Nanorazzismo
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Nanorazzismo

Il corpo notturno della democrazia

Achille Mbembe, Guido Lagomarsino

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  1. 192 páginas
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Nanorazzismo

Il corpo notturno della democrazia

Achille Mbembe, Guido Lagomarsino

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Come si costruisce il nemico? Come il migrante viene trasformato in bersaglio e capro espiatorio? Il docente di Storia e Scienze politiche all'Università di Johannesburg Achille Mbembe lo indaga, approfondendo non solo gli impedimenti fisici imposti dal razzismo ma anche e soprattutto le ferite psichiche che produce."Left"

Il nanorazzismo è il razzismo fatto cultura e respiro, nella sua capacità d'infiltrarsi nei pori e nelle vene della società, nell'ora dell'ammaliamento di massa. È quella forma narcotica del pregiudizio che si esprime nei gesti in apparenza neutri di ogni giorno, nello spazio di un nulla, di una frase in apparenza inconsapevole, di una battuta, di un'allusione e, bisogna pur dirlo, di una cattiveria voluta, di un intento malevolo, di un'oscura voglia di stigmatizzare e soprattutto di fare violenza, ferire e umiliare, di infangare chi non si considera dei nostri.

Achille Mbembe, uno dei maggiori intellettuali contemporanei, si addentra nelle dinamiche che rendono l'identificazione dell'altro come nemico la modalità dominante di relazione nella società contemporanea.

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Información

Año
2022
ISBN
9788858148983
Categoría
Economía

1.
L’uscita dalla democrazia

Questo libro ha l’intento di contribuire, partendo dall’Africa dove vivo e lavoro (ma anche dal resto del mondo, per il quale non ho mai smesso di vagare), a una critica del tempo che è il nostro: il tempo del ripopolamento e della globalizzazione del mondo sotto l’egida del militarismo e del capitale e, come ultima conseguenza, il tempo dell’uscita dalla democrazia (o del suo rovesciamento). Per portare a buon fine il progetto procederemo in modo trasversale, attenti ai tre temi dell’apertura, della traversata e della circolazione. È un procedimento che si rivela utile solo se lascia spazio a una lettura a ritroso del nostro presente.
Il procedimento parte dal presupposto che qualunque decostruzione autentica del nostro tempo debba partire dal pieno riconoscimento del ruolo inevitabilmente provinciale dei nostri discorsi e del carattere necessariamente regionale dei nostri concetti, e pertanto da una critica di qualsiasi forma di universalismo astratto. Così facendo, il procedimento si sforza di rompere con l’atmosfera dominante della nostra epoca, che, come si sa, è improntata alla chiusura e alle demarcazioni di ogni sorta, la frontiera tra qui e laggiù, vicino e lontano, dentro e fuori, linea Maginot per gran parte di quello che oggi passa per “pensiero globale”. Ma il “pensiero globale” può essere solo quello che, dando le spalle alla segregazione teorica, si fonda di fatto sugli archivi di ciò che Édouard Glissant chiamava il “Tutto-mondo”.

1. Capovolgimento, inversione e accelerazione

Per le esigenze della riflessione che qui cerchiamo di delinea­re, meritano di essere messi in rilievo quattro tratti caratteristici del tempo che viviamo. Il primo è il restringimento del mondo e il ripopolamento della Terra con il manifestarsi di uno squilibrio demografico a vantaggio dei mondi del Sud. Lo sradicamento geografico e culturale, e poi il trasferimento volontario o l’insediamento forzato di intere popolazioni su vasti territori in precedenza abitati esclusivamente da popolazioni autoctone furono eventi decisivi del nostro avvento alla modernità1. Sul versante atlantico del pianeta scandirono quel processo di redistribuzione planetaria delle popolazioni due momenti significativi, legati all’espansione del capitalismo industriale.
Si tratta della colonizzazione (avviata all’inizio del Cinquecento con la conquista delle Americhe) e della tratta degli schiavi negri. Sia il commercio negriero sia la colonizzazione coincisero in gran parte con la formazione del pensiero mercantilista in Occidente, quando non ne furono puramente e semplicemente all’origine2. Il commercio negriero era funzionale all’emorragia e al prelievo delle braccia più utili e delle energie più vitali delle società fornitrici di schiavi.
Nelle Americhe fu messa al lavoro la manodopera servile di origine africana, nel contesto di un vasto progetto di controllo dell’ambiente ai fini di una sua valorizzazione razionale e proficua. Il sistema della piantagione fu prima di tutto, da molti punti di vista, il governo delle foreste e degli alberi da tagliare e bruciare regolarmente; del cotone e della canna da zucchero che dovevano rimpiazzare la flora preesistente, degli antichi paesaggi che occorreva rimodellare, delle precedenti formazioni vegetali che si dovevano distruggere e di un ecosistema che doveva essere sostituito da un agrosistema3. La piantagione, tuttavia, non era soltanto un dispositivo economico. Per gli schiavi trapiantati nel Nuovo Mondo, era anche la scena in cui si svolgeva un nuovo inizio. Qui cominciava un’esistenza ormai vissuta secondo un principio essenzialmente razziale. Ma la razza così intesa, lungi dall’essere un puro e semplice significante biologico, rimandava a un corpo senza mondo e fuori territorio, un corpo di energia combustibile, una specie di doppio della natura, che mediante il lavoro era possibile trasformare in stock o fondi disponibili4.
La colonizzazione, per parte sua, era funzionale all’escrezione di uomini e donne che per numerose ragioni erano giudicati superflui, in eccesso, nell’ambito delle nazioni colonizzatrici. Era questo il caso, in particolare, dei poveri a carico della società, dei vagabondi e dei delinquenti che si ritenevano nocivi per la nazione. La colonizzazione era una tecnica di regolazione dei movimenti migratori. All’epoca molti pensavano che questa forma di migrazione sarebbe stata vantaggiosa, in ultima analisi, per i paesi di partenza. «Non solo numerosi uomini che qui vivono ora nell’ozio e rappresentano un fardello, un peso, e nulla apportano a questo regno, saranno messi in tal modo al lavoro, ma anche i loro figli di dodici o quattordici anni o anche meno saranno distolti dall’ozio, facendo mille cose di poco valore che potrebbero essere buone mercanzie per questo paese», scriveva, per esempio, Antoine de Montchrestien nel suo Traité d’économie politique all’inizio del Seicento. Inoltre, aggiungeva, «le nostre donne inattive [...] saranno impiegate per strappare, tingere e separare le piume, per tirare, battere e lavorare la canapa, per raccogliere il cotone, e per varie cose nella tintura». Gli uomini, per parte loro, concludeva l’economista francese, potranno «impegnarsi nell’estrazione di minerali, nell’aratura e persino nella caccia alle balene [...] oltre alla pesca del merluzzo, del salmone, dell’aringa e nel taglio di alberi»5.
Dal secolo sedicesimo al diciannovesimo queste due forme di ripopolamento del pianeta tramite la predazione umana, l’estrazione delle ricchezze e la messa al lavoro di gruppi sociali subalterni rappresentarono le principali sfide economiche, politiche e, da molti punti di vista, filosofiche6. La teoria economica e quella della democrazia furono in parte elaborate partendo dalla difesa o dalla critica di una o dell’altra di queste due forme di redistribuzione geografica delle popolazioni7. Queste, di converso, furono all’origine di molteplici conflitti e guerre per la ripartizione e l’appropriazione. L’esito di questo movimento di dimensioni planetarie fu una nuova spartizione della Terra con al centro le potenze occidentali e, all’esterno o ai margini, periferie dove dominava la lotta a oltranza, destinate all’occupazione e al saccheggio.
È anche necessario prendere in considerazione la distinzione che si fa solitamente tra la colonizzazione commerciale – ovvero quella che puntava sulla strutturazione di empori – e la colonizzazione attuata con insediamenti veri e propri. Certo, in entrambi i casi si riteneva che l’arricchimento della colonia – di qualsiasi colonia – avesse senso solo se contribuiva ad arricchire anche la metropoli. La differenza, però, stava nel fatto che la colonia d’insediamento era concepita come un’estensione della nazione, mentre quella degli empori o di sfruttamento era solo un mezzo per arricchire la metropoli mediante un commercio asimmetrico e iniquo, quasi in assenza di investimenti rilevanti in loco.
D’altra parte, il dominio sulle colonie di sfruttamento era teoricamente destinato a finire e la presenza degli Europei in quei luoghi era del tutto temporanea. Nel caso delle colonie di insediamento, lo scopo della politica migratoria era di mantenere nell’ambito della nazione le persone che si sarebbero perse se fossero rimaste in patria. La colonia fungeva da valvola di sfogo per gli indesiderabili, appartenenti alle categorie della popolazione «i cui crimini e le cui dissolutezze» potevano diventare «in poco tempo devastanti», i cui bisogni li avrebbero spinti in prigione o costretti a mendicare, rendendoli così inutili per il paese. Questa divisione dell’umanità in popolazioni “utili” e “inutili” – “eccedenti” o “superflue” – è rimasta la regola, poiché l’utilità si misura sostanzialmente in base alla possibilità di sfruttare la forza lavoro.
Peraltro il ripopolamento della Terra all’inizio dell’era moderna non passa solo attraverso la colonizzazione. Migrazioni e mobilità si spiegano anche con fattori religiosi. Negli anni tra il 1685 e il 1730, all’indomani della revoca dell’editto di Nantes, fuggirono dalla Francia circa 170.000-180.000 ugonotti. L’emigrazione religiosa tocca anche molte altre comunità. In realtà s’intrecciano forme diverse di circolazione tra le nazioni: ad esempio gli ebrei portoghesi, le cui reti commerciali si articolano intorno ai grandi porti europei di Amburgo, Amsterdam, Londra o Bordeaux; gli Italiani che invadono il mondo della finanza, del commercio o dei mestieri altamente specializzati del vetro e dei prodotti di lusso; per non parlare dei soldati, dei mercenari e degli ingegneri che, grazie ai molteplici conflitti di quegli anni, passano allegramente da un mercato della violenza all’altro8.
All’alba del ventunesimo secolo la tratta degli schiavi e la colonizzazione di regioni remote non sono più i mezzi con i quali si attua il ripopolamento della Terra. Il lavoro, nella sua tradizionale accezione, non è più il mezzo privilegiato di formazione del valore. È tuttavia una fase di incertezze, di grandi e piccoli spostamenti e trasferimenti, in sintesi di nuove figure dell’esodo9. Le nuove dinamiche della circolazione e la formazione di comunità sparse si esplicano in gran parte con le attività commerciali e di scambio, le guerre, i disastri ecologici e le catastrofi ambientali, e i trasferimenti culturali di ogni genere.
L’invecchiamento accelerato dei gruppi umani delle nazioni ricche del mondo, da questo punto di vista, è un fatto di notevole rilevanza. È il contrario dei surplus demografici tipici del diciannovesimo secolo appena ricordati. La distanza geografica in quanto tale non costituisce più un ostacolo alla mobilità. Le grandi rotte migratorie si diversificano, e si attivano dispositivi sempre più sofisticati di aggiramento delle frontiere. Se i flussi migratori centripeti si orientano simultaneamente in più direzioni, l’Europa e gli Stati Uniti in particolare restano ancora i principali punti di insediamento delle moltitudini in movimento, specialmente di quelle che provengono dalle zone di maggior povertà del pianeta. Sorgono qui nuovi agglomerati e si costruiscono, nonostante tutto, nuove metropoli multinazio...

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