Il peso dell'amore
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Il peso dell'amore

capire i disturbi alimentari, partendo da famiglia e scuola

Leonardo Mendolicchio

  1. 160 páginas
  2. Italian
  3. ePUB (apto para móviles)
  4. Disponible en iOS y Android
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Il peso dell'amore

capire i disturbi alimentari, partendo da famiglia e scuola

Leonardo Mendolicchio

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Citas

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Che cos'è un disturbo alimentare? E perché proprio mio figlio si è ammalato? Sono le domande che si pongono sempre più genitori a fronte dell'aumento dei casi di DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) tra i ragazzi, divisi tra stupore e disperazione, tra negazione e abnegazione totale alla "malattia". L'arrivo dell'anoressia, della bulimia, delle dipendenze da cibo e degli altri disturbi alimentari è infatti il punto di non ritorno rispetto a una normalità (spesso solo apparente) che era vissuta prima, e la famiglia è parte in causa di questa drammatica realtà.
Ma qual è il comportamento giusto da adottare per riconoscere gli atteggiamenti sentinella e affrontare i sintomi conclamati di una malattia che non riguarda soltanto l'equilibrio della massa corporea, ma anche e soprattutto il senso di adeguatezza nel vivere?
In questo viaggio dentro i disturbi alimentari, uno dei maggiori esperti italiani di DCA illustra, con esempi e casi concreti, che cosa accade quando una ragazza o un ragazzo decide di alimentarsi in modo diverso - perseguendo una folle magrezza, oppure, al contrario, decidendo di non porre freno a una fame smisurata -, e spiega perché è importante affrontare i disturbi legati al cibo all'interno della famiglia e a scuola, e come rapportarsi alle cure con l'aiuto dei terapeuti.
Perché la guarigione è possibile, se si è uniti nella battaglia.

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Información

Editorial
BUR
Año
2021
ISBN
9788831804141
Categoría
Psicología
1

I disturbi alimentari: le domande giuste per comprenderli

Quando parlo con i genitori di una ragazza o di un ragazzo affetti da disturbi alimentari, prima di iniziare a discutere, e tanto più di informarmi sulle variegate espressioni che possono denotare, suggerisco loro di farsi alcune domande preliminari. In questo libro seguirò lo stesso ordine concettuale.
La prima domanda che ci si deve porre in qualità di genitori che hanno avuto, o hanno tuttora, figli che presentano disturbi alimentari è: «Qual è il nostro rapporto con il cibo?».
Dobbiamo partire da un presupposto determinante. Noi non mangiamo solo in relazione al fabbisogno energetico o ai meccanismi biochimici che governano la nostra alimentazione. Il rapporto che abbiamo con il cibo è profondamente condizionato da questioni che riguardano le nostre abitudini, le credenze, le radici, la cultura e gli aspetti inconsci.
È quindi opportuno riflettere su come noi, madri e padri, mostriamo ai nostri figli il modo in cui ci rapportiamo all’alimentazione.
Facciamo qualche esempio.
Uno degli aspetti da non sottovalutare riguarda le abitudini e le radici culturali che ruotano intorno al cibo. Una frase che ho sempre ascoltato, sin da bambino, e che contraddistingueva il momento in cui mangiavo con i miei genitori è la seguente: «Mangia, che è buono». Sono certo che la mia esperienza è condivisa da molte altre persone.
Questa espressione per mia madre costituiva l’esortazione suprema utile a farmi finire il pasto. E nella mia testa di bambino quel mantra ha istituito un’associazione indelebile, dove il cibo si accosta al «buono». Qualunque cibo commestibile è un cibo buono.
Quel detto mi ha fatto imboccare una strada esistenziale. Ha avuto forti conseguenze, perché in qualche modo ha orientato, e continua a orientare, le mie scelte alimentari a tal punto da rendermi faticoso assumere cibi che, pur oggettivamente utili al mio equilibrio psicofisico, al mio palato non risultano buoni. Nella mia testa è arduo associare l’atto del mangiare con un cibo «non gustoso e non buono».
Il legame che io stesso ho riconosciuto tra le frasi che ho ascoltato da bambino e le mie abitudini alimentari fa intendere come il mio approccio al cibo vada ben oltre le regole fisiologiche dell’alimentazione. Non soltanto tendo a mangiare cose che mi risultano buone, ma questa scelta è stata condizionata dalla cultura alimentare della mia famiglia. Andando oltre le mie esperienze personali, c’è un altro punto da approfondire; ci aiuterà a capire quanto sia complesso il rapporto tra essere umano e alimentazione.
Vi siete mai domandati perché tutti noi mangiamo tre o quattro volte al giorno? E perché le nostre abitudini alimentari non sono per lo più collegate ai ritmi biologici e climatici che corrispondono ai diversi periodi dell’anno? Il nostro modo di mangiare è infatti diverso da quello degli altri mammiferi, che è condizionato da aspetti climatici, ambientali e biologici. Mangiano quando hanno fame, quando sentono calare gli zuccheri. Non hanno orari. Si nutrono nel momento in cui ne avvertono il bisogno. E la loro dieta varia a seconda delle stagioni, della temperatura, del contesto.
Al contrario, il ritmo con cui mangiamo noi esseri umani è fortemente scandito da regole simboliche e da aspetti sociali. Sappiamo bene, al punto che lo diamo per scontato, che tendiamo a organizzare i pasti quando tutta la famiglia è presente in casa. Inoltre orientiamo i tempi e le modalità alimentari in relazione a cene e pranzi che verranno consumati con il datore di lavoro, con i colleghi, con gli amici, con le persone care. Oppure nelle nostre scelte intervengono altre circostanze che comunque hanno poco a che fare con il cibo.
La constatazione che l’essere umano è suscettibile agli aspetti sociali legati al cibo è frutto dell’intelligente e lungimirante riflessione di san Benedetto da Norcia, il monaco cristiano vissuto nel VI secolo. Lo conosciamo, tra l’altro, per il celebre motto ora et labora che doveva ispirare la condotta del monaco: prega e lavora.
San Benedetto decise che i suoi confratelli presenti in monastero dovevano mangiare a orari determinati. È stato proprio lui a stabilire quella regola che, diventata una consuetudine sociale, ci prescrive di nutrirci subito dopo il risveglio mattutino, a metà giornata e alla sera, qualche ora prima di andare a letto.
Le abitudini alimentari sono sempre state condizionate dall’«altro» e dal modo in cui l’«altro» impone a noi determinate regole. Ma, proprio perché questo gioco di potere sociale è naturale e per giunta ereditario, spesso restiamo alla superficie e non notiamo ciò che è sostanziale: riceviamo e a nostra volta consegniamo agli altri un insieme di vincoli che si spingono fino ad aspetti che siamo istintivamente portati a ritenere spontanei e «ingenui». Ma non lo sono mai. Tantomeno quelli che attengono al cibo e alla nutrizione.
Se chiariamo questo aspetto a noi stessi, se lo riconosciamo, riusciremo a capire perché e come le nostre abitudini alimentari, familiari o personali, possano giocare un ruolo nella strutturazione di un sintomo alimentare. E ovviamente questo vale tanto per noi genitori, quanto per tutta la società che ci circonda. Se prestiamo attenzione, potremo spesso leggere in controluce gli imperativi che si celano dietro convenienze e convenzioni.
Rispetto al ruolo della società nel condizionamento dei nostri comportamenti alimentari, è bene riflettere, in particolare, sul ruolo che svolgono in questo campo la pubblicità e i media. Perché durante determinati periodi dell’anno ci spingono a mangiare di più e in altri momenti, invece, ci inducono al sacrificio per perdere peso?
Insomma, dobbiamo giungere a riconoscere che tutti noi siamo immersi, storicamente e culturalmente, in una logica anoressico-bulimica.
È opportuno ammettere, inoltre, che questa danza, ondeggiante tra le abbuffate e i digiuni, entra nelle nostre case e nella nostra testa ben prima che insorga qualsiasi eventuale disturbo alimentare. Chiedetevi, voi mamme e voi padri, quante volte avete discusso di diete e di alimentazione con i figli; non per criminalizzarvi, ma per notare che i possibili sintomi non vanno considerati con lo stupore assoluto di chi vede un alieno atterrare in casa sua. Al contrario, sintomi e disturbi alimentari sono qualcosa che, in modo subdolo, tocca la nostra vita più di quanto possiate immaginare.
Quanto siete devoti alle diete? Quante volte tentate di correggere l’alimentazione vostra e dei vostri figli? Quanto spesso condividete le vostre frustrazioni alimentari in famiglia e a voce alta? Quante volte avete commentato il modo di mangiare di vostro marito, di vostra moglie, dei vostri fratelli, dei nonni, dei figli?
Per quanto possa risultare provocatorio o scomodo, farsi queste domande è importante per allenare la sensibilità sul tema dei disturbi alimentari.
Allarghiamo ulteriormente l’orizzonte. Andando oltre il tema dell’alimentazione, la seconda riflessione è quella relativa al tema del corpo.
Quale rapporto abbiamo con il nostro corpo?
Anche in questo ambito esistono una serie di preconcetti sociali che condizionano il nostro rapporto con il corpo. Infatti esso è storicamente molto difficile e contraddistinto da profonde ambiguità.
Il legame che ciascuno di noi ha con la propria fisicità e con la propria immagine è complicato? Se la risposta a questo quesito è affermativa o almeno dubbiosa (ma sfido chiunque ad affermare il contrario a cuor leggero), dobbiamo andare in cerca di conoscenze e di risposte.
La storia sociale ha attraversato momenti in cui il corpo era oggetto di censure, ma si è anche immersa in lunghe stagioni in cui esso è divenuto un’ossessione da coltivare sotto il profilo estetico o cosmetico.
Qual è la cultura di riferimento che noi abbiamo in relazione al nostro corpo? Ciascuno può fornire la propria risposta, che varierà da persona a persona. La storia di cui siamo figli ci insegna che il corpo sostiene un’immagine e questa a sua volta sostiene la nostra identità? Oppure siamo figli di una cultura in cui il corpo è qualcosa da nascondere perché è secondario o meno importante dell’anima o della spiritualità? Tutto questo è fondamentale per capire quanto le nostre scelte, i nostri comportamenti, le nostre abitudini, le parole che spesso utilizziamo possano condizionare i nostri figli rispetto al tema del proprio corpo.
Immagino che negli ultimi anni abbiate sentito parlare del body shaming. Ovvero di quel ricorrente tipo di bullismo che passa attraverso la derisione del corpo altrui. Gli stigmi e le canzonature legati all’immagine corporea sono purtroppo un aspetto molto diffuso nella nostra cultura. Tanto la magrezza estrema quanto il peso eccessivo il più delle volte si portano dietro insulti, discriminazioni e violenze.
Nello studiare questo tema ho potuto cogliere come spesso le più importanti discriminazioni legate all’immagine corporea non avvengano a scuola, per strada, negli ambienti di lavoro o di svago. Cominciano e si vivono proprio in casa.
Quanta preoccupazione avete, voi genitori, per le abitudini alimentari e per il peso corporeo dei vostri figli? Quanta attenzione, o disattenzione, mostrate per l’alimentazione e per il peso dei vostri figli? Quanta attenzione, o disattenzione, ponete al contesto che attornia i vostri figli e potrebbe discriminare le loro abitudini alimentari e la loro immagine corporea? Queste domande, ancora una volta, non sono finalizzate a generare un senso di colpa. Bensì a farvi capire quanto spesso nella quotidianità certi temi possano incidere e incidersi nella testa dei vostri figli, e che questi condizionamenti risiedono non solo nelle strade delle nostre città e nelle aule delle nostre scuole, ma anche dentro le mura delle nostre case.
Per affrontare con serietà e responsabilità il tema dei disturbi alimentari non possiamo ignorare le implicazioni che riguardano il nostro modo di pensare, di comportarci e, soprattutto, di parlare in quanto genitori rispetto al cibo e rispetto all’immagine corporea. Questa precisazione doverosa e prioritaria non significa affatto che non sia opportuno, poi, vigilare, osservare e comprendere quali atteggiamenti ruotino intorno ai nostri figli nelle strade, nelle scuole e nella cerchia delle amicizie.
Mi viene in mente la storia di Giovanna, una giovanissima paziente anoressica che, durante i primi anni della sua malattia, aveva molta difficoltà ad allontanarsi da quell’immagine magra e sofferente che era tipica dell’anoressia. Il decorso clinico di Giovanna era seguito e sostenuto dai genitori con grande sollecitudine. In particolare la mamma, angosciata per la condizione della figlia, era molto presente nella scena della cura e badava che Giovanna non saltasse mai una seduta e che si impegnasse al massimo nella terapia.
In un determinato momento della malattia la paziente abbandonò i comportamenti restrittivi tipici dell’anoressia per iniziare a mostrare, invece, quelli tipici della bulimia, con abbuffate ripetute e tentativi di compenso. Questa fase della malattia inevitabilmente produsse un aumento di peso, così Giovanna passò da una condizione di corpo anoressico a un’immagine di ragazza in lieve sovrappeso.
Giovanna cambiò il suo look e dovette fare altrettanto con il guardaroba. Un giorno ricevetti una telefonata che mi sorprese. Era sua mamma che, preoccupata, mi domandava quali strategie avrebbe potuto adottare per limitare l’aumento ponderale della figlia. Il mio stupore era legato al fatto che quella genitrice non si stesse godendo il momento di ripresa fisica della figlia, bensì soppiantasse l’angoscia della magrezza con l’angoscia del sovrappeso.
Passarono alcuni mesi in cui la terapia di Giovanna continuò nel tentativo di curare anche la bulimia. Ma un giorno, in seduta, la ragazza esordì dicendo: «Ieri è venuta a trovarmi mia madre, erano mesi che non la vedevo perché io ero in studentato a preparare gli esami universitari. Era magrissima, aveva un volto smunto e mi sembrava che non stesse per nulla bene». A partire da qui, conversando con Giovanna su questa preoccupazione, ascoltai i ricordi d’infanzia della mia paziente, che lasciavano intravedere, senza ombra di dubbio, che la mamma a sua volta aveva avuto col cibo e col corpo un rapporto francamente sintomatico.
Un altro elemento che ho incontrato nell’arco della mia esperienza professionale è quello relativo alle attenzioni delle pazienti ad alcune specifiche zone del corpo. Infatti i genitori di quelle pazienti possono rivelare preoccupazioni analoghe sulla salute, riguardanti proprio le stesse parti corporee.
Per esempio, ripenso alla storia di Michela la quale, durante il periodo dell’anoressia, era ossessionata dalla sua «pancia». Ogni qualvolta ingurgitava del cibo, veniva assalita dall’ossessione della pancia che si gonfiava. L’unica possibilità che aveva per superare quella percezione schiacciante era digiunare, oppure mangiare particolari alimenti che, a suo dire, non gonfiavano l’addome. Durante il percorso di cura Michela riuscì a ricordare che, quando era bambina, il padre era stato colto da una grave forma di colite nervosa, contraddistinta da crisi di dolore post-prandiale e da gonfiore addominale. Sua figlia aveva ascoltato, per un lungo periodo della sua infanzia, una narrazione incentrata sulla pancia gonfia e sui cibi che provocavano dolore.
Verrebbe da dire che non dobbiamo mai sottovalutare quanto siano importanti le parole che offriamo in pasto ai nostri figli. Ovviamente non esiste una regola che consenta una certa immunità da questi rischi. Tuttavia un sano livello di consapevolezza può consentirci di capire quanto le nostre abitudini, le nostre parole, le nostre paure e le nostre angosce possano condizionare i malesseri psicofisici dei nostri figli.
* * *
Esaurita questa premessa sui rapporti che noi e i nostri figli di fatto condividiamo nei confronti del corpo e del cibo, veniamo a importanti informazioni su tutta la serie di patologie correlate a disordini riguardanti l’ambito fisico e quello nutrizionale: l’anoressia, la bulimia, le dipendenze da cibo, la compulsione alimentare, l’ossessione per l’alimentazione sana (ortoressia), l’ossessione per il corpo muscoloso (vigoressia), la paura che può venire a causa del cibo (disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo).
Avrete sentito parlare dell’anoressia come della forma di disagio più frequentemente riconosciuta dei disturbi del comportamento alimentare (DCA). Ma non è così. Il disturbo più ricorrente, infatti, è la bulimia. Riguardo all’anoressia, però, di certo ne avrete sentito parlare come di una particolare forma di disturbo alimentare contraddistinta da una pervicace modalità restrittiva nutrizionale che produce magrezza estrema ed è caratterizzata dal fatto che le ragazze, quando ne sono affette, da un lato rifiutano di mangiare una quota calorica congrua con il loro fabbisogno energetico, e dall’altro vivono costantemente una paura incoercibile di aumentare di peso.
L’anoressia è, sì, contraddistinta da una magrezza che può avere forme più subdole o più estreme. Ma a caratterizzare questa malattia sono proprio il controllo esasperato sul cibo e sul corpo e la paura ossessiva di aumentare di peso. Alla base di questa scelta di alimentazione, così forte e così radicale, non sta certo il perseguimento di un ideale di bellezza, come spesso erroneamente si presume osservando le giovani affette da anoressia. Ciò che ossessiona e cannibalizza la mente di queste ragazze (ma ne soffrono anche i ragazzi) non è il mito della bellezza, bensì il mito della perfezione.
Un altro luogo comune che contraddistingue l’anoressia è che queste ragazze a un certo punto smetterebbero di provare e di sentire la fame. È l’esatto contrario: le giovani affette da anoressia hanno il bisogno di sentire costantemente la fame. Attraverso il controllo di una fame esasperata, evincono una sensazione di forza e di potenza che nutre il loro bisogno di perfezione. Il cuore dell’anoressia non risiede nella magrezza o nella bellezza, bensì nella possibilità di dimostrare al mondo che si è così forti e così potenti da riuscire a perseguire uno strenuo ideale di perfezione attraverso il controllo della fame e del corpo. Pur di raggiungere tale obiettivo la ragazza affetta da anoressia è capace di tutto. La sua vita, la sua giornata, tutto il suo tempo sono orientati al perseguimento di questo scopo.
L’anoressia può presentare diverse varianti. Quella più tipica è la forma anoressica restrittiva pura, ovvero caratterizzata dalla caparbia riduzione dell’assunzione di cibo giornaliero. Vi è tuttavia un’altra forma di anoressia, contraddistinta dall’alternarsi di momenti di restrizione a momenti in cui la ragazza o il ragazzo perdono il controllo e si abbuffano di cibo, per poi adottare comportamenti di compenso, come l’iperattività fisica, oppure l’assunzione di diuretici o lassativi o ancora il metodo più classico che è quello del vomito.
In entrambi i casi l’anoressia è accompagnata da malnutrizione e magrezza patologica.
Ora passiamo alla descrizione della bulimia, cioè quella condizione in cui la fame non diventa oggetto di controllo ossessivo, bensì un’emozione da spegnere attraverso le abbuffate di cibo e il successivo stato di frustrazione e di colpa che rende necessario adottare comportamenti riparatori analoghi a quelli indicati per l’anoressia non restrittiva. Il senso di colpa post-abbuffata, insieme alla non tolleranza della fame, sono i due pilastri su cui si erge il sintomo bu...

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