale e il lavoro della vita di tutta l’umanità consiste nell’approfondire questo bene, nel definirlo in modo sempre più esatto, ed ecco, poiché questo lavoro è difficile, cioè non è un gioco ma un lavoro, gli uomini decidono che la definizione di questo bene non si può trovare dove è depositata, cioè nella coscienza razionale dell’uomo, e perciò bisogna cercarla ovunque, tranne dove ci viene indicata.
Così farebbe chi ricevesse un biglietto con l’esatta indicazione di ciò che gli serve e, non sapendolo leggere, gettasse via il biglietto e domandasse a tutti quelli che incontra se non sanno che cosa gli serve. La definizione della vita come aspirazione al bene, che a lettere indelebili è scritta nell’anima dell’uomo, viene cercata ovunque, fuorché nella sua coscienza. Ciò è tanto più strano in quanto tutta l’umanità, nella persona dei suoi più saggi rappresentanti, a cominciare dalla massima greca che recita «Conosci te stesso», ha detto e continua a dire l’esatto contrario. Tutte le dottrine religiose non sono altro che definizioni della vita come aspirazione al bene reale, non ingannevole e accessibile all’uomo.

Appendice 3

La voce della ragione si fa sentire sempre più distintamente; l’uomo ascolta sempre più spesso questa voce, e viene l’ora, anzi è già venuta, che questa voce diventa più forte di quella che chiama al bene personale e a un dovere ingannevole. Diviene sempre più chiaro, da una parte, che la vita individuale con le sue seduzioni non può dare alcun bene, e dall’altra che l’assolvimento di qualsiasi dovere prescritto dagli uomini è solo un inganno che priva l’uomo della possibilità di assolvere il suo unico dovere – verso quel principio razionale e buono dal quale proviene. L’antico inganno che esige la fede in ciò che non ha una spiegazione razionale si è ormai logorato, e non vi si può ritornare.
Prima dicevano: «Non discutere, ma credi al dovere che noi prescriviamo. La ragione ti ingannerà. Solo la fede ti rivelerà il vero bene della vita». E l’uomo cercava di credere e credeva, ma i contatti con i suoi simili gli hanno mostrato che altri uomini credono in qualcosa di molto diverso e affermano che questo qualcosa dà all’uomo un bene più grande. È diventato inevitabile risolvere il problema di quale fra le molte fedi sia la più giusta; e risolverlo può solo la ragione.
L’uomo conosce sempre tutto attraverso la ragione, e non attraverso la fede. Si poteva cercare di ingannarlo, affermando che conosce attraverso la fede, e non attraverso la ragione; ma non appena conosce due religioni e vede uomini che professano un’altra religione così come lui professa la propria, egli è inevitabilmente costretto a risolvere la faccenda con la ragione. Se il buddista che ha conosciuto l’islamismo rimarrà buddista, non sarà più per fede, ma per ragione. Non appena gli si presenta un’altra religione, il problema se respingere la propria o la nuova che gli propongono si risolve inevitabilmente con la ragione. E se, dopo aver conosciuto l’islamismo, rimane buddista, la precedente cieca fede in Buddha si fonda ormai inevitabilmente su basi razionali.
Gli attuali tentativi di infondere nell’uomo un contenuto spirituale attraverso la fede, prescindendo della ragione, sono come tentativi di nutrire un uomo prescindendo dalla bocca.
I contatti fra gli uomini hanno mostrato loro il fondamento universale della conoscenza, ed essi non possono più tornare agli errori precedenti – l’ora viene, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio; e avendola udita, vivranno.1
Questa voce non si può soffocare, perché non è una voce isolata, ma è la voce di tutta la coscienza razionale dell’umanità, che parla sia in ogni singolo uomo, sia negli uomini migliori dell’umanità, e oggi, ormai, nella maggioranza degli uomini.
1. Giovanni, 5,25. (N.d.T.)

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