Modern Love
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Daniel Jones

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Modern Love

Daniel Jones

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Citas

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Una donna che ama il marito più dei suoi stessi figli; una ragazza bipolare che non riesce a far durare le sue relazioni sentimentali; un vedovo in cerca del modo migliore per presentare la nuova compagna ai suoi bambini; una coppia che prova a curare le incomprensioni sfidandosi a tennis. Queste sono solo quattro delle tante storie che da quindici anni, settimanalmente, il "New York Times" racconta in una seguitissima rubrica intitolata Modern Love. Storie molto intime, tutte vere, tutte variazioni, sperimentate sul campo, di ciò che uomini e donne di questo nostro tempo, alla ricerca di una verità profonda e universale, credono possa essere un gesto d'amore. Daniel Jones, curatore della rubrica, ha raccolto queste esperienze in un libro: il risultato è un'antologia cangiante, una tavolozza ricca di tonalità emotive, una declinazione sorprendente di questo imprendibile, multiforme sentimento. Modern Love oggi è diventato un fortunato format sia televisivo che radiofonico, e il taglio narrativo di ciò che racconta costituisce il suo grande punto di forza: episodi straordinari quanto normali, dove coraggio e vulnerabilità spuntano d'un tratto a illuminare la pagina, per sorprendere e a commuovere, a far sentire meno solo chi legge.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2020
ISBN
9788858699706

QUESTIONI DI FAMIGLIA

Quasi come essere madre

Carolyn Megan
Sto portando i miei nipoti al Museo delle Scienze. Alla fine della nostra gita, quando li riaccompagnerò a casa, il loro papà, mio fratello John, dirà loro che l’ultimo ciclo di chemio non ha funzionato e che la loro mamma morirà. In questo momento mia nipote, che ha nove anni, sta frugando nel vano portaoggetti dell’auto. Ha trovato i Tampax. Apre la confezione, estrae il tampone e lo fa dondolare tenendolo per il cordino.
«Cos’è?»
«È un tampone.»
«A cosa serve?»
Rispondere a una simile domanda è complicatissimo. Capire che cos’è un tampone implica che si sappia cosa sono le mestruazioni, che a loro volta richiedono la comprensione dell’intero ciclo della vita. Chissà cosa le avranno già spiegato mio fratello e mia cognata Sarah.
«Be’, lo sai come nascono i bambini, vero?»
«No.»
Il fratello tredicenne sta giocando al Game Boy sul sedile posteriore. «Ma dai…» sbotta.
«Perché?» dice lei improvvisamente attenta.
Come devo comportarmi? Non voglio che mia nipote provi disagio nei confronti della sua sessualità, e al tempo stesso voglio lasciare a John la possibilità di parlarne con lei per primo. Decido di affrontare la questione stando sul vago, ma arrivati al casello devo interrompermi per pagare il pedaggio. Mia nipote perde interesse per il tampone e si mette a cincischiare con la manopola della radio. Tiro un sospiro di sollievo.
Qualche tempo dopo, quando parlo con John della conversazione in auto, lui mi fa: «Non posso essere io a dirle che cosa significa diventare donna. Forse tocca a te aiutarla».
Ha ragione, credo. Negli ultimi diciotto mesi, man mano che le condizioni di Sarah peggioravano, mi sono accollata un bel po’ di doveri da genitore, accompagnando i nipoti alle partite di calcio, alle feste scolastiche, agli appuntamenti con il pediatra. Sono rimasta sveglia la notte per tranquillizarli; ho ripreso a studiare algebra, ho studiato la guerra di secessione; gli ho concesso il McDonald’s e proibito il Chuck E. Cheese’s; ho somministrato medicine e infilato montagne di vestiti in lavatrice. Ho detto «no» più volte di quanto avrei voluto, e detto «sì» più volte di quanto avrei voluto.
In questi mesi mi sono ritrovata in situazioni in cui mi comportavo come un vero genitore, una madre tranquilla e sicura, ma devo tuttavia ammettere di non avere la minima idea di ciò che stavo facendo.
Ho riportato i bambini a casa. Sono con i genitori, nell’altra stanza. L’accordo è che John e Sarah gli annunciano la brutta notizia, poi entro io e sto insieme a loro mentre la elaborano. John apre la porta. «Sono devastati» sussurra. «Vogliono che tu stia con loro, ma non vogliono parlare.»
In soggiorno trovo angoscia e dolore. Sarah è sul divano, intontita dagli antidolorifici. Tiene la mano sulla spalla della bambina, che singhiozza disperata. Il ragazzo piange e fa avanti e indietro per la stanza, le braccia strette al petto come ogni teenager preso dal panico.
Lo abbraccio; si appoggia a me, gli sfuggono singhiozzi soffocati, tiene ancora le braccia strette. In quel momento una parte del mio cuore si squarcia e ne esce un fiume di amore, non qualcosa di simile al sentimento che già provo, ma una nuova sorgente, un amore che mi salda a lui. Penso: sono pronta a tutto per te.
Davvero lo sono?
Agli inizi della malattia, quando John già pensava alla realtà di una vita senza Sarah, mi ha chiesto se io e Michael, il mio partner, avremmo potuto prendere in considerazione l’idea di trasferirci da loro. «Non dovreste fare niente, basterebbe la vostra presenza.»
Non gli ho mai risposto. Ho sempre detto cose come: «Vediamo come procede la malattia» oppure «Non è ancora il momento di pensarci». Temporeggiavo. Ogni volta che me lo chiedeva mi sentivo in trappola, schiacciata da un senso di disperazione e catastrofe incombente. Lo stesso sentimento che ho provato tanti anni fa quando ho deciso che non volevo figli.
L’ho fatto perché desidero realizzarmi appieno come scrittrice piuttosto che come madre. Non ho voluto che il senso della mia vita dipendesse dalla presenza di un figlio, né che un figlio fosse il modo in cui restituivo al mondo ciò che mi aveva dato. E alla base di tutto c’era la consapevolezza che l’avrei amato troppo intensamente, troppo disperatamente, annullandomi.
Sapevo che eventuali figli sarebbero venuti prima di tutto il resto, prima della scrittura, e che sicuramente avrei provato risentimento per questo. Quindi ho fatto una scelta, ho detto «no» all’idea di essere madre. Ma ho due nipoti che hanno bisogno di me, adesso. Perciò mi sono messa a disposizione senza esitare, e so che non mi pentirò mai di averlo fatto.
Si è avverato tutto quello che all’epoca aveva determinato la mia scelta: ora tutte le mie energie, il mio amore e la passione di cui sono capace si concentrano sui miei nipoti. Piango la perdita di una parte di me che è passata in secondo piano.
In pratica la richiesta da parte di John di trasferirmi da lui mi mette ancora una volta di fronte alla decisione di avere o non avere dei figli.
Quando sono in giro con i miei nipoti, la gente dà per scontato che io sia la madre. Chiedo alla commessa di un negozio di vestiti dove sono le t-shirt per bambini, e lei fa: «Quanti anni ha sua figlia?».
«Nove» rispondo. La commessa mi indica il reparto, dove vedo diverse magliette decorate a fiori.
«Forse nel reparto maschile trovo qualcosa che le piace. È un po’ un maschiaccio, sa. Adora quelle da calciatore.»
La commessa ride. «Ah, è quel tipo di bimba.»
È così facile entrare nel ruolo della madre, così comodo. Molto più facile che mettersi a spiegare perché non ho figli. Più semplice che dover rassicurare le persone dicendo che amo davvero i bambini, e la mia decisione non è né il risultato di un’infanzia difficile né un atto di egoismo. È soltanto una scelta. Adesso, davanti alla commessa, mi lascio trasportare dalla corrente delle aspettative sociali, e tutto diventa più facile. La scena si ripete spesso: quando abbraccio i miei nipoti alla fine della partita di calcio, quando li aspetto alla fermata dell’autobus, quando mia nipote gioca in cortile, poi entra in casa correndo e grida: «Mamma! Abbiamo sete!», e in cucina trova me. Allora ride e dice: «Volevo dire zia Carolyn!».
Chiunque ci veda insieme pensa che io sia la loro madre, ma non lo sono e neanche voglio esserlo. Eppure, con tutto quello che è successo, come posso dire di non essere la loro mamma?
Tutti intorno a me hanno sempre cercato di spiegare in vari modi il fatto che non ho voluto figli. È stato per via del divorzio? Perché non hai trovato la persona giusta al momento giusto? Il tuo orologio biologico non funzionava?
Ora la loro spiegazione ha una sfumatura più positiva: Non è fantastico come poi tutto vada a finire bene? Il fatto che non hai figli, adesso ti permette di esserci sempre per i tuoi nipoti. Vedi che in fondo è andata come doveva andare?
La letteratura è infestata da zie zitelle che vanno a vivere con la famiglia di un parente e prendono il posto del coniuge se uno dei due viene a mancare. Assistono un genitore malato e lo vegliano fino alla morte. Oppure diventano madri surrogate e mogli platoniche, e si mettono a gestire in modo efficiente la casa e i bambini.
Ci si aspetta un sacrificio: la tua vita e la tua storia personale devono passare in secondo piano rispetto alla nuova storia che sta crescendo.
Mi piacerebbe credere che non sia necessario essere sempre presente per essere una figura materna per i miei nipoti. Vorrei credere che possano trarre sicurezza e sostegno dal mio amore e dalle mie attenzioni anche se non sono con loro tutti i giorni, e che questa sicurezza sia sufficiente ad accompagnarli in modo equilibrato verso l’età adulta.
Ma la quotidianità mi spinge verso di loro. Mio nipote ha il piede d’atleta. Sotto il mignolo ha un grosso taglio che secondo lui si è procurato mentre nuotava. Una cosa da nulla, certo, solo che mio fratello finora non ha potuto comprare la pomata per curarlo.
Altre preoccupazioni: vestiti puliti per entrambi, i pidocchi a scuola.
Mia nipote ha un’amichetta che la prende in giro. Perché? Qualcuno ha spiegato a mio nipote cos’è la polluzione notturna? È normale che si chiuda in camera per stare da solo? Esiste una verdura che riescano a mangiare? Si abbuffano di dolci? John si preoccupa per tutte queste cose, ma è esaurito. E per giunta il gabinetto è guasto, l’asciugatrice fa uno strano cigolio, il cane zoppica e non c’è più latte per i cereali della colazione di domani.
Poi c’è l’incontro dei genitori per discutere lo spettacolo scolastico. Quest’anno presentano Lo Hobbit, e mio nipote è uno dei nani. Durante l’incontro decideremo chi tra i genitori ricoprirà gli ambìti ruoli di direttrice di scena, trovarobe e costumista. Siamo solo donne.
La discussione tocca le vicende dell’anno scorso, si ride, ci si sente vicine nell’impresa di produrre lo spettacolo.
«Dobbiamo parlare di come possiamo coinvolgere anche i genitori che lavorano» dice una delle organizzatrici. Le altre annuiscono. «Dev’essere un evento comunitario.»
Sono presente perché non voglio che mio nipote si senta privo di sostegno. Sono presente perché un’amica, rimasta orfana di madre in tenera età, una volta mi ha detto che si era sempre sentita sballottata da un adulto all’altro, in un continuo rimpallo di responsabilità. Non voglio che mio nipote si senta così.
Eppure mi sembra di essere un impostore, un’estranea. Non me ne importa nulla della competizione per diventare direttrice di scena. Mi annoio. Vorrei essere a casa, seduta alla mia scrivania: ho urgenza di scrivere.
Ma quando non sono insieme ai ragazzi mi preoccupo e soffro.
Mi chiedo come stanno, mi mancano, mi manca il contatto fisico con loro. E mi interessa cosa dicono, i loro racconti. Mi interessano questi due ragazzini che crescono.
E benché non sia la loro madre né potrò mai diventarlo, ciò che mi lega ai miei due nipoti è un sentimento in qualche modo materno. Un sentimento complesso, come avevo previsto, ma anche pieno di stupore.
Carolyn Megan scrive e insegna a Portland, Maine. È possibile scriverle all’indirizzo [email protected]. Questo pezzo è uscito nel settembre 2005.

Prima ho conosciuto i miei figli, poi la mia ragazza. Sono parenti

Aaron Long
Ho conosciuto Jessica, la mia ragazza, solo dodici anni dopo che è nata nostra figlia Alice.
È andata così: circa venticinque anni fa sono tornato negli Stati Uniti dopo un anno trascorso all’estero a insegnare l’inglese. Sono andato a vivere con mia madre e, siccome non vedevo altre prospettive di lavoro, ho iniziato a fare il tassista. Un giorno ho letto un annuncio sul giornale. Cercavano giovani uomini sani dai diciotto ai trentacinque anni, per conto di una banca del seme.
Il termine standard in questo campo è «donatori», anche se in genere si viene pagati per il contributo. Nel 1994 ricevevo quaranta dollari a «donazione». Mi ero impegnato a vendere il mio sperma a cadenza bisettimanale per un anno. All’epoca avevo una fidanzata che abitava molto lontano, così mi era sembrato un buon modo per scaricare la tensione. Quando lo dissi a mia madre lei commentò profeticamente che probabilmente per lei quello sarebbe stato l’unico modo di diventare nonna.
Al giorno d’oggi le banche del seme raccolgono informazioni molto dettagliate dagli aspiranti donatori, ma a me avevano chiesto soltanto che tipo di laurea avevo, quali erano i miei hobby e l’anamnesi familiare. Jessica e la sua partner all’epoca mi avevano scelto principalmente perché ero uno scrittore e un musicista.
Dopo un anno passato a vendere sperma, ero tornato alla libera elargizione e tutta la questione era caduta nel dimenticatoio. Ogni tanto mi chiedevo se avessi figli in giro per il mondo, e mi veniva da ridere al pensiero che forse erano una piccola tribù, ma avendo firmato un accordo di riservatezza immaginavo che sarebbe stato impossibile rintracciarci a vicenda.
Poi è arrivata l’era di internet.
Agli inizi del 2000 ho cominciato a cercare informazioni sulla mia progenie e ho scoperto l’esistenza del Donor Sibling Registry, il registro dei bambini nati da donatori di sperma, ma la mia ricerca si è arenata subito. Non ho trovato nessuna traccia da seguire, e non sono più tornato a controllare sul sito. In realtà mi ero mosso troppo presto. I miei figli hanno cominciato a usare il sito per cercarmi solo intorno al 2010, ovvero quando sono diventati adolescenti.
Circa due anni fa ho iniziato a vedere in giro gli annunci di 23andMe, un laboratorio che fornisce un servizio di analisi della saliva (in pratica sputi in una provetta e la spedisci per posta al laboratorio) da cui ricava informazioni sui tuoi antenati, sulla tua salute e su possibili parentele in base al DNA. Era ovviamente una grande opportunità, ma immaginavo che le probabilità di trovare i miei figli fossero piuttosto basse. Ho tergiversato per qualche mese, finché la curiosità è diventata un desiderio fortissimo di sapere. Allora ho ordinato un kit di analisi.
Ho ricevuto i risultati. Ho scoperto di avere un figlio di nome Bryce. Il suo cognome è abbastanza particolare per cui su Google l’ho individuato subito. Era un laureando in geografia, e dalla foto sembrava che mi somigliasse, sembrava mio (mio?) figlio. Probabilmente 23andMe lo aveva informato della mia esistenza. Ho rimuginato sulla questione per una settimana, poi mi sono deciso a scrivergli un messaggio.
Caro Bryce. Di recente mi sono iscritto a 23andMe e ho trovato il tuo nome sotto la dicitura «figli», perciò credo di essere il tuo padre biologico. Spero che la mia esistenza non sia un trauma per te e mi chiedo se ti sei iscritto al servizio nella speranza di entrare in con...

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