Dissidenti
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Dissidenti

Da Aleksei Navalny a Nadia Murad, da Azar Nafisi al Dalai Lama: incontri con donne e uomini che lottano contro i regimi

Gianni Vernetti

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Da Aleksei Navalny a Nadia Murad, da Azar Nafisi al Dalai Lama: incontri con donne e uomini che lottano contro i regimi

Gianni Vernetti

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Esiliati, incarcerati, perseguitati. Sono i nuovi dissidenti di Russia, Cina, Hong Kong, Tibet, Bielorussia, Turchia e Iran. Donne e uomini semplici e straordinari che con la forza della parola e dell'esempio hanno denunciato genocidi, violenze di Stato, abusi.
Gianni Vernetti ci accompagna in un racconto appassionante fra le montagne del Kurdistan, dove i combattenti curdi hanno sconfitto le milizie jihadiste dell'Isis; sulle pendici dell'Himalaya, dove un pugno di monaci coraggiosi ha salvato la millenaria cultura tibetana; nella piccola e combattiva Lituania, che ha conosciuto tutti i totalitarismi del XX secolo e oggi accoglie i dissidenti di Russia e Bielorussia; nell'isola di Taiwan, che resiste all'autoritarismo cinese. Un viaggio avvincente accompagnato dai racconti dei protagonisti che hanno alzato la voce contro regimi autoritari sempre più assertivi, pagando sulla propria pelle la loro scelta.
Da Nathan Law, leader delle proteste di Hong Kong, a Svjatlana Tsikhanouskaja, eletta a presidente della Bielorussia ma costretta all'esilio; da Aleksei Navalny, Leonid Volkov, Garry Kasparov e Mihail Khodorkovsky, spine nel fianco del regime di Vladimir Putin, a Masih Alinejad che si batte per i diritti delle donne in Iran, passando per il Dalai Lama e Dolkun Isa, testimoni della tragedia di tibetani e uiguri; fino a Denis Mukwege, medico premio Nobel che cura le donne vittime di abusi sessuali in Congo. Vernetti riesce, con un'analisi attenta di questa stagione di recessione democratica, a tracciare una precisa geografia del dissenso, spiegando con passione perché la battaglia per i diritti umani, lo stato di diritto, la libertà delle donne debba essere raccolta dai Paesi liberi.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2022
ISBN
9788831807371
Categoría
Storia
Categoría
Storia mondiale
Parte seconda

Dissidenti

1

Wu’er Kaixi, il ragazzo con il pigiama

Spesso in Occidente ritenete che la Cina sia quasi giunta vicino alla vostra porta di casa, ma non è così: è già entrata nel vostro soggiorno e vi chiede di cambiare il vostro stile di vita per adottare il suo.
La protesta studentesca di piazza Tienanmen a Pechino fra il 15 aprile e il 4 giugno 1989 è stata, come amano scrivere gli storici, un «evento cesura» che non solo ha cambiato radicalmente la Cina, ma ha anche contribuito a innescare quell’onda tellurica che da lì a poco avrebbe investito i Paesi comunisti dell’Europa Orientale e l’intera Unione Sovietica.
Tra il massacro di piazza Tienanmen e la caduta del muro di Berlino passano soltanto cinque mesi. Cinque mesi nei quali la storia in Cina e nel resto del mondo intraprende due percorsi molto diversi.
Come in una sliding door, l’Europa in quelle settimane osserva incredula migliaia di famiglie in fuga dai campeggi del lago Balaton in Ungheria per attraversare le frontiere con l’Austria e la Germania Ovest, fino al giorno prima presidiate dai blocchi contrapposti della cortina di ferro. Poi la dissoluzione della Germania Est, con il crollo del muro di Berlino. Il desiderio di libertà e democrazia sembrava inarrestabile e raggiunse prima tutti i Paesi del patto di Varsavia, dando il via alla vera unificazione europea, fino a scuotere dalle fondamenta l’Unione Sovietica. Serviranno pochi anni perché il gigante comunista si dissolva, certificando la fine della guerra fredda.
Quella della Repubblica Popolare Cinese, invece, è una parabola diversa. La notte fra il 3 e il 4 giugno 1989 la voglia di libertà e democrazia degli studenti, degli operai e degli intellettuali della piazza nel cuore di Pechino viene spazzata via dall’intervento dell’Esercito popolare di liberazione, mai coinvolto in un conflitto al di fuori della Cina, ma sempre e soltanto utilizzato per ricondurre all’ordine ogni tentativo di deviare dall’ortodossia del regime del partito unico e per impedire ogni possibile «svolta democratica».
La durissima repressione di piazza Tienanmen mette così la parola fine a una breve stagione riformista che attraversa la Cina negli anni Ottanta. Uno dei leader della rivolta studentesca, Wang Dan,1 ne ha dato conferma, il movimento aveva caratteristiche non tanto «rivoluzionarie», ma prevalentemente «riformatrici»: il 18 aprile 1989 una delegazione dei leader studenteschi presenta nella Grande sala del popolo di Pechino la «Petizione in sette punti» che sintetizza le richieste del movimento.
Gli obiettivi indicati in questa petizione includono, tra gli altri: la pubblicazione degli stipendi e di tutte le altre forme di reddito dei vertici istituzionali; consentire le pubblicazioni private e la libertà di stampa, con l’abolizione della censura entro un termine stabilito; l’aumento dei fondi per l’istruzione; un’adeguata valutazione degli errori e delle conquiste dell’ex segretario generale riformista Hu Yaobang; un completo ripudio della campagna contro la «liberalizzazione borghese» che aveva provocato la rimozione di Hu, inclusa la riabilitazione dei cittadini che hanno subito ingiustizie durante queste campagne.
Il consenso nei confronti delle rivendicazioni studentesche all’interno dello stesso Partito comunista è alto, a cominciare dall’allora segretario generale del partito Zhao Ziyang. Sarà proprio lui a tentare fino all’ultimo di raggiungere una mediazione con il movimento studentesco per evitare il massacro.2 Una figura, la sua, che avrebbe voluto avviare un percorso di riforme simile a quello intrapreso poco tempo prima da Gorbačëv in Unione Sovietica.
La dimensione della mobilitazione a Pechino e in altre trecento città della Cina, il rischio di «contagio» riformatore all’interno dello stesso partito, spingono l’allora primo ministro Li Peng, con il sostegno del leader storico Deng Xiaoping, ad adottare la linea dura nei confronti degli studenti. È la dimostrazione piena dell’impossibilità di riformare il regime dall’interno.
Di lì in poi la storia è nota: gli editoriali al vetriolo sul «Quotidiano del Popolo» che accusano gli studenti di essere strumento delle potenze occidentali e di «complottare contro lo Stato»; la proclamazione della legge marziale; l’estromissione del segretario generale del PCC Zhao Ziyang (costretto dopo l’epurazione agli arresti domiciliari, fino alla morte nel 2005); l’intervento militare con centonovantamila soldati dell’esercito chiamati dalle province lontane dalla capitale, dopo che alcuni reparti militari hanno solidarizzato con i manifestanti. Infine, le cifre più crude: duemilaseicento morti e decine di migliaia di feriti fra gli studenti.
Della rivolta di piazza Tienanmen rimangono, consegnate per sempre alla storia, le immagini della «Dea della democrazia e della libertà», la statua in polistirolo e cartapesta alta oltre dieci metri costruita dagli studenti, e lo sconosciuto immortalato da Jeff Widener dell’Associated Press mentre ferma i carri armati sul grande viale Chang’an a poche centinaia di metri dalla piazza.
Tienanmen è stata uno spartiacque nella storia contemporanea della Cina, ma non solo. Ha influenzato in modo significativo lo sviluppo successivo del gigante d’Oriente: chiusura definitiva verso ogni riforma politica in grado di mettere in discussione la leadership del partito unico; apertura all’economia di mercato guidata e controllata dal sistema delle State-Owned Enterprises (imprese di proprietà dallo Stato); la crescita economica barattata con la libertà.3
Nelle ore successive al massacro dell’alba del 4 giugno 1989 molti leader di quella straordinaria stagione di libertà vengono incarcerati o tentano la fuga, quasi tutti verso l’allora colonia britannica di Hong Kong, duemila chilometri a sud di Pechino.
Dieci giorni dopo l’irruzione dei carri armati in piazza Tienanmen e la fine del movimento che era riuscito a portare per strada oltre un milione di cittadini cinesi, l’Ufficio di sicurezza pubblica di Pechino rende pubblica la lista di ventuno leader studenteschi ricercati.4 In tutta la Cina si scatena una caccia all’uomo. Vengono catturate alcune delle figure più in vista del movimento, come Wang Dan e Han Dongfang, ma la maggior parte degli attivisti riesce a raggiungere Hong Kong e poi Taiwan, gli Stati Uniti e l’Europa grazie alla cosiddetta Operazione Yellowbird5, promossa dalle intelligence britanniche e americane con la collaborazione attiva di diverse organizzazioni della città-Stato di Hong Kong, fra cui la Alliance in Support of Patriotic Democratic Movements in China.
L’organizzazione, nata proprio nei giorni della sollevazione di Tienanmen, ha svolto un ruolo decisivo nella preparazione e nella gestione della fuga dei dissidenti. Negli ultimi trentadue anni, inoltre, ha curato il Museo 4 Giugno e allestito ogni anno al Victoria Park di Hong Kong la veglia in ricordo dei caduti della rivolta del 1989.
Sembra una vicenda ormai lontana, del secolo scorso, ma non è così: nel mese di luglio del 2021, il suo segretario generale, Lee Cheuk-yan, è stato condannato a quattordici mesi di reclusione per avere organizzato l’ultima manifestazione in ricordo di Tienanmen, e per effetto della nuova legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong6 nel luglio del 2021 l’Alliance ha cessato di esistere.
Fra il giugno del 1989 e il 1997 l’Operazione Yellowbird è riuscita a trasferire fuori dai confini della Repubblica Popolare Cinese oltre quattrocento dissidenti.
Fra loro anche Wu’er Kaixi. Ai tempi di Tienanmen aveva ventun anni.
Nato il 17 febbraio 1968 da una famiglia di origine uigura nella regione dello Xinjiang, studia all’Università Normale di Pechino. Lì fonda una delle prime associazioni studentesche, la Federazione autonoma degli studenti di Pechino. Per il suo linguaggio semplice, schietto e diretto diventa, fin dall’inizio delle manifestazioni, uno dei leader più importanti della rivolta studentesca.
In uno dei momenti decisivi della protesta viene ricoverato in ospedale dopo diversi giorni di sciopero della fame. Il movimento decide che sarà lui a rappresentare la piazza nel primo confronto pubblico televisivo con il premier Li Peng. Wu’er Kaixi si presenta con un pigiama a righe, quello che indossava nella sua stanza d’ospedale. L’incontro viene trasmesso in diretta televisiva nazionale in prima serata (qualcosa che nella Cina di oggi sarebbe impensabile).
Il premier Li Peng non sa come reagire di fronte al giovane e alle richieste innovative di democrazia, trasparenza e libertà del movimento che rappresenta. Ciò che propone è un discorso paternalistico nei confronti degli studenti.
Wu’er lo interrompe ripetutamente – ricordiamolo, in diretta nazionale – accusandolo di non essere in grado di ascoltare le ragioni del movimento studentesco.7
Louisa Lim, a lungo corrispondente della BBC a Pechino, ricorda così l’episodio: «Questa audace affermazione di uguaglianza da parte di uno studente in pigiama riuscì a elettrizzare gli spettatori televisivi cinesi, abituati a vedere i leader di Stato trattati da tutti con servilismo e adulazione. Da quel giorno Wu’er Kaixi divenne un nome famigliare in Cina, e alla fine il numero due nella lista dei ricercati dal regime».8
Dopo la repressione Wu’er ripara prima in Francia, grazie alla rete di Yellowbird, per poi continuare gli studi negli Stati Uniti, all’Università di Harvard. Infine, si trasferisce nella Cina democratica di Taiwan, dove vive attualmente. Un esilio che dura da trentadue anni.
Ho incontrato a Roma e a Taipei il «ragazzo con il pigiama», che oggi ha da poco superato i cinquant’anni.
È editorialista e commentatore politico per diverse testate ed emittenti televisive taiwanesi e fa parte del Board Emeritus dell’associazione internazionale Reporters Sans Frontières/Reporters Without Borders, che si batte per la difesa della libertà di stampa nel mondo.
Degli anni di Tienanmen parla come fosse una cosa viva, non soltanto un ricordo lontano. «Alla fine degli anni Ottanta in Cina c’era una grande speranza di cambiamento e una grande voglia di libertà e democrazia. La rivolta studentesca nacque per una combinazione di fattori diversi: le prime aperture verso un’economia di mercato favorivano solo la classe dirigente controllata dal Partito comunista al potere, i casi di corruzione si moltiplicavano e la grande aspettativa di cambiamento non era soddisfatta. Nonostante ciò, la Cina stava mutando giorno dopo giorno e i giovani avevano grande fiducia che cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Questo era il contesto in cui nacque il grande movimento di Tienanmen: i giovani cinesi volevano più democrazia, libertà di parola, di stampa, Stato di diritto.»
La fine del decennio era un momento favorevole al cambiamento a livello internazionale e Tienanmen fu anche un prodotto del vento di novità e della voglia di cambiamento che stava attraversando il mondo comunista. Per alcuni versi ne fu ispirata, e al tempo stesso rappresentò una conferma per quanti nell’Europa dell’Est ritenevano imminente la fine di quei regimi totalitari.
Wu’er conferma che il clima era questo. «Eravamo certamente affascinati dall’esperienza di Solidarność in Polonia e in un certo senso tentammo di imitarla. C’era una grande speranza e sentivamo di poter cogliere un’opportunità storica per la nostra generazione; avevamo la sensazione di non essere soli. Era in atto un forte sommovimento in tutto il mondo comunista, dall’Europa dell’Est a Mosca e fino qui da noi a Pechino.»
Poi sulla piazza arrivò Michail Gorbačëv. «Sì, lo ricordo come se fosse ieri, era il 15 maggio 1989 quando il presidente Gorbačëv venne a Tienanmen a incontrare gli studenti. Era stato fissato in quei giorni il primo summit fra Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese. L’URSS di Gorbačëv si era incamminata lungo una serie di riforme politiche inimmaginabili solo fino a poco tempo prima ed eravamo convinti che la perestrojka avrebbe finito per contagiare positivamente anche il regime cinese. In più la sua visita rappresentava per noi la possibilità di aumentare il consenso politico e l’audience internazionale del nostro movimento.»
In una prima fase la rivolta di Tienanmen riscosse una grande popolarità in vasti settori della popolazione e anche all’interno dello stesso Partito comunista. «Il nostro era un movimento spontaneo, non organizzato e molto “romantico”, che ottenne subito un grandissimo sostegno popolare: giorno dopo giorno crescevano le delegazioni di impiegati, operai, insegnanti che venivano a portare la loro solidarietà. Tutto ciò ci rendeva ottimisti ed eravamo sinceramente convinti che il governo avrebbe aperto un dialogo con gli studenti e che si sarebbe incamminato sulla strada delle riforme e dell’apertura politica.»
Una convinzione che presto si sarebbe rivelata infondata. «Sì, il governo della Repubblica Popolare ignorò le richieste degli studenti, si spaventò per il grande consenso popolare che stava crescendo in tutta la Cina e dopo cinquanta giorni di pacifica e non violenta occupazione di piazza Tienanmen scelse l’opzione peggiore, quella militare.»
La violenza non colpì solo gli studenti. Furono molti anche i professori coinvolti nella protesta. Fra loro un nome che sarebbe diventato celebre a livello internazionale. Wu’er Kaixi lo ricorda così: «Liu Xiaobo insegnava nella mia facoltà, era un uomo mite ed estremamente intelligente, è stato un vero mentore per me. La sua presenza al campo tutti i giorni e la sua vicinanza al movimento studentesco furono la ragione della durissima persecuzione che subì negli anni successivi. Prima fu radiato dal corpo insegnante, poi venne ripetutamente incarcerato, e non ha potuto ritirare il premio Nobel per la pace che gli è stato conferito nel 2010. Sette anni dopo è morto, in carcere».
Per i dissidenti costretti alla fuga dai regimi dittatoriali l’esilio spesso diventa una condizione permanente dell’esistenza, creando una sorta di «vita sospesa» fra le normali necessità di integrazione nella nuova realtà e il progetto di rientro nel proprio Paese, naturalmente legato in modo indissolubile a un cambio di regime.
«Abbiamo combattuto per la libertà e il prezzo che abbiamo pagato è stato molto alto: molti hanno perso la vita, altri hanno subito il carcere o l’esilio. Ho iniziato il mio esilio in Francia, poi negli Stati Uniti e da molti anni vivo a Taiwan. Ho avuto la fortuna di vivere in tre Paesi nei quali libertà e democrazia sono la norma, non l’eccezione. Ho studiato, lavorato e viaggiato nel mondo libero e mi ritengo fortunato, ma l’esilio è una condizione terribile: da trent’anni non ho più incontrato i miei genitori. Non posso tornare in Cina e il governo ha sempre impedito loro di uscire dal Paese per vedermi. La loro unica colpa: essere i miei genitori. Questa è una concezione della giustizia barbarica e primitiva. L’esilio è una terribile forma di tortura mentale e spirituale.»
Wu’er Kaixi è consapevole che il suo status di esiliato potrà terminare solo con un cambio di mentalità a livello internazionale nei confronti dei regimi dittatoriali, troppo spesso considerati «immutabili» o peggio ancora incapaci di avviarsi verso una compiuta trasformazione democratica. Lui per primo invita a evitare il doppio rischio nel quale spesso cade l’Occidente: il relativismo culturale (La Cina ha sempre vissuto in condizioni di poca libertà dai Ming a Mao Tse-tung) e l’appeasement nei confronti dei regimi.
«Taiwan è la dimostrazione» prosegue Wu’er «di come sia possibile costruire un Paese cinese libero e democratico. Mi ha adottato ed è diventato il mio Paese. Qui è la mia casa, qui mi sono sposato, vivo e lavoro. La stampa è libera e sono editorialista e commentatore politico in diversi quotidiani e reti televisive. Taiwan ha avviato riforme radicali e oggi è compiutamente democratica: multipartitismo, Stato di diritto, magistratura indipendente, libertà di pensiero e di culto.»
È impossibile non improntare un paragone con il suo Paese. «Negli anni Ottanta la Cina si era incamminata in un positivo processo di riforme economiche e politiche, un percorso interrotto bruscamente dalla repressione militare del 1989. Le conseguenze furono immediate: un arresto della crescita economica per i due anni successivi (1990 e 1991). Deng Xiaoping a quel punto fece una scelta strategica, proponendo un nuovo patto con i cittadini: più libertà economica in cambio di maggiore cooperazione politica. Da un punto di vista politico, una mostruosità. E l’Occidente, purtroppo, ha adottato in questi trent’anni una politica di appeasement nei confronti della Cina, aiutandola oggettivamente a consolidare il proprio regime.»
Con Wu’er Kaixi discutiamo ancora del modello cinese, di un «capitalismo senza democrazia» che lega la propria stabilità interna a una costante crescita economica. Provo ad argomentare, ma lui mi interrompe subito: «Nel caso cinese si tratta di un capitalismo molt...

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