Un paese in movimento
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Un paese in movimento

L'Italia negli anni Sessanta e Settanta

Simona Colarizi

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Un paese in movimento

L'Italia negli anni Sessanta e Settanta

Simona Colarizi

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Nell'immaginario collettivo i Settanta sono rimasti impressi come gli 'anni di piombo'. Ma chi ha vissuto quel decennio ha una memoria viva degli 'altri' anni Settanta, quelli della crescita civile del paese, quando una straordinaria mobilitazione di giovani e di donne – operai, studenti, borghesi – ha chiuso i conti col passato e costruito un'Italia democratica e moderna. A loro hanno fatto da sponda le élites politiche riformiste, i sindacati e le tante associazioni che hanno dato vita alla più ricca stagione di riforme dell'intera storia d'Italia: scuola, sanità, pensioni, Statuto dei lavoratori, divorzio, nuovo diritto di famiglia, solo per citarne alcune tra le tante. Il libro racconta questi italiani, di gran lunga maggioritari rispetto a coloro che si perdono nella spirale di violenza. Ben più numerosi sono infatti i giovani che legano la loro esistenza agli ideali di libertà, di diritti e di democrazia. Sono loro a impedire che il paese cada in mano alle forze della reazione o si perda nel caos della rivoluzione. Sono loro a realizzare una vera e propria rivoluzione culturale che ha cambiato l'intera società italiana, dal mondo del lavoro a quello delle imprese, delle scuole, delle università, delle professioni, del pubblico impiego, delle famiglie, della politica e della Chiesa.

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Información

Año
2019
ISBN
9788858140109
Categoría
History

II.
1969-1976

1. I radicali e le battaglie per i diritti civili

Modernità e democrazia, due termini assenti nelle battaglie politiche dei gruppi estremisti marxisti e cattolici, sono invece centrali in quelle dei nuovi radicali apparsi sulla scena politica negli anni Sessanta in evidente discontinuità con il passato del partito radicale, fondato nel 1955 da una costola del Pli. Piuttosto è palese il loro più lontano legame con il movimento di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli, che si erano battuti contro il fascismo con metodi fondati sull’azione volontaria e sul coinvolgimento personale di singoli cittadini o di piccoli gruppi. Nessun grande schema ideologico, ma una teorizzazione dell’azione finalizzata a obiettivi limitati nel solco del radicalismo empirico anglosassone, è l’orizzonte politico di questo inedito soggetto, più un movimento che un partito, o comunque un partito “desacralizzato”, come lo definivano gli stessi militanti1. Obiettivi limitati certo, capaci però di oltrepassare i confini del convenzionale così da creare turbamento nella società e incertezza nelle autorità costituite sul come affrontare una sfida inedita, difficile da gestire o da soffocare con strumenti sperimentati in passato. Nell’Italia dominata dai due grandi partiti di massa – che avevano l’uno un forte ancoraggio a una ideologia totalizzante, l’altro alla religione –, la grande eco delle battaglie per i diritti civili promosse dai radicali, campioni dell’individualismo laico, si spiega naturalmente con le trasformazioni in corso da un decennio nel paese attraversato, come si è accennato, da una quantità assai varia di antagonismi politici, di comportamenti eversivi, di aspirazioni trasgressive, di sperimentalismi morali.
Il miracolo economico non aveva solo inciso sulla struttura sociale sconvolta da processi materiali, ma aveva suscitato la coscienza di nuovi interrogativi che non trovavano più risposte persuasive nella tradizionale rappresentazione del mondo offerta da comunisti e cattolici. Il conflitto di classe con il suo epicentro nell’industria era ancora dominante – come aveva appena dimostrato l’autunno caldo del 1969, che non chiudeva ma apriva un nuovo lungo ciclo di manifestazioni gestite dai sindacati e destinate a durare per tutti gli anni Settanta. Tuttavia, nella lotta capitale-lavoro, proletariato contro borghesia, non si riassumeva più l’intera conflittualità diffusa in ogni settore del sistema sociale che nel 1970 Alain Touraine definiva già col termine “post-industriale”2. E si trattava di antagonismi nati nel vissuto quotidiano di gruppi e di individui che inseguivano bisogni e desideri di cui pretendevano immediata soddisfazione.
Proprio sul terreno di una protesta che valicava l’orizzonte delle organizzazioni sindacali e dei partiti, si erano mossi fin dai primi anni Sessanta i nuovi radicali i cui obiettivi erano conseguenti alle tre direttrici culturali preminenti, anticlericalismo, pacifismo e diritti civili, riassunte nella Carta delle libertà del 1976. Spettava allo Stato democratico nei suoi poteri e nelle sue istituzioni garantire le libertà dei cittadini, i cui diritti andavano tutelati in quanto singoli o membri di comunità volontarie o di comunità necessarie (ospedali, carceri, caserme). Alla tutela di questi diritti erano dunque finalizzate le battaglie radicali, a partire da quella per il divorzio, iniziata nel 1963 quando il socialista Loris Fortuna aveva riunito i comitati pro divorzio, già attivi tra il 1957-1958, nella Lega italiana per l’istituzione e l’assistenza coniugi separati e per il divorzio in Italia, poi trasformata in Lid (Lega italiana per l’istituzione del divorzio).
Il percorso per arrivare alla legge sul divorzio approvata in Parlamento nel 1970 appariva tutto in salita se si considera quante resistenze avevano sempre incontrato i ben undici progetti legislativi rimasti tutti lettera morta, da quelli dei primi anni del Novecento fino all’ultimo del 1954 che portava le firme del deputato socialista Luigi Sansone e della senatrice Giuliana Nenni. La Chiesa aveva sempre fatto muro, convinta a ragione che la grande maggioranza della popolazione non fosse per nulla sensibile al tema, come del resto dimostrava un’inchiesta Doxa del 1962, dalla quale emergeva un dato pressoché immutato rispetto al precedente sondaggio del 1959: sette italiani su dieci si erano dichiarati contrari al divorzio, anche se nelle motivazioni addotte sembrava prevalere il conformismo ancor più della fede religiosa, come illustrava anche la cinematografia di quegli anni con il film di grande successo Divorzio all’italiana di Pietro Germi (1961) e con il più didascalico I fuorilegge del matrimonio (1963) di Vittorio e Paolo Taviani e Valentino Orsini.
Dal 1963 in poi si registrava però un interesse crescente sul tema, in armonia del resto con le rapidissime trasformazioni in atto nella società. Nel 1965 Fortuna presentò un nuovo disegno di legge per regolamentare i casi di scioglimento di matrimonio, e questa volta la proposta venne appoggiata da una mobilitazione straordinaria dei soci Lid tra i quali spiccava tutto lo stato maggiore dei radicali, infaticabili nell’organizzare manifestazioni e convegni: nel 1966, per esempio, riuscirono a portare a piazza del Popolo 15 mila sostenitori, e duemila affollarono nel 1967 il Teatro Adriano. Si attivò anche la stampa, «L’Espresso» e soprattutto il settimanale «ABC», che tra l’ottobre 1965 e il marzo 1966 raccolse 32 mila cartoline dei lettori a favore del divorzio da inviare ai singoli parlamentari. Salirono poi a 100 mila le firme su una petizione popolare a sostegno della legge Fortuna arrivate sul tavolo del presidente della Camera dei deputati nel 1967.
Metodi nuovi di propaganda dunque, certamente più efficaci dell’appello che nel 1964 il procuratore generale della Cassazione, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva rivolto al Parlamento perché venisse affrontato e sanato il problema dei coniugi separati, ormai un numero imponente di cittadini. La Lid li quantificava in 600 mila separati legali e un milione e mezzo separati di fatto, cui andavano sommate le migliaia e migliaia di persone coinvolte, in primis i figli di separati o di conviventi. Complessivamente una percentuale notevole di italiani interessati agli aspetti patologici del matrimonio, cioè una potenziale sacca di consensi per la battaglia a favore del divorzio; soprattutto, un terreno ideale per sperimentare un’azione politica che puntava al coinvolgimento dei singoli soggetti ai quali i radicali assicuravano i modi e i luoghi per esprimere il loro disagio, collegando così un dato personale a un’esigenza generale dei cittadini.
Ne fossero consapevoli o no, gli italiani infatti avevano di fronte la questione della sovranità dello Stato rispetto alla Chiesa che pretendeva di esercitare la pienezza della giurisdizione su tutti gli effetti civili del matrimonio, come previsto dall’articolo 34 del Concordato, contestato duramente dai radicali attivi anche nell’Associazione per la libertà religiosa. L’Alri, nata in Italia negli anni Cinquanta per imporre allo Stato il pieno rispetto dei culti acattolici discriminati dalle norme concordatarie, negli anni Sessanta moltiplicò le sue iniziative fino ad arrivare al 1967, proclamato dai radicali “anno anticlericale”, con una grande manifestazione al cinema Adriano di Roma. Vi aderirono anche la gioventù liberale italiana, la federazione giovanile socialista e una delegazione della gioventù comunista marxista-leninista.
Nel 1971 sarebbe nata la Lega per l’abrogazione del Concordato (Liac), nella quale erano attivi esponenti dei partiti laici e della sinistra marxista che, per quanto impegnati nella battaglia, non avrebbero avuto però una risposta popolare pari alla mobilitazione suscitata dal divorzio. Troppo tecnico, ma soprattutto troppo generale il tema del rapporto Stato/Chiesa, che i cittadini erano in grado di affrontare solo partendo invece da interessi e da bisogni concreti, come il divorzio appunto e di lì a poco l’aborto. Problemi concreti, vissuti e sofferti che aprivano un conflitto di coscienza nei cattolici, vincolati al precetto dell’obbedienza alle direttive della Chiesa. Lo Stato non poteva sanare questo conflitto morale, ma era in suo potere legiferare per consentire la soluzione del problema offrendo ai suoi cittadini cattolici e non cattolici la piena libertà di scelta. Del resto a depotenziare la battaglia anticoncordataria interveniva proprio quel processo accelerato di laicizzazione della società o di «scristianizzazione» della società – come lo ha definito Silvio Lanaro3 –, che stava erodendo di fatto le radici cattoliche sulle quali la Dc, braccio politico della Chiesa, aveva costruito la sua egemonia sul sistema politico italiano. La mobilitazione antiautoritaria colpiva anche e a fondo l’obbedienza alle gerarchie ecclesiastiche e alla stessa dottrina cattolica, sempre più letta e interpretata non come parola di Dio, ma come una somma di consigli e di suggerimenti sulla condotta morale ai quali uniformarsi non era più un obbligo, ma una scelta libera della propria coscienza.
Difficile però negli anni Sessanta intuire tutte le conseguenze di queste trasformazioni in corso, anche se la loro accelerazione sarebbe stata tale da far cambiare umori e comportamenti degli italiani nel giro di pochi anni. Ancora nel 1966 il traguardo divorzio appariva lontano secondo un’indagine delle Acli che indicava la prevalenza dei favorevoli alla legge sullo scioglimento dei matrimoni solo nelle aree urbane dove massima era la presenza della Lid. Alla Lega oltre ai radicali aderivano a titolo personale esponenti socialisti soprattutto, ma anche repubblicani, liberali, comunisti ed extraparlamentari; appunto adesioni individuali, perché i partiti non si impegnavano a fondo, soprattutto non si impegnava il Pci, la cui forza organizzativa avrebbe potuto avere un’incidenza decisiva in questa fase della battaglia per il divorzio che si chiudeva con un nulla di fatto in Parlamento. Fin dall’inizio della V Legislatura però Fortuna, questa volta insieme al liberale Antonio Baslini, ripresentava la proposta di legge firmata da sessanta deputati, socialisti, repubblicani, psiuppini e comunisti, che finalmente nel novembre del 1969 entrava nella fase della discussione finale, mentre fuori dai palazzi la piazza dei divorzisti si mobilitava. La stessa piazza percorsa proprio in quei giorni dai cortei degli operai: un autunno caldissimo, dunque, che offriva la fotografia di un paese in fermento continuo tra manifestazioni e scioperi, a indicare una partecipazione alla vita pubblica mai nel passato così intensa e soprattutto così consapevole.
Rispetto alle contemporanee dimostrazioni di protesta della classe operaia, nella campagna per il divorzio si sperimentavano modalità e iniziative propagandistiche del tutto inedite, compreso anche lo scandaloso sciopero della fame che nel novembre 1969 Marco Pannella e Roberto Cicciomessere mettevano in scena di fronte a Montecitorio per convincere i deputati a votare la legge sul divorzio. Non sarebbe rimasto un gesto isolato; Pannella lo avrebbe ripetuto anche negli anni a venire, malgrado l’ondata di indignazione suscitata e riesplosa nel 1974 durante la campagna referendaria. A difenderlo dalle tante accuse di scomposta volgarità nell’uso politico dell’esistenza umana, scendeva in campo Pier Paolo Pasolini che nel «candore di Pannella» vedeva «la possibilità di esorcizzare e inglobare il suo scandalo»4. Il «disprezzo teologico» che circondava il leader dei radicali – per usare ancora un’espressione di Pasolini – non si limitava solo alla comprensibile reazione della Dc che vedeva sgretolarsi la maggioranza di centrosinistra sul voto a favore della legge Fortuna-Baslini. Il poeta si riferiva anche al Pci, costretto a votare con i socialisti e i liberali un provvedimento legislativo che a Berlinguer appariva quanto meno inopportuno.
Nell’intero arco della storia repubblicana i comunisti avevano sempre evitato di entrare in conflitto con la Dc sui temi religiosi o che coinvolgessero direttamente la Chiesa cattolica, come era apparso evidente al momento del voto in Assemblea Costituente sull’art. 7. Un partito di integrazione di massa come il Pci, che agiva all’interno di un paese a stragrande maggioranza cattolica, sapeva bene quanto gli anatemi della Chiesa – arrivati fino alla scomunica nel 1949 – fossero un grosso ostacolo, da non rendere ancora più ingombrante con proposte di legge quale appunto quella sul divorzio, estranea alla visione della lotta di classe. Non se ne vedeva l’utilità, né l’urgenza ma solo il danno che avrebbe arrecato al sotterraneo disgelo che si era avviato proprio dalla metà degli anni Sessanta con i democristiani, preludio a quel compromesso storico destinato a venire teorizzato esplicitamente fin dai primi anni Settanta. Eppure era impossibile fermare i socialisti decisi a vincere in Parlamento questa battaglia dopo la durissima sconfitta subita alle elezioni politiche del 1968, quando i consensi al Psi erano precipitati al punto di ritornare sulla percentuale del 1948. Vent’anni buttati che azzeravano gli sforzi per aumentare il potere coalittivo dei socialisti nella compagine di governo, ma anche certificavano il fallimento della riunificazione socialista appena realizzata. I voti del partito di Saragat e di quello di Nenni confluiti nel Psu arrivavano al 14,5%, pochi decimali in più di quanto il Psi da solo aveva ottenuto nel 1958 (14,2%). (Nella stessa tornata elettorale del 1958 il Psdi si era attestato sul 4,6%.)
La ormai consueta crescita del Pci (dal 25,3% del 1963 al 26,9%) e quel 4,5% ottenuto dal Psiup (nato dalla scissione dei socialisti nel 1964) declassavano il Psi agli occhi della Dc in recupero ...

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