Il generale Della Rovere
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Il generale Della Rovere

Indro Montanelli

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  1. 160 páginas
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Il generale Della Rovere

Indro Montanelli

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Nella Milano occupata dai nazisti, Giovanni Bertone estorce denaro ai familiari dei partigiani caduti in mano alla Gestapo in cambio di false informazioni sulla loro sorte. Viene scoperto e costretto da un ufficiale tedesco a fingersi un generale della Resistenza, l'aristocratico e coraggioso Fortebraccio Della Rovere, e a spiare nella prigione di San Vittore i capi antifascisti. Ma quando un vero leader della Resistenza viene catturato a Milano, Bertone decide di non collaborare e viene condannato alla fucilazione con altri detenuti. Ispirato interamente a un fatto di cronaca storica, Il generale Della Rovere è in realtà un apologo della condizione di ogni essere umano, meschino di fronte all'enormità della vita - e soprattutto della vita in tempo di guerra - ma che, in un istante di grandezza, riesce a recuperare la propria umanità. Perché, come suggerisce Indro Montanelli nell'intervista che chiude il volume, non dobbiamo essere il generale Della Rovere: ci basta essere Bertone.

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Información

Editorial
BUR
Año
2020
ISBN
9788831802642

1

Nel giugno del 1945, le salme dei sessantotto fucilati di Fossoli furono riesumate dalla fossa comune in cui erano state seppellite dopo il massacro. Le loro bare, portate a Milano, vennero allineate nel Duomo per la solenne benedizione del cardinale Schuster, e ricevettero il commosso omaggio della cittadinanza.
Su una sola non caddero né lacrime di parenti, né fiori di amici. Stava un po’ in disparte e discosta dalle altre. Credo di essere stato io la sola persona che vi sostò dinanzi e vi depose un mazzo di crisantemi acquistati sulla porta della cattedrale. Ma confesso che lo feci furtivamente, un po’ timoroso che qualcuno mi vedesse. Non tutti, forse, avrebbero compreso quel gesto di pietà verso il generale Della Rovere.
Sua Eccellenza Fortebraccio Della Rovere, generale di corpo d’armata, amico intimo di Badoglio e consigliere tecnico di Alexander, era stato rinchiuso dai tedeschi nel quinto raggio della prigione di San Vittore esattamente un anno prima. Lo avevano catturato in Liguria, dov’era stato sbarcato da un sottomarino inglese per assumere il comando della Resistenza nell’Italia del Nord ancora occupata.
Così almeno mi disse la guardia Ceraso, mentre passava davanti allo spioncino della mia cella con un bicchiere in mano, dentro il quale galleggiava una rosa, ch’egli stesso era andato a cogliere in giardino per Sua Eccellenza. Questi era entrato il giorno prima. Tutti in quel momento eravamo fuori delle nostre tane per la vuotatura dei buglioli, ma fummo fatti frettolosamente rientrare, come se la sola vista di quell’uomo rappresentasse un pericolo o un delitto. Dai nostri pertugi, lo scorgemmo avanzare a passo fermo e testa eretta, scortato da due SS col mitra spianato. Si fermò proprio davanti alla cella di fronte alla mia. Guardò dentro. Disse qualcosa in tono perentorio al Feldwehbel Franz che lo seguiva. Questi impartì un ordine alle due guardie italiane, che galopparono via e tornarono poco dopo con una branda, un tavolo e un rustico lavabo. Nessun prigioniero, a San Vittore, aveva mai ricevuto simile accoglienza.
Alcuni giorni dopo, Ceraso aprì la mia porta, mi disse che Sua Eccellenza voleva vedermi e, infrangendo la regola dell’isolamento, mi scortò fino a lui.
Della Rovere aveva il monocolo, il profilo aristocratico, le gambe arcuate e la struttura leggera degli ufficiali di cavalleria, la dentiera, il busto. Aveva serbato perfettamente rase le guance, i pantaloni stirati, le unghie pulite. In quel luogo nefando dove tutti, accomunati dal sudiciume, ci davamo del tu senza distinzioni di rango e di origini, fu l’unico, dopo tanto tempo, a interpellarmi col lei.
«Capitano Montanelli, vero?» disse senza tendermi la mano impegnata a lustrare col fazzoletto il monocolo. «Sapevo della sua presenza qui prima ancora di sbarcare: Badoglio in persona me ne aveva informato a Brindisi. La sua sorte è seguita con viva simpatia, anche se con poche speranze, dal governo di Sua Maestà. Sappia però che il giorno in cui cadrà sotto il piombo del plotone di esecuzione, ella non avrà compiuto che il suo dovere, il più elementare dovere di ufficiale. Stia pur comodo!»
Solo a queste parole mi accorsi che mi ero messo sull’attenti dinanzi a lui, i tacchi uniti, le punte dei piedi ugualmente scostate ed equidistanti, i pollici tesi lungo la cucitura dei pantaloni, proprio come dice il regolamento.
«Noi siamo tutti in vita provvisoria, vero?» seguitò il generale nettando con l’unghia del mignolo sinistro quella del mignolo destro, e guardandole ambedue con compiacenza. «Un ufficiale è sempre in vita provvisoria, è un nonio de la muerte, un fidanzato della morte, come dicono gli spagnoli.» Mi guardò sorridendo, fece una lenta passeggiata su e giù per la cella, molleggiando sulle gambe arcuate, tornò a fermarsi dinanzi a me, lustrò e rinfilò il monocolo. «Noi siamo due novios prossimi alle nozze. A me la condanna è già stata comunicata. A lei?».
«Non ancora, Eccellenza» dissi un po’ mortificato.
«Gliela comunicheranno» rispose lui in tono incoraggiante. «Ma, a quanto mi è stato detto, anch’ella avrà l’onore di esser fucilato al petto, non alla schiena. I tedeschi, bisogna riconoscerlo, sono rudi nell’esigere le confessioni, ma altrettanto cavallereschi nello stimare chi se ne astiene. Ella se n’è astenuto. Bravo! Esigo che continui ad astenersene. Se seguiteranno a interrogarla con mezzi sproporzionati alle sue risorse fisiche... Può succedere... Faccia un nome solo: il mio. Dica che ha agito su mio ordine. Io non ho più niente da perdere, e il mio compito oramai è facile. L’ho detto anche al mio vecchio amico Kesselring, venuto a interrogarmi di persona. Non ci resta più che un dovere, a noi ufficiali italiani: morire bene. E in fondo è abbastanza facile assolverlo. Quali sono i suoi capi di accusa?»
Glieli esposi senza esitazioni. Sua Eccellenza mi ascoltò tenendo gli occhi a terra come un confessore, e ogni tanto scoteva la testa in segno di approvazione.
«Posizione chiara» disse alla fine, «quasi quanto la mia. Sorpresi ambedue in servizio comandato. È una morte in combattimento, sul campo. Non possono non fucilarla al petto. È strettamente regolamentare. Qualunque cosa le accada, me ne informi subito. E ora si accomodi pure.»
Quello fu il primo giorno, credo, da quando mi trovavo lì dentro – ed erano già otto mesi – che non pensai a mia moglie, rinchiusa in un’altra cella e alla vigilia della deportazione, né a mia madre, nascosta a Milano in casa del mio amico Gaetano Greco, né a mio padre, rimasto solo a Roma. Pensai solo alla morte, ma cordialmente, come a una bellissima sposa di cui ero il novio prossimo a impalmarla. E verso sera chiesi a Ceraso, insistentemente, che l’indomani mi procurasse il barbiere, e che mi portasse le forbici e una lima da unghie. Non potevo, proprio non potevo, salire l’altare con quella bellissima sposa al braccio e la barba lunga e le mani ridotte in quello stato. E quando calò la notte, sfidando il freddo mi sfilai i pantaloni prima di coricarmi sul tavolaccio, e li appesi alla grata perché riprendessero un po’ di piega.
Nei giorni successivi, attraverso lo spioncino, potei seguire l’andirivieni di Sua Eccellenza, mio dirimpettaio. Tutti i prigionieri, ad uno ad uno, furono chiamati a rapporto da lui, e tutti vennero a presentarglisi: anche Mike Bongiorno, il futuro idolo della televisione, che allora aveva sedici anni ed era stato arrestato perché cittadino americano.
Entrando, si mettevano sull’attenti e facevano un inchino. Restavano dentro mezz’ora o un’ora, con Ceraso o Sapienza a far da pali fuor della porta; e quando uscivano, camminavano più eretti. Un cameriere d’albergo, che avevamo sempre udito piangere invocando la moglie e i figli, dacché anche lui fu chiamato a rapporto, tacque compostamente; e una volta che fu sorpreso a fumare da Franz e picchiato col curbasc, subì il castigo senza un lamento. Ceraso mi disse che tutti, dopo l’intervista col generale, chiedevano, come avevo fatto io, il barbiere e un sapone. E anche le guardie si radevano ogni giorno, non portavano più il berretto sulle ventitré, e cercavano di parlare italiano, invece che napoletano o siciliano. In tutto il raggio non si notava più il disordine, né più si udiva il brusio di una volta; e lo stesso tenente Schulze, quando venne a farvi un’ispezione, lodò la disciplina che vi regnava e la dignità di cui tutti davamo prova. Per la prima volta dacché ci rivolgeva la parola, non ci trattò da “cani antifascisti” e da “sporchi traditori badogliani”. Si limitò a fare una lontana allusione al “re fellone”; e allora tutti, senza previo accordo, alzammo gli occhi al cielo fingendo di non ascoltarlo, mentre Sua Eccellenza, ch’era stato convocato anche lui, ma che si teneva un po’ discosto dai ranghi come si conveniva al suo grado, volse addirittura le spalle all’oratore e, senza attendere il comando di “rompete le righe”, rientrò a lento passo nella sua cella. E Schulze non fiatò.
Una mattina, due colonnelli vennero prelevati. Prima di uscire, fu chiesto loro se avevano un ultimo desiderio da esprimere. Risposero che volevano congedarsi dal signor generale, il quale li ricevette sulla porta della cella, e fu quella l’unica volta in cui tese la mano ai visitatori. Carezzandosi con gesto lento e lezioso i capelli e aggiustandosi il monocolo nell’orbita, disse sorridendo ai due ufficiali sull’attenti qualcosa che non capii, certamente qualcosa di cordiale e affettuoso. Poi di colpo s’irrigidì e portò la mano alla fronte. I due risposero al saluto. Erano molto pallidi, ma sorridevano, e non erano mai stati così colonnelli come in quel momento. Sapemmo più tardi che, cadendo, avevano gridato ambedue: «Viva il re!».
Il pomeriggio di quello stesso giorno, fui chiamato a un ennesimo interrogatorio. Ma con mia grande sorpresa, invece che di fronte a Schulze, mi trovai al cospetto di mia madre e del dottor Ugo, il misterioso confidente della Gestapo, che doveva salvar la vita a tanti di noi, compreso Ferruccio Parri.
Mia madre, che per la prima volta mi rivedeva, mi mise al corrente con la voce rotta del piano preparato per la mia fuga. L’indomani, con un falso ordine di trasferimento di carcere da Milano a Verona, sarei stato prelevato e caricato su una macchina, che a Verona non sarebbe mai arrivata. Avrebbe dirottato verso la frontiera svizzera, dove un prete mi aspettava per condurmi di là.
Rientrai sconvolto nel raggio sotto la scorta di Ceraso. Passando davanti la cella del generale, lo vidi a sedere sulla sponda del letto, che leggeva, e mi fermai. Posato il libro, egli mi fissò a lungo, poi fece alla guardia il cenno di allontanarsi. E seguitò a fissarmi.
«Ancora una volta ha taciuto, vero?» mi chiese in tono sicuro.
«Non sono stato interrogato, Eccellenza» risposi. «Sono stato semplicemente informato che domani avrò l’occasione di evadere da questo carcere.» Feci una pausa. Il generale aveva aggrottato le ciglia in un’espressione di sorpresa. «Ho il diritto di approfittare di questa occasione?»
Il generale si alzò in piedi, andò verso la finestra volgendomi le spalle. Poi tornò indietro e mi disse, scandendo le parole.
«Non ne ha il diritto. Ne ha il dovere... Addio, capitano!»
Non rividi più Della Rovere. L’indomani, al momento della sveglia, io ero già nell’ufficio matricola, dove mi stavano preparando la “bassa di trasferimento” al carcere di Verona, che non mi attendeva.
Un anno esatto era trascorso da allora. E solo quel giorno, nella cattedrale di Milano, tornavo a incontrare quest’uomo, ma rinchiuso in una bara, su cui non cadevano né lacrime di parenti né fiori di amici, salvo i miei pochi crisantemi.
Una targa di metallo col nome la individuava fra le altre sessantasette: Giovanni Bertone.
Credo che sia mio dovere di testimone raccontare come e perché Giovanni Bertone diventò Fortebraccio Della Rovere.

2

Era l’alba di una giornata di primavera del 1944. Una macchina militare tedesca, proveniente dalla vecchia strada dei Giovi, stava per imboccare un sottopassaggio, quando una gomma scoppiò e le ruote sbandarono. L’autista riuscì a bloccarla in tempo. Il sottufficiale delle SS balzò a terra, esaminò il copertone e ne trasse un chiodo quadripunte.
«Guardi, signor colonnello» disse mostrandolo all’ufficiale che aveva sporto la testa dal finestrino posteriore. «Un altro maledetto chiodo di questi maledetti partigiani di questo maledetto paese... È il quarto, e non abbiamo più gomme di ricambio...»
«Cerchi un telefono e chiami il comando della Gestapo di Genova.»
Un telefono! Il sergente si guardò intorno come se sperasse di vederne uno incastrato nella roccia. Vide invece un uomo che attraversava il viadotto.
«Ehi, voi!... Mani in alto!... Avvicinatevi!...» gli urlò in tedesco, minacciandolo con la rivoltella.
L’uomo si era spiaccicato contro la parete. «Vi ho detto di avvicinarvi!» tornò a urlare il sottufficiale.
«Inutile gridare, sergente» intervenne il colonnello scendendo dalla macchina, «specie in una lingua che quel borghese probabilmente non conosce». E, rivolgendosi al passante, aggiunse in perfetto italiano: «Scusi, signore, saprebbe indicarci un telefono?».
Rinfrancato da quel tono cortese, l’uomo si appressò. Era sulla cinquantina, e vestito con distinzione.
«A quest’ora non è facile» disse. «I bar sono chiusi... Avete bucato?»
«Per la quarta volta, e non abbiamo più ruote di scorta.»
«Se è solo per questo, qui dietro l’angolo c’è un gommista.»
«Grazie» disse il colonnello. E tradusse in tedesco l’informazione ai suoi uomini, che partirono al piccolo trotto. «Una sigaretta?» offrì tendendo un astuccio d’oro al passante.
«Grazie» fece costui prendendola e tendendo a sua volta un fiammifero acceso.
«Genovese?»
«Napoletano.»
«Ah, Napoli!... L’anno scorso, proprio di questi tempi, stavo a Napoli, all’Hotel Vesuvio. La mattina aprivo le finestre, e avevo davanti a me il mare... Mergellina... Posillipo... Capri... Sorrento... Ci è dispiaciuto molto lasciare Napoli... I vostri concittadini invece ne sono stati così felici, che per la gioia ci hanno sparato...

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