War (versione italiana)
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War (versione italiana)

Come la guerra ha plasmato gli uomini

Margaret MacMillan

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War (versione italiana)

Come la guerra ha plasmato gli uomini

Margaret MacMillan

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«La guerra non è un'aberrazione, un evento da dimenticare il più in fretta possibile. Né è semplicemente assenza di pace, ossia di normalità.»Molti di noi hanno l'impressione che, dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, il mondo abbia vissuto un lungo periodo di pace pressoché ininterrotta. Eppure, in quei decenni non c'è stato un solo momento in cui, in qualche angolo della Terra, non si sia combattuto. La verità è che la guerra ci accompagna sin dai primordi della storia e può essere definita come la più organizzata di tutte le attività umane. Ha plasmato istituzioni, valori, idee, lingue. Ha influenzato l'economia, la scienza, il progresso tecnologico e la ricerca medica. Ha ispirato, nel bene e nel male, poeti, scrittori, drammaturgi, musicisti, pittori e registi. Senza i conflitti armati non avremmo conosciuto la penicillina, l'emancipazione femminile, i radar o i missili.Considerata per millenni un elemento ineliminabile della vita dell'uomo, solo a seguito dei due conflitti mondiali la guerra è stata unanimemente bollata come il male assoluto. Oggi, come ci ricorda Margaret MacMillan, «non prendiamo la guerra abbastanza sul serio. Preferiamo distogliere lo sguardo da un tema spesso tetro e deprimente, ma è un errore». Attraverso un viaggio lungo millenni, che parte dall'aggressività dei nostri antenati preistorici e arriva fino ad Al Qaeda, l'autrice ci racconta perché la guerra è un orizzonte inevitabile per le comunità umane. E tenta di rispondere alle domande che da sempre si pongono storici e filosofi: a quale momento nello sviluppo dell'umanità risalgono i primi scontri organizzati? È la natura umana che ci condanna a combatterci l'un l'altro? Riusciremo a liberarci totalmente dalla guerra?Attingendo agli insegnamenti del passato, la MacMillan ci mostra, con autorevolezza e una straordinaria verve narrativa, i molti volti del-la guerra, spiegandoci come ha determinato il nostro presente, la nostra visione del mondo e l'idea stessa che abbiamo di noi.

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Información

Editorial
RIZZOLI
Año
2021
ISBN
9788831804240
1

Umanità, società e guerra

«La guerra la fanno gli uomini, non le bestie, né gli dèi. È un’attività peculiare della specie umana. Definirla crimine contro l’umanità vuol dire trascurarne almeno per metà il significato; la guerra è anche la punizione di un crimine»
Frederic Manning, Fino all’ultimo uomo
Passeggiando per la stupenda città alpina di Bolzano capita spesso di vedere lunghe code all’ingresso del Museo archeologico dell’Alto Adige. I turisti attendono pazienti, molti con bambini al seguito, per ammirare una delle principali attrazioni della città: il corpo mummificato di un uomo vissuto intorno al 3300 a.C. Ötzi – «l’uomo venuto dal ghiaccio» – morì prima che fossero costruite le piramidi e innalzati i massi di Stonehenge, eppure il ghiaccio ne ha conservato intatto il corpo e gli averi finché non fu scoperto nel 1991 da due escursionisti. Oltre a un mantello di fibra vegetale indossava calzoni aderenti, stivali e un cappello, tutti di pelle. L’ultimo pasto che aveva consumato, ancora presente nello stomaco, consisteva in carne essiccata, radici, frutta e probabilmente pane. Aveva con sé cestini di legno e vari utensili, tra i quali un’ascia di rame, un pugnale, alcune frecce e parti di un arco.
All’inizio si ipotizzò che si fosse smarrito durante una bufera di neve e che fosse morto in solitudine, restando indisturbato per cinque millenni. Sembrava la triste storia di un contadino innocente o forse quella di un pastore. Nei decenni successivi, grazie ai progressi della scienza e della medicina, fu possibile esaminare il corpo più attentamente, con TAC, radiografie e test biochimici. Ötzi aveva una punta di freccia conficcata in una spalla e il corpo segnato da tagli ed escoriazioni. Pareva inoltre che avesse subito un trauma cranico. È dunque più probabile che sia morto per le ferite infertegli da uno o più aggressori. Ed è ragionevole pensare che abbia a sua volta ucciso qualcuno, a giudicare dal sangue presente sul suo pugnale e sulla punta di una freccia.
Ötzi non è certo l’unica testimonianza che i primi esseri umani, almeno a partire dall’Età della pietra, costruivano armi, si combattevano l’un l’altro e facevano del loro meglio per farsi fuori a vicenda. Dal Medio Oriente all’America e al Pacifico, dappertutto sono state rinvenute sepolture contemporanee o antecedenti all’epoca di Ötzi, piene di scheletri recanti i segni di una morte violenta. Mentre le armi in legno e pelle sono facilmente deperibili, gli archeologi hanno scoperto lame di pietra ancora conficcate negli scheletri.
A quanto pare la violenza fa parte da tempo immemore della storia dell’uomo, a cominciare da quando i nostri antenati conducevano una vita nomade raccogliendo piante commestibili e uccidendo altre creature per cibarsene. Gran parte di quanto sappiamo è ovviamente frutto di speculazioni. Rintracciare e interpretare le evidenze diventa tanto più complicato quanto più ci si inoltra nel passato – consideriamo che l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra circa trecentocinquantamila anni fa – ma stiamo ottenendo un numero sempre maggiore di informazioni grazie alle scoperte archeologiche e ai progressi scientifici, come la lettura del DNA antico. Oggi sappiamo che fino a non molto tempo fa, considerata la lunga storia della razza umana, l’uomo si organizzava in piccoli gruppi sparsi nelle aree più temperate del pianeta. Non c’era molto per cui combattere in quanto a beni materiali ed è lecito supporre che quando un gruppo veniva minacciato dalla presenza di un altro si limitasse a spostarsi. Per gran parte del XX secolo gli studiosi delle origini della società furono inclini a credere che i primi gruppi nomadi vivessero un’esistenza pacifica. Tuttavia gli archeologi hanno portato alla luce scheletri riconducibili a quell’epoca remota le cui ferite fanno pensare il contrario. Gli antropologi hanno cercato di ricostruire quell’epoca sulla base delle poche società di cacciatori-raccoglitori sopravvissute fino all’età moderna. Ma si tratta di una metodologia di indagine indiretta che può trarre in inganno: un osservatore esterno porterebbe con sé i propri preconcetti, rischiando di contaminare le società che studia sin dal momento in cui entra in contatto con esse e già solo perché entra in contatto con esse.
A tale proposito, alcune scoperte sono indicative. Nel 1803 per esempio, William Buckley, un ragazzo di tredici anni fuggito in Australia da una colonia penale inglese, trovò rifugio presso gli aborigeni e visse tra loro per trent’anni. In seguito descrisse un mondo in cui incursioni, agguati, faide interminabili e morti improvvise e violente erano parte integrante della struttura della società. All’altro capo del mondo, nel rigido paesaggio artico, i primi esploratori e i primi antropologi scoprirono che gli indigeni, tra cui gli inuit, costruivano armi e corazze con ossa e avorio e avevano una lunga tradizione orale di racconti di guerra. Nel 1964 l’americano Napoleon Chagnon, giovane studente di antropologia, condusse una ricerca sul campo tra gli yanomami della foresta pluviale brasiliana. Si aspettava di veder confermata la teoria prevalente secondo la quale i cacciatori-raccoglitori sarebbero stati gente pacifica. Capì che gli yanomami trascorrevano la maggior parte del tempo in armonia nel loro villaggio, gentili e pacati l’uno con l’altro, ma tutto cambiava quando si trattava di interagire con gli altri villaggi. Allora le incomprensioni si risolvevano a suon di mazze e arpioni, e le incursioni nel villaggio avversario allo scopo di uccidere uomini e bambini e rapire le donne non erano un evento raro. Nel corso dei suoi trent’anni di studio a distanza ravvicinata, Chagnon concluse che un quarto degli yanomami di sesso maschile era andato incontro a una morte violenta.
Malgrado gli accesi scambi – guerre, appunto – di parole e idee tra storici, antropologi e sociobiologi, le evidenze sembrano dare ragione a chi sostiene che gli esseri umani abbiano sempre avuto la propensione ad attaccarsi l’un l’altro in modo organizzato – in altre parole, a farsi la guerra. Il che ci obbliga a chiederci come mai gli uomini vogliano e sappiano uccidersi tra loro. Non è solo un rompicapo intellettuale: molto difficilmente riusciremo a evitare conflitti futuri senza comprendere per quale ragione ci scontriamo da sempre. Finora esistono molte teorie in proposito, ma nessuna risposta che sia ritenuta valida all’unanimità. La guerra potrebbe essere il risultato dell’avidità o della lotta per risorse sempre più scarse – cibo, territorio, partner sessuali, schiavi. Oppure gli uomini sono indotti da legami biologici e cultura condivisa a valorizzare il proprio gruppo di appartenenza, sia esso un clan o una nazione, e a temere gli altri? Perdiamo istintivamente il controllo come i nostri cugini scimpanzé, quando ci sentiamo minacciati? La guerra è qualcosa di ineludibile o un nostro costrutto teoretico e culturale? Poiché tanto la guerra quanto il timore di essa ci accompagnano ancora nel XXI secolo, si tratta di domande che non possiamo ignorare.
La guerra non sarebbe possibile senza la volontà di uccidere, ma quest’ultima non è sufficiente, di per sé, a definirla. Non diremmo mai, di due uomini che fanno a botte in un bar né di decine di membri di una gang che se le danno per strada o in un parco, che si sono dichiarati guerra. La violenza che genera incidenti e morte è parte della guerra, ma tendiamo a considerarla come uno dei suoi strumenti, non come il suo fine ultimo. Il grande teorico militare tedesco Carl von Clausewitz, formulando una delle sue osservazioni più note, disse: «La guerra è un atto di violenza il cui obiettivo è costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà». La guerra, sia essa di attacco o di difesa, ha sempre uno scopo. Come nel caso di gang e singoli individui, essa si combatte per onore, sopravvivenza o controllo, ma si distingue da una scazzottata in un bar per dimensioni e organizzazione. Coinvolge decine, centinaia, migliaia, perfino milioni di persone anziché un paio o un gruppetto. È uno scontro tra due società organizzate che impongono fedeltà ai propri membri ed esistono da molto tempo, di solito su un territorio considerato di propria appartenenza. Hedley Bull, politologo australiano, poneva la questione in questi termini: «La violenza non è guerra se non è condotta da un’unità politica […]». E proseguiva: «Analogamente, la violenza condotta da un’unità politica non è guerra a meno che non sia diretta contro un’altra unità politica». Le gang hanno una loro organizzazione e proclamano di condividere valori e obiettivi, ma non sono unità politiche o sociali stabili. Possono di certo diventarlo, ampliandosi nel tempo fino a trasformarsi in clan, tribù, baronie, regni e nazioni in grado di sostenere una guerra.
Uno dei tanti paradossi della guerra è che gli uomini sono diventati più bravi a farla dal momento in cui hanno creato società sempre più organizzate. In effetti le due branche di sviluppo si sono evolute parallelamente. La guerra – violenza organizzata e intenzionale tra due unità politiche – si è fatta più elaborata con l’avvento delle società stanziali organizzate e ha essa stessa accresciuto l’organizzazione e la forza di tali società. Sono passati appena diecimila anni – un istante nella storia dell’uomo – dal tempo in cui gli uomini hanno deciso di darsi all’agricoltura e all’allevamento, ossia da quando la guerra si è fatta più sistematica, richiedendo un addestramento speciale e una classe guerriera. Oltre alle sepolture, gli archeologi hanno trovato in varie zone del mondo, per esempio in Turchia, resti di fortificazioni risalenti almeno al 6000 a.C., e tracce di abitazioni che sembrano essere state incendiate deliberatamente. Con l’avvento dell’agricoltura gli uomini svilupparono un maggiore attaccamento al luogo in cui abitavano e ai beni da difendere o di cui impadronirsi. Per l’autodifesa erano necessari una maggiore organizzazione e un maggior numero di risorse, che a loro volta permisero ai singoli gruppi di ampliare il proprio territorio e il proprio numero in modo pacifico o meno.
Tra i vari dibattiti sull’origine e l’evoluzione della guerra ci si domanda anche se nel tempo l’uomo sia diventato più o meno violento. Steven Pinker e altri studiosi che la pensano come lui, per esempio l’archeologo Ian Morris, sono ottimisti e ravvisano una chiara diminuzione della violenza. In molti Paesi non vigono più le pubbliche esecuzioni; esistono leggi contro la crudeltà verso gli animali e i bambini; sport come il tormento dell’orso e i combattimenti tra cani sono in genere considerati illegali. Per di più, gli ottimisti arrivano a calcolare il totale delle vittime di guerra – di per sé un compito tutt’altro che semplice – per sostenere che i tassi di omicidio erano in passato molto più alti rispetto al presente e che i decessi in guerra, proporzionalmente agli esseri umani vivi in un determinato momento, nel XX e XXI secolo sono diminuiti, perfino tenendo conto dell’enorme spargimento di sangue delle due guerre mondiali rispetto alle guerre precedenti.
Altri contestano questi dati e affermano che le vittime di guerra del XX secolo ammonterebbero al settantacinque per cento del totale degli ultimi cinquemila anni. Ancora più scoraggiante in merito al futuro dell’umanità sono i dati dell’università di Firenze e di quella del Colorado che tramite strumenti matematici prospettano una tendenza a condurre guerre meno frequenti ma più devastanti. La teoria è che quanto più le società si fanno interconnesse, tanto più rapidamente un conflitto riesce a dilagare seguendo l’ordito della rete – come un virus in un computer o un incendio in una foresta. Nell’estate del 1914 bastò una controversia nei Balcani a innescare la Grande Guerra perché le potenze europee erano talmente interconnesse sulla base di trattati, intese e progetti che al momento dell’assassinio dell’arciduca a Sarajevo la tensione salì alle stelle fino a degenerare nel conflitto bellico.
Se anche Pinker avesse ragione – e il dibattito in merito è ancora in corso – la prospettiva non sarebbe comunque rassicurante. Chi sta sperimentando la «lunga pace» in corso dal 1945 deve rendersi conto che in altre zone del mondo – Indocina, Afghanistan, la regione dei Grandi Laghi in Africa e gran parte del Medio Oriente – ci sono stati e ci sono tuttora numerosi conflitti. Un lungo progetto condotto dall’università di Uppsala in Svezia stima che tra il 1989 e il 2017 oltre due milioni di persone hanno perso la vita a causa della guerra. A partire dal 1945, cinquantadue milioni di persone sono state quasi certamente costrette a fuggire a causa di uno scontro armato.
La presenza predominante di guerra e violenza nel passato e il loro persistere nel presente ci inducono a porci una domanda scomoda, ossia se gli uomini non siano geneticamente programmati per combattersi l’un l’altro. Alcune ricerche si sono concentrate sull’osservazione dei nostri parenti più prossimi: gli scimpanzé e i bonobo. Entrambe le specie vivono in gruppi organizzati i cui membri comunicano tra loro e costruiscono utensili primitivi. (Di recente nell’Irlanda del Nord un paio di intraprendenti scimpanzé, pur di scappare dallo zoo di Belfast, hanno collaborato alla costruzione di una scala fatta di rami strappati a un albero.) Scimpanzé e bonobo sono quasi identici nell’aspetto, tanto che fino agli anni Venti del Novecento si credeva fossero un’unica specie. In realtà si sono evoluti in maniera piuttosto diversa per quanto riguarda la vita di gruppo e le relazioni con gli estranei.
Jane Goodall ha studiato gli scimpanzé nel loro habitat naturale in Tanzania per oltre cinquant’anni. Lei e la sua squadra riuscirono a confondersi nell’ambiente al punto che gli scimpanzé ignoravano la loro presenza. Gli osservatori videro gli animali stringere relazioni, prendersi cura dei piccoli, giocare… e uccidersi a vicenda. I gruppi dominati dai maschi, fieramente attaccati al proprio territorio, sferravano attacchi organizzati contro altri gruppi, spesso senza neanche essere stati provocati. Uccidevano scimpanzé isolati, allontanatisi troppo dal loro territorio, e facevano incursione nei gruppi rivali, uccidendo indifferentemente maschi, femmine e cuccioli. Nel corso di uno scontro particolarmente lungo, un gruppo sterminò l’altro e ne occupò il territorio. Nella sua relazione, Goodall scrive di aver inizialmente pensato che gli scimpanzé fossero «per la maggior parte più cordiali degli esseri umani». E prosegue: «All’improvviso invece ci rendemmo conto che gli scimpanzé sapevano essere brutali; che anche loro, come noi, avevano un lato oscuro».
Prima di affermare che la natura degli esseri umani sia indelebilmente macchiata, diamo un’occhiata all’esempio opposto dei bonobo, che non si combattono né si scacciano a vicenda. I bonobo dimostrano un’intelligenza pari a quella dei cugini scimpanzé ma si sono evoluti in maniera diversa, forse perché popolano la sponda meridionale del fiume Congo, dov’è semplice procacciarsi il cibo, e al contrario degli scimpanzé della Tanzania non hanno grossi rivali, in particolare i gorilla. Tra i bonobo sono le femmine – e non i maschi – a costituire gruppi forti e a dominare sull’altro sesso. Quando un bonobo incontra un consimile estraneo, il suo primo istinto non è attaccarlo ma lanciargli un paio di occhiate per poi avvicinarglisi con cautela. Alla fine i due esemplari cominciano a condividere il cibo, a pulirsi a vicenda e ad abbracciarsi e coccolarsi. (Su internet spopolano filmati di bonobo che si divertono, anche se molti li considererebbero non adatti ai bambini.) Non è ancora chiaro se la propensione dei bonobo per l’amore anziché per la guerra sia il risultato dell’ambiente, dell’evoluzione o di entrambi.
Quale delle due famiglie di cugini dell’uomo ci assomiglia di più? La risposta, forse, è entrambe. La parentela è innegabile: l’uomo condivide il novantanove per cento del DNA con lo scimpanzé e con il bonobo. Diversamente da questi, tuttavia, noi abbiamo sviluppato il linguaggio, elaborato tecnologie e la capacità di pensare in modo astratto. Abbiamo costruito società altamente complesse dotate di istituzioni politiche e sociali, e sistemi di idee, credenze e valori. Indubbiamente, come gli scimpanzé, sappiamo reagire con violenza quando siamo spaventati ma, come i bonobo, abbiamo una capacità altamente sviluppata di stabilire relazioni amichevoli, collaborare, fidarci del prossimo ed essere altruisti. Nel saggio Il paradosso della bontà, l’antropologo Richard Wrangham afferma che nel lungo corso della sua evoluzione l’uomo abbia imparato a mitigare il suo lato aggressivo, in parte addomesticando se stesso proprio come ha fatto con gli animali selvatici. Pensiamo per esempio ai lupi, che alla fine sono diventati i nostri fedeli cani domestici. Wrangham ipotizza che, cooperando, gli uomini si siano gradualmente liberati dei membri più violenti del gruppo, uccidendoli. Un altro antropologo suggerisce che anche le preferenze sessuali potrebbero aver giocato un ruolo significativo in tale processo, ponendo per esempio che le donne, unitamente ai membri della famiglia, preferissero accaparrarsi i compagni più pacifici e collaborativi. Di pari passo al graduale addomesticamento dei nostri antenati, aggiunge Wrangham, si andavano sviluppando le istituzioni politiche e sociali, compresi i governi centralizzati in cui il controllo della violenza era più serrato. Per cui, diversamente dagli scimpanzé, gli uomini non avrebbero più potuto mutilarsi e uccidersi a loro piacimento. Il che tuttavia non comporta la cessazione della violenza; indica piuttosto che le società possono disporne in maniera organizzata e propositiva. Il paradosso, secondo il professor Wrangham, sta nel fatto che all’incremento della docilità dell’uomo corrisponda il suo perfezionamento nell’arte di uccidere, per di più su scala maggiore.
Personalmente, ritengo che l’eredità lasciataci dall’evoluzione sia innegabile. Siamo dotati di istinti e sensazioni, come la paura; dobbiamo soddisfare bisogni e desideri come quelli per il cibo o per il sesso. Al pari della maggior parte delle specie, dagli uccelli ai mammiferi, nutriamo un forte attaccamento al nostro territorio. Ma siamo anche esseri senzienti in grado di prendere decisioni, di dare ascolto al lato migliore della nostra natura quanto al peggiore. Abbiamo creato culture che a loro volta ci plasmano e ci aiutano a capire cosa è davvero importante per noi. Per cui non combattiamo solo per sopravvivere – cibo, sesso, riparo – ma anche in nome di concetti astratti, per esempio la religione, e in favore delle nazioni per le quali riteniamo valga la pena uccidere o morire. E non sempre combattiamo, per quanto la nostra causa possa essere importante. Cerchiamo anche soluzioni pacifiche. L’umanità ha sognato e sogna ancora un mondo senza guerre.
Il verdetto su come e perché ci siamo evoluti in questo modo, e su quanto ciò abbia influito sulla guerra, non è ancora stato pronunciato. Il dibattito è altrettanto acceso in merito a un altro punto, e cioè se la società ci abbia resi migliori o peggiori, più pacifici o più bellicosi. Anziché mettere in luce le differenze tra scimpanzé e bonobo, questa questione interessa due filosofi europei: Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau. Entrambi hanno ragionato sulla relazione tra uomo e società e si sono chiesti se la normale condizione del primo sia la pace o la guerra. Entrambi descrivono l’uomo in uno stato di natura prima dell’avvento delle società organizzate. Diversamente da noi, i due filosofi non avevano a disposizione alcun dato che testimoniasse lo stile di vita degli uomini dell’antichità; eppure sentivano il bisogno di riflettere su come questi ultimi avessero vissuto in un remoto passato, di immaginare come coabitassero senza leggi né organizzazione alcuna, e di volgere quindi lo sguardo sulla propria società.
Rousseau riteneva che la violenza non fosse parte integrante dell’essere umano. Gli esseri umani, a suo parere, erano stati per natura mansueti finché la società non li aveva corrotti. Rousseau immagina un idillio bucolico in cui i cacciatori-raccoglitori vivevano in armonia con il prossimo e con la natura. Poiché disponevano di tutto ciò che occorreva per soddisfare i propri bisogni, non avevano motivo di combattere, né per rubare il cibo agli altri né per difendere ciò che possedevano. Il male si insinuò tra di loro nel momento in cui divennero stanziali e cominciarono a praticare l’allevamento. Questo portò, secondo Rousseau, allo sviluppo della proprietà privata e al commercio specializzato poiché, mentre qualcuno continuava a fare il contadino, altri divennero artigiani, guerrieri, sovrani. Chi aveva successo accumulava un maggior numero di beni, di modo che la società, un tempo ugualitaria, divenne iniqua e gerarchica. I forti sfruttavano i deboli in un assetto sociale caratterizzato da avidità, egoismo e violenza. A mano a mano che le società e gli Stati si evolvevano divenendo più complessi, e i loro membri acquisivano maggiori poteri, gli uomini erano sempre meno liberi. Poiché gli Stati separati tendevano a pensare solo ai propri interessi, erano più propensi che in passato a dichiararsi guerra a vicenda. La soluzione che Rousseau esponeva nel Contratto sociale non consisteva nel ritornare indietro nel tempo al suo ipotetico paradiso, cosa che egli stesso riteneva impossibile, ma nel creare un nuovo tipo di relazione tra gli individui e le istituzioni politiche e sociali. Gli uomini hanno bisogno di vivere e lavorare insieme, ma dovrebbero essere liberi di farlo di propria volontà, in uno Stato che lavori per loro e non viceversa, uno Stato che garantisca loro la libertà. Se ciascun uomo potesse agire come se avesse liberamente stipulato un contratto con gli altri, sia l’individuo sia la società sarebbero più felici e in armonia. Una volta ottenuto questo risultato gli Stati, finalmente più assennati, potrebbero collaborare per superare insieme quelle paure comuni, quella reciproca diffidenza e quell’avidità che sono così spesso la causa della guerra. A tratti Rousseau sembra aver immaginato una sorta di Stati federati d’Europa i cui membri bandivano la guerra e assicuravano la pace.
Hobbes ritrae un quadro alquanto diverso. Nel suo stato di natura, gli uomini conducevano una vita precaria e combattevano l’uno contro l’altro per sopravvivere. La vita, affermava, era «solitaria, povera, pericolosa, brutale e breve». Gli uomini non avevano né il tempo né le risorse per costruire utensili, lavorare la terra, barattare o apprendere. «Nessuna conoscenza della faccia della terra, nessun conto del tempo, nessuna arte, nessuna lettera dell’alfabeto, nessuna società e, cosa peggiore di tutte, la paura continua e il pericolo di una morte violenta.» Lungi dal rintracciare nello sviluppo delle società stanziali e...

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