Storia della Germania dopo il Muro
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Storia della Germania dopo il Muro

Dall'unificazione all'egemonia in Europa

Massimo Nava

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Storia della Germania dopo il Muro

Dall'unificazione all'egemonia in Europa

Massimo Nava

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Dopo la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, la Germania ha realizzato a tappe forzate il sogno della riunificazione ed è diventata nei decenni successivi il Pae-se più potente e decisivo delle sorti economiche e politiche dell'Europa, fino a esercitare una sostanziale egemonia. Massimo Nava, inviato in Germania negli anni del crollo del regime comunista e attento osservatore dei successivi sviluppi, racconta i profondi cambiamenti della società tedesca e accompagna il lettore nella genesi della nuova Germania attraverso le vicende dei principali protagonisti e testimoni, da Helmut Kohl a Gerhard Schröder, fino all'ascesa di Angela Merkel, amata in patria e leader indiscussa in Europa. Ma l'egemonia sul Vecchio Continente, al di là di ragionevoli prudenze e riserve sulla storia del Paese, non deve spaventare, è una forza tranquilla e indispensabile, risultato di una sorta di mutamento culturale e identitario, di una rivoluzione di valori e sensibilità in sintonia con il monito di Thomas Mann: non è nata un'Europa tedesca, ma una Germania europea che si è fatta carico dei destini del Vecchio Continente e di cui possiamo finalmente fidarci.

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Información

Editorial
BUR
Año
2020
ISBN
9788831801553
Categoría
Historia
1

Prima della caduta

L’abbondante materiale storico e giornalistico sul crollo del Muro di Berlino, prodotto in occasione di anniversari e celebrazioni rievocative, ha spesso lasciato in ombra un capitolo precedente, fondamentale per la comprensione della storia della Germania.
Conosciamo i principali fattori che favorirono la fine della DDR – il quadro internazionale in evoluzione per la svolta politica nell’URSS di Gorbaciov, il collasso economico del sistema e l’esplosione del malcontento popolare –, ma fu decisivo anche il riavvicinamento delle «due» Germanie, intensificatosi alla fine degli anni Ottanta. Un processo avviato con la Ostpolitik, la politica di distensione e dialogo con i Paesi dell’Est, perseguita con coraggio e lungimiranza dal cancelliere Willy Brandt che, essendo stato sindaco di Berlino Ovest, godeva di una posizione «privilegiata» per tastare il polso della sensibilità popolare sugli impercettibili segnali di disgelo che arrivavano dall’altra parte del Muro.
In un’intervista al «Corriere della Sera» nel maggio del 1989, disse, in sintesi: «Per la gente di una Germania divisa, di un’Europa divisa, tutto dovrebbe andare nella direzione di una vita migliore. [...] È evidente che il successo della politica di Gorbaciov significa un miglioramento per tutti e non soltanto per la Germania. [...] Attualmente la DDR gioca un ruolo di conservazione rispetto a quanto sta cambiando nei Paesi dell’Est, ma è possibile un ricambio di generazione nel breve periodo. [...] Io non credo che il Muro ci sarà per sempre. Ma il futuro del Muro non può essere separato da altri processi, [...] un certo tipo di unità tedesca sarà possibile come conseguenza del processo di collaborazione europea, a Est e a Ovest. [...] La Costituzione tedesca parla di unità nazionale. Molta gente parla di riunificazione. Qualcuno di confederazione. Non mi identifico con rigide formule, sarei felice se Paesi, Stati, nazioni si muovessero nella direzione di cui abbiamo parlato. [...] Per parlare francamente, molti usano il termine “West Germany”, ma io dico che non sono un tedesco dell’Ovest, ma soltanto un tedesco».
Nel linguaggio giornalistico-diplomatico, si definiva «relazione speciale» la complessa rete di rapporti economici, familiari, culturali e di contatti segreti a cavallo del Muro. Una «relazione speciale» che lasciava intravedere volontà di cambiamento e speranze di liberazione dalla cappa soffocante che, dalla fine della guerra, aveva politicamente ingessato la Repubblica Federale. L’inno nazionale tornò a essere la sigla di chiusura dei programmi televisivi. La divisione del Paese e le alleanze internazionali dei due Stati tedeschi sembravano irreversibili, ma il sogno dell’unità trovava riscontro ed enfasi nella letteratura, nella cultura giovanile, nelle chiese evangeliche e nell’embrione del partito ecologista. È del 1986 la firma di un trattato per gli scambi culturali. Per la prima volta dalla costruzione del Muro, una compagnia teatrale della Germania Ovest fu invitata in quei mesi a Berlino Est, mentre una della DDR si esibì a Colonia e Düsseldorf. Furono discusse proposte di trasferire monumenti e opere d’arte nei luoghi originari, quasi che la cultura volesse rimettere le cose al loro posto, seguendo un percorso di identità nazionale.
Alla fine degli anni Ottanta fecero molto parlare i cosiddetti «scrittori del Muro», intellettuali che avevano il permesso di andare dall’una e dall’altra parte, alcuni con doppio domicilio. Si percepiva nelle loro pagine la malinconia di un sogno «irrealizzabile», che tuttavia quel microcosmo letterario continuava a trasmettere alle nuove generazioni. Circolavano versi satirici che la censura della DDR non riusciva a decifrare perché bisognava leggerli in verticale, mettendo insieme la prima lettera di ogni riga.
Persino il presidente Erich Honecker, il rigido gerarca della DDR, si spinse a immaginare una forma di avvicinamento. Accennò a una possibile unità, ovviamente in un quadro di fraternità socialista, e offrì la definizione di «comunità della ragione» per il popolo tedesco. Inoltre, per favorire la distensione, si era persuaso ad allentare i controlli, ad aumentare i permessi di espatrio, a eliminare le mostruose tecnologie di sorveglianza lungo la frontiera.
La DDR, pubblicamente, continuava a presentare una facciata gonfia di certezze ideologiche, la «gloriosa costruzione» dello Stato socialista, l’inferiorità morale dell’odiato sistema capitalistico dei fratelli separati, la sudditanza militare e politica della Repubblica Federale agli Stati Uniti. E, ufficialmente, la Germania Occidentale non metteva in discussione l’esistenza di un altro Stato tedesco. Pur non riconoscendo il Muro come frontiera e non avendo aperto a Berlino Est un’ambasciata, bensì una rappresentanza permanente (una sorta di consolato con maggiori funzioni), la Repubblica Federale voleva rimarginare le ferite della Storia e mettere in atto forme di convivenza.
Economisti, scienziati, intellettuali, commercianti e imprenditori delle due Germanie avevano relazioni sempre più intense. Quella Orientale, primo partner commerciale dell’Unione Sovietica, intratteneva in modo surrettizio rapporti economici anche con la Comunità Europea: dal Paese difficilmente uscivano i cittadini, ma vi transitavano prodotti non soggetti a tassazione e dazi in quanto attraversavano una frontiera non riconosciuta. Al tempo stesso, la Germania Occidentale si affermava come interlocutore privilegiato dei mercati dell’Est. E i due Paesi si scambiavano fraterni segnali intertedeschi: fiere, accordi produttivi, congressi, gemellaggi fra città.
A dispetto dell’opprimente situazione politica e delle facce minacciose delle guardie di confine, un fiume di marchi e di persone passava il Muro. E attraverso quel «colabrodo» transitavano anche aiuti a parenti separati, pacchi dono natalizi, viaggi di scolaresche e riscatti in denaro di prigionieri, dissidenti e spie.
Nel 1983 e nel 1984 la Repubblica Federale concesse alla DDR due prestiti per un ammontare di quasi due miliardi di marchi occidentali. In cambio ottenne un permesso di espatrio per trentamila cittadini. Nel 1986, in seguito ad accordi economici e all’allentamento delle misure repressive, fra cui lo smantellamento dei campi minati nelle aree di confine, furono accordati centinaia di migliaia di visti di viaggio a cittadini pensionati e a circa duecentomila persone in età da lavoro.
La «contabilità» degli espatri e le modalità per ottenerli sono un’interessante chiave di interpretazione dei rapporti intercorsi in quegli anni e del metodo «bastone/carota» adottato dal regime a seconda delle categorie interessate a un viaggio in Occidente. La chiusura a doppia mandata e il rischio mortale che si correva tentando di fuggire riguardavano esclusivamente i cittadini in età da lavoro. Nel 1984 un milione e mezzo di pensionati ottennero un permesso di viaggio. Il loro numero continuò a salire, fino a 3,8 milioni nel 1987, all’apice delle buone relazioni fra Bonn e Berlino Est prima della rivoluzione. Parallelamente aumentarono i permessi di viaggio per «urgenti motivi di famiglia», accordati anche a studenti e lavoratori: dai 66.000 del 1984 ai 244.000 del 1986, al milione e 200.000 del 1987. I permessi rappresentarono una nuova occasione di incontro fra tedeschi e allentarono la tensione sociale nella DDR, anche se occorre precisare che permesso di viaggio non era sinonimo di permesso di espatrio, tanto più che la concessione escludeva quasi sempre l’intero nucleo familiare. Tornare, prima ancora che un obbligo di legge, era una necessità affettiva.
Anni dopo, quando i conti della riunificazione cominciarono a far paura e a minare le sicurezze dei tedeschi, il cancelliere Helmut Kohl ricordò quanto fosse stato alto, per la Germania Federale, non solo il costo della Wiedervereinigung, ma anche quello della divisione. Oltre ai danni di guerra, alla requisizione di impianti durante l’occupazione sovietica, alla perdita di beni e proprietà, miliardi di marchi erano stati investiti sul territorio orientale per aiutare i fratelli separati e assicurare i collegamenti con Berlino Ovest. La Lufthansa non poteva operare sulla futura capitale, di conseguenza doveva versare un contributo alle compagnie americane e inglesi che operavano su Tegel, l’aeroporto nel settore occidentale. La stessa Berlino Ovest – inondata di sovvenzioni a fondo perduto e invasa da profughi provenienti da tutto l’Est, per la particolare situazione che chiunque passasse il Muro era benvenuto – rappresentava un costo esorbitante per le casse federali.
Intanto, nelle segrete stanze del potere a Est, ci si cominciava a preoccupare dell’instabilità del regime. L’apparato spionistico non riusciva a tenere a freno il malcontento della popolazione, la domanda di democrazia, la miriade di scuse per espatriare, le devianze e gli stili di vita dei giovani sempre più attratti dal modello occidentale.
Il comparto industriale, motivo di orgoglio e fattore di progresso economico e scientifico, aveva perso competitività, era obsoleto e non poteva aspettarsi investimenti massicci da uno Stato indebitato. La prova di quanto fosse asfittico il sistema si ebbe nei primi mesi della riunificazione, con la privatizzazione delle imprese. Un processo doloroso, in termini di disoccupazione di massa, pesanti ristrutturazioni, investimenti colossali. Alcune industrie e attività commerciali erano forse salvabili – e furono oggetto di operazioni speculative –, ma moltissime non avevano futuro.
Della crisi economica e strutturale erano consapevoli gli stessi dirigenti dell’Est, i quali non ne facevano più mistero nemmeno con i giornalisti occidentali. Dietrich Keitke, direttore dell’Istituto per le relazioni internazionali, in un incontro del 1987 mi disse: «Il mercato unico europeo avrà bisogno di nuovi sbocchi e l’Europa dell’Est, per cultura e tradizioni, è il partner ideale. Il ruolo dei piccoli Stati è fondamentale, poiché contano sempre meno i rapporti su base militare e sempre più i rapporti su base economica e politica».
Ricordo, in quello stesso periodo, una conversazione con il viceministro della Cultura della DDR, Klaus Hoepke, il quale sosteneva che parole come «glasnost» e «perestrojka» erano diventate di uso corrente a Berlino Est, «anche se noi non usiamo il megafono». «Le cose cambieranno molto presto. Torni a Berlino e vedrà.»
Incontrai una seconda volta Hoepke, dopo la caduta del Muro. «I cambiamenti erano nell’aria da tempo» mi disse, «anche se nessuno si aspettava che sarebbero stati così rapidi. La volontà della gente e la forza critica della base del partito [il Partito di unità socialista (SED), nda] sono state determinanti. La popolazione, più che di soddisfare esigenze materiali, aveva bisogno di democrazia. Certamente è stato un errore attendere così a lungo. La distanza fra parole ufficiali e realtà era così grande che oggi è meglio metterci una pietra sopra e guardare al futuro.»
Mi confidò di essere stato a Pechino nei giorni della protesta di Tienanmen: «Nessuno ha pensato di adottare una soluzione cinese. Il nostro autunno ha prodotto dialogo, riforme, libere elezioni, non violenza. In tutte le rivoluzioni, c’è chi decide di stare nel vecchio mondo e chi decide di entrare nel nuovo. La causa del ritardo è nella struttura verticistica del partito e della società». In realtà la soluzione cinese, sull’esempio di piazza Tienanmen, fu presa in considerazione da alcuni gerarchi e dallo stesso Honecker durante i giorni della rivoluzione, e i giornali di regime e il Parlamento applaudirono alle decisioni di Pechino per stroncare la rivolta.
Le parole ufficiali fra i due Stati tedeschi restavano tuttavia distensione, normalizzazione delle relazioni politiche, facilitazione dei rapporti sociali e soddisfacimento dei bisogni dei cittadini. Il tutto con una buona dose d’ipocrisia e calcoli reciproci.
Per la Germania Federale, le concessioni al regime dell’Est – il presidente Honecker era stato ricevuto l’anno precedente a Bonn con tutti gli onori, come un capo di Stato «riconosciuto» – erano dettate dal proposito di migliorare le condizioni di vita dei fratelli separati. Il traguardo della riunificazione, riaffermato come ideale culturale e storico, sembrava lontano.
Per la nomenklatura della DDR, la distensione era una scelta obbligata per calmare l’ebollizione sociale e puntellare un sistema che non garantiva più i vantaggi del socialismo: casa per tutti, sicurezza del lavoro, servizi sociali, asili e nidi per madri lavoratrici. I beni più agognati, dal telefono all’automobile, si ottenevano a colpi di privilegi e corruzione. Bastava scendere in Turingia e in Sassonia, o spingersi all’estremo nord-est, da Rostock a Francoforte sull’Oder, per constatare le drammatiche condizioni di vita nel «socialismo reale».
Città antiche, cariche di storia e di arte, come Lipsia, Dresda, Magdeburgo, Weimar, Erfurt, mostravano ferite da decadenza e inquinamento: palazzi malandati, facciate sbriciolate e annerite da fuliggine. La rivoluzione scoppiò lì prima che a Berlino. La periferia contestava i satrapi locali e il centralismo del regime che prosciugava le risorse del Paese. A Berlino due terzi delle case erano state rinnovate dal dopoguerra. A Lipsia settantamila appartamenti erano inagibili. Il celebre direttore d’orchestra Kurt Masur osò rappresentare il dolore della gente comune, aprendo il teatro dell’opera alle assemblee popolari. Un gesto simbolico, che ebbe l’effetto di un’ulteriore picconata al sistema.
Da anni, intanto, la DDR si era aperta al turismo. S’incontravano persino soldati americani a fare shopping a Berlino Est. Dollari e marchi avevano velocizzato le formalità. La capitale dell’Est non era più la lugubre facciata di un Paese con la museruola che aveva impedito ai giovani di ascoltare i Rolling Stones. La loro messa al bando fu revocata nel giugno del 1982. Nell’agosto del 1990, nove mesi dopo il crollo del Muro, tennero il loro primo concerto a Berlino Est.
Nella capitale circolavano giornali occidentali, si aprivano ritrovi e discoteche, boutique di moda, ristoranti multietnici, si faceva la fila per film americani come Dirty Dancing. Sui tavolini di una famosa discoteca, la Clärchens Ballhaus, c’era un telefono, come nelle pellicole di Hollywood degli anni Trenta, per invitare a ballare una ragazza in un altro punto della sala. Così ci si divertiva e si aspettava la rivoluzione. Le ragazze si sposavano in media a vent’anni, molte vivevano da sole. Era un segno di indipendenza ed emancipazione. A mezzanotte, alla metropolitana di Friedrichstrasse, i giovani dell’Ovest salutavano amici e fidanzati che dovevano rimanere a Est.
Nel 1987 fu inaugurato Fioretto, il primo ristorante italiano nella Berlino comunista. Nei locali underground di Prenzlauer Berg, oggi quartiere chic e intellettuale della nuova Berlino, si ritrovavano giovani gay, punk e alternativi che esprimevano trasgressioni finalmente tollerate. Radio DT64 trasmetteva musica pop a orario continuato. I figli dei bravi compagni imitavano mode e comportamenti dei coetanei dell’Ovest. Non era raro incrociare i primi «skinhead». E già si notavano bande di neonazisti, allora decisi a imbastire provocazioni contro il partito «padre e padrone» più che a fare propaganda xenofoba, come purtroppo avviene ai giorni nostri. Si stavano aggravando problemi sociali, alcolismo, droga, divorzi. Lo Stato paternalista o onnipresente aveva umiliato il senso di responsabilità e perso la partecipazione dei sudditi. Persino la gioventù comunista, inquadrata nelle strutture del partito, era meno disposta ad accontentarsi di diritti acquisiti: sport, educazione scolastica, posto di lavoro. Pretendeva viaggi, prodotti occidentali, jeans e scarpe di fattura migliore.
Le chiese evangeliche approfondivano le crepe nel regime e furono un formidabile detonatore, punto di raduno di gigantesche marce per la democrazia. Giornali e riviste confessionali agitavano temi come l’ecologia, la responsabilità sociale dei credenti, la libertà di viaggiare.
Nella storia di ogni Paese ci sono piccoli dettagli che diventano grandi pagine della memoria collettiva. Nella Germania Federale le previsioni del tempo «nazionali» annunciavano le condizioni del meteo delle città dell’Est come dell’Ovest e le «notizie dall’interno» comprendevano le cronache di entrambe le Germanie.
Il regime aveva avviato un piano di rinascita urbanistica della capitale, per soddisfare il drammatico bisogno di appartamenti e dotare i più fatiscenti di servizi, così come per restaurare grandi alberghi e palazzi Jugendstil del centro, sopravvissuti ai bombardamenti bellici. Berlino Est aveva un vantaggio: palazzi dell’epoca prussiana, chiese barocche e importanti musei si trovavano per la maggior parte a ridosso del lato orientale del Muro, separati da Berlino Ovest, ricostruita dopo la guerra con quartieri popolari, shopping center e grattacieli, per lo più dall’aspetto banale. Nella metropoli orientale si notavano influenze di architetti stranieri e designer nazionali, nonché il recupero del patrimonio urbanistico nel rispetto degli stili sovrapposti delle diverse epoche, precedentemente mortificati dall’impronta socialista.
Il rinnovamento della metropoli favorì un ulteriore riavvicinamento. Nel 1987 le «due» Berlino celebrarono il settecentocinquantesimo anniversario della fondazione del primo nucleo urbano della città, nel 1237: un’intesa per manifestazioni gemellate, per parlare di una sola Berlino, del «cielo sopra Berlino», di una ferita da rimarginare. Almeno nello spirito, i berlinesi appartenevano alla stessa città.
Popolare, turistica, carica di messaggi politici, la ricorrenza fu festeggiata con cerimonie e spettacoli, una diversa interpretazione della Storia e delle aspettative comuni. Nella cornice di musiche di Mozart, fanfare e cori, sfilarono cortei allegorici, si susseguirono mostre, dibattiti e voli di colombe. La metropoli si proiettava come «grande capitale del Duemila», in cui riconoscere una Germania diversa, come profetizzò Volker Hassemer, senatore di Berlino e mente organizzativa della celebrazione.
«L’anniversario» mi disse il sindaco di Berlino Ovest, Eberhard Diepgen, «è una grande occasione per rafforzare la nostra identità di berlinesi e disegnare il futuro.» E aggiunse: «I berlinesi hanno imparato a vivere con il Muro per normalizzare una situazione assurda: non sentono Berlino come luogo di divisione, ma come luogo di rapporti fra i popoli tedeschi, nonostante le differenze politiche. Da quando è stato costruito, il Muro ha obbligato tutti i tedeschi a riflettere su come abbatterlo, su come renderlo più penetrabile. La Storia va avanti, la divisione non sarà per sempre».
Come tanti berlinesi della sua generazione, Diepgen aveva visto il Muro sorgere in una notte, quando era dipeso dal caso trovarsi dall’una o dall’altra parte. I cittadini più anziani avevano vissuto nel rimpianto. I più giovani con la voglia di conoscere, di sapere che cosa succedesse al di là di quel «confine». Così, con il passare degli anni, Berlino era diventata un paradosso storico, politico e diplomatico: il simbolo mostruoso della divisione ideologica del mondo che si stava trasformando nel for...

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