Gente con le scarpacce, aveva detto Berenguer Remont II a bassa voce, anche se abbastanza chiaramente perché Ruy Díaz potesse sentirlo. Malcalçats. Era stata quella la parola che aveva fatto trapelare ai suoi, in un tono che i cortigiani, la mezza dozzina che in quel momento lo accompagnava, avevano approvato con silenziosi sorrisi.
Gente con le scarpacce.
Non era un insulto ma una definizione, però lasciava in aria il sospetto. Perfino il falconiere del conte, che reggeva sul guanto un uccello incappucciato, aveva incurvato le labbra in una smorfia di disprezzo passando dal guardare le raffinate calze e i borzacchini dei cavalieri franchi alle rozze calzature di cuoio ingrassato di Ruy Díaz e Minaya Álvar Fáñez.
Malcalçats. E i sorrisi.
La verità era che avevano ragione. E non soltanto per le scarpe. A differenza di Berenguer Remont e dei suoi, i due castigliani vestivano all’uso militare, senza cotte di maglia né armi, eccezion fatta per le spade e le daghe alla cintura, con farsetti imbottiti e stivali da monta con gli speroni. Per di più, erano ricoperti di polvere dopo aver lasciato indietro la truppa per percorrere, senza altra compagnia che un araldo inviato a prenderli, più di una lega fino ai dintorni di Agramunt, all’accampamento del conte di Barcellona. Quest’ultimo li aveva accolti con più curiosità che cortesia dopo averli fatti aspettare un po’, perché tornava da una battuta di caccia e si stava rimettendo in ordine. Adesso era seduto su uno sgabello sotto una tenda, circondato dalla sua gente in piedi, con la spada slegata e una coppa in mano. Aveva anche offerto del vino a Ruy Díaz e a Minaya, ma senza invitarli a sedere.
«Conosco la vostra storia, perciò potete risparmiarmela» disse il conte quando Ruy Díaz cominciò a raccontare il suo esilio. «Le notizie volano, e sono arrivate fino a qui… L’insolenza con Alfonso e tutto il resto.»
Era ancora giovane, e questo lo rendeva altezzoso e troppo sicuro di sé. Di bell’aspetto, alto, sfoggiava una barbetta biondo rossiccia con dei baffi ricci. Occhi chiari, molto del Nord. Grossa catena d’oro al collo. I suoi modi erano di languida autorità e davano per scontato, alla prima occhiata, che in cima alla gerarchia di quel luogo della terra c’erano Dio e lui stesso, per via diretta e in quell’ordine. Allevato nel potere e per esercitarlo un giorno, Berenguer Remont aveva ereditato la contea di Barcellona in condominio con un fratello gemello, Remont Berenguer, che aveva da poco fatto assassinare per sgomberare il panorama. Era padrone e signore di quelle terre, e il re moro di Lérida gli pagava tributi per essere lasciato in pace.
«A cosa devo l’onore della vostra visita?»
Se la cavava bene, notò Ruy Díaz, nel fare in modo che, grazie al tono, sulle sue labbra perfino le parole cortesi suonassero sprezzanti. Anche la faccenda dell’onore rimase sospesa in aria, ad aleggiare scomodamente. Stavolta nessuno sorrise, ma l’espressione del conte precisava e smentiva le sue parole.
Ruy Díaz si guardò intorno. I volti in attesa. Scambiò un’occhiata di sottecchi con Minaya e fissò di nuovo il conte.
«Ho una masnada di gente esperta nella guerra» disse con semplicità.
«Così abbiamo sentito. Quanti sono?»
«Con gli ultimi arrivi, quasi duecento lance… Sono accampati a due giornate da qui, alla frontiera.»
«Siete partiti dalla Castiglia con meno persone, mi hanno detto.»
«In questi tre mesi si è unita a me altra gente.»
Il conte bevve un sorso di vino, prendendosi il suo tempo. Era ovvio che assaporava i propri silenzi.
«Continuo a non sapere a cosa dobbiamo il fatto che siate qui» commentò alla fine, dopo essersi asciugato le labbra. «Nelle nostre terre.»
Sottolineava il nostre, e anche in quello c’era una fredda arroganza. Terre, insinuava, che confinavano quasi con quelle del conte di Tolosa, dei duchi di Guascogna e dei margravi di Gotia: franchi come lui, gente del Nord, i suoi uguali. Quello era un altro mondo, proveniente dal vecchio antenato Carlomagno. Niente a che vedere con i rozzi aragonesi, gli infedeli saraceni o i polverosi castigliani. Con quella gentaglia meridionale.
«Continuo a non saperlo» ripeté.
Ruy Díaz si strinse nelle spalle.
«Siamo una milizia senza signore.»
«E allora?»
«Non è un bene esserne privi.»
Un’altra pausa deliberata. Berenguer Remont esaminava il vino della sua coppa come se qualcosa lo disturbasse.
«Mi state offrendo i vostri servigi, Ruy Díaz?»
«Sì.»
Dopo un momento, il conte allungò la coppa a uno dei suoi cortigiani, senza guardarlo, e lui se ne occupò.
«E cosa potrei farci con le vostre quasi duecento lance?»
«Siete in lite con il re cristiano d’Aragona e con i re mori di Lérida, Saragozza e Valencia.»
Berenguer Remont fece un gesto svogliato, indicando l’arma che era lì vicino, disposta su un cuscino di velluto come se si trattasse di un ornamento sacro. Era un pezzo di forgia famoso, conosciuto per essere passato di padre in figlio nel casato di Barcellona. La chiamavano Tusona, o Tizona.
«Per quello dispongo della mia spada e della mia gente.»
«Duecento bravi cavalieri esperti non sono mai di troppo.»
All’improvviso il conte sorrise, come se gli fosse appena passato per la testa un pensiero divertente.
«A volte sono in lite anche con il re di Castiglia.»
Ruy Díaz rimase impassibile, senza muovere un solo muscolo del volto. Sentiva lo sguardo di sottecchi, inquieto, di Minaya. Con grande calma, imitando il gesto del conte, passò a Minaya la sua coppa di vino e infilò i pollici nella cintura della spada.
«È l’unico contro il quale non posso combattere» disse.
L’espressione di Berenguer Remont era diventata torva.
«Perché?… Vi ha esiliato dalle sue terre. Secondo le vecchie usanze, siete libero di servire chiunque. O di combattere contro chiunque.»
«Non contro di lui. Se mi ha esiliato è perché è nel suo diritto. È il mio signore naturale.»
«Questo non è scritto da nessuna parte.»
«Sì che lo è.»
«Ah, caspita… Dove?»
«Nella mia coscienza.»
Il conte lo osservò per un altro istante in silenzio.
«Conosco la vostra vita, Ruy Díaz» disse alla fine. «Sono al corrente del vostro, hum… prestigio.» Esitò prima di proseguire, riluttante a concedere quell’ultima parola. «Mi sono informato prima di ricevervi, e penso che un uomo della vostra qualità non abbia spazio tra la mia gente. A meno che…»
Lasciò lì la frase, con l’aria scaltra, come se stesse giocando agli indovinelli. Ruy Díaz era sempre immobile. Inespressivo.
«A meno che, signore?»
«A meno che non prestiate giuramento di lealtà senza riserve. Che obbediate anche all’ultimo dei miei ordini.»
Ruy Díaz prevedeva quello che stava per accadere.
«Castiglia compresa?»
«Castiglia e León, ovviamente. Le ambizioni di Alfonso finiranno per scontrarsi con le mie… È solo questione di tempo.»
Ruy Díaz sembrò pensarci su. Alla fine scosse lentamente la testa.
«Non posso farlo.»
«Perché?»
«Lo sapete il perché, signore. Macchierebbe il mio nome.»
«Il vostro nome sarà qualcosa alla frontiera, ma qui non vale quasi nulla.»
Ruy Díaz lasciò trascorrere un istante, le labbra serrate. Trattenendosi. Non voleva dire niente di cui poi pentirsi. Non era il luogo né il momento.
«Forse» disse alla fine. «Però il mio nome è l’unico patrimonio che possiedo. Quanto alla mia lealtà…»
L’altro alzò una mano.
«Se pago uno stipendio a voi e alla vostra truppa» lo interruppe, aspro, «l’unica lealtà la dovrete a me.»
Ruy Díaz si voltò verso Minaya. Ancora con una coppa di vino in ogni mano, il suo luogotenente aveva la fronte corrucciata e una sfumatura di cautela nello sguardo. Parla con accortezza, diceva la sua espressione. Lascia ciò che sei e siamo per dopo, o qui ci impiccano entrambi.
Malgrado ciò, decise di fare un ultimo tentativo. Era troppo quello che era in gioco, e voleva che nulla rimanesse intentato. Duecento uomini dipendevano da lui per guadagnarsi il pane.
«Tutto si può fare, signore» disse. «Vedete ciò di cui è capace la mia gente… Utilizzatemi contro i mori, se volete. O contro navarri e aragonesi. Ma non contro il mio re.»
«Non hai più un re, Ruy Díaz.»
Il tu arrivò brusco, insultante come un ceffone, e Ruy Díaz sentì il sangue che defluiva di colpo dal volto. Soltanto un monarca aveva il diritto di parlargli in quel modo, o un sacerdote che esercitasse il suo ministero. Quello là non era altro che il conte di Barcellona. Senza rendersene conto, appoggiò la mano sinistra sull’elsa della spada. Ne fu consapevole quando vide i cortigiani franchi metterglisi davanti, preoccupat...