Comunità immaginate
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Comunità immaginate

Origini e fortuna dei nazionalismi

Benedict Anderson

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  1. 240 páginas
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Comunità immaginate

Origini e fortuna dei nazionalismi

Benedict Anderson

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Benedict Anderson indaga un tema di straordinaria attualità: la microfisica del sentimento di appartenenza nazionale, i suoi linguaggi, la sua genesi e la diffusione in ambiti culturali enormemente diversi tra loro.Un'opera fondamentale, tradotta in 25 lingue.

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Información

Año
2018
ISBN
9788858131831
Categoría
Philosophy

1.
Introduzione

Forse, senza che sia stata ancora percepita, incombe su di noi una radicale trasformazione nella storia del marxismo e dei movimenti marxisti. I segni più evidenti sono le recenti guerre tra Vietnam, Cambogia e Cina. Queste guerre sono di rilevanza storica e mondiale in quanto sono le prime tra regimi la cui indipendenza e le cui credenziali rivoluzionarie sono innegabili, e perché nessuna delle parti belligeranti ha fatto più di uno svogliato tentativo di giustificare il bagno di sangue in termini di una riconoscibile prospettiva teoretica marxista. Laddove era ancora possibile interpretare gli scontri al confine cino-sovietico del 1969 e gli interventi militari sovietici in Germania (1953), Ungheria (1956), Cecoslovacchia (1968) e Afghanistan (1980) in termini di (a seconda dei gusti) «social-imperialismo», «difendere il socialismo», ecc., nessuno, credo, può pensare seriamente che un tale vocabolario abbia a che vedere con quel che è accaduto in Indocina.
Se l’invasione del Vietnam e l’occupazione della Cambogia nel dicembre 1978 e nel gennaio 1979 rappresentarono la prima guerra con armi convenzionali su larga scala condotta da un regime rivoluzionario marxista contro un altro1, l’attacco cinese contro il Vietnam in febbraio confermò rapidamente il precedente. Solo i più ottimisti oserebbero scommettere che negli anni finali di questo secolo un qualsiasi scoppio di conflitti internazionali troverà necessariamente l’Urss e la Rpc (per non parlare degli stati socialisti più piccoli) a sostenere, o a combattere per la stessa parte. Chi può essere sicuro che Yugoslavia e Albania un giorno non arriveranno a esplodere? Quei gruppi eterogenei che desiderano un ritiro dell’Armata Rossa dalle sue installazioni nell’Europa dell’Est dovrebbero ricordare fino a quale livello la sua opprimente presenza abbia dal 1945 escluso ogni conflitto armato tra i regimi marxisti della regione.
Tali considerazioni servono a sottolineare come, dalla seconda guerra mondiale in poi, ogni rivoluzione riuscita si sia definita in termini nazionali (la Repubblica Popolare Cinese, la Repubblica Socialista del Vietnam...) e, così facendo, si sia fermamente ancorata in uno spazio territoriale e sociale ereditato dal passato pre-rivoluzionario. Al contrario, il fatto che l’Unione Sovietica condivida con il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord la rara distinzione di rifiutare il concetto di nazionalità nel proprio nome, suggerisce che essa costituisce tanto l’eredità degli stati dinastici prenazionali dell’800, quanto l’anticipazione di un ordine internazionalista del 20002.
Eric Hobsbawm ha perfettamente ragione quando osserva che «movimenti e stati marxisti tendono col tempo a divenire nazionali non solo nella forma ma anche nella sostanza, e quindi nazionalisti. Niente suggerisce che quest’andamento possa interrompersi»3. Non che questa tendenza sia limitata al mondo socialista. Quasi ogni anno vengono ammessi nuovi membri alle Nazioni Unite. E molte «vecchie nazioni», un tempo credute ben consolidate, si trovano oggi minacciate da «sub-nazionalismi» all’interno dei propri confini, nazionalismi che, logicamente, aspirano a perdere un bel giorno la connotazione di «sub». La realtà è evidente: la «fine dell’era del nazionalismo», così a lungo profetizzata, non è minimamente in vista. Anzi, la «nazion-ità» è il valore più universalmente legittimato nella vita politica del nostro tempo.
Se i fatti sono chiari, la loro interpretazione resta però oggetto di dispute annose. Nazione, Nazionalità e Nazionalismo si sono dimostrati notoriamente difficili da definire, e ancor più da analizzare. In contrasto con l’immensa influenza che il nazionalismo ha esercitato sul mondo moderno, le teorie plausibili su di esso sono decisamente esili. Hugh Seton-Watson, erede di una vasta tradizione di storiografia e scienze sociali liberali e autore del testo inglese di gran lunga migliore e più esauriente sul nazionalismo, osserva amaro: «Sono trascinato alla conclusione che non si può concepire nessuna ‘definizione scientifica’ di Nazione; eppure il fenomeno è esistito ed esiste»4. Tom Nairn, autore dell’innovativo The Break-up of Britain ed erede di una poco meno vasta tradizione di storiografia e scienze sociali marxiste, fa candidamente notare: «La teoria del nazionalismo rappresenta il grande fallimento storico del marxismo»5. Ma anche questa confessione è in un certo senso fuorviante, nella misura in cui questo fallimento sembra il deplorevole esito di una lunga e consapevole ricerca di chiarezza teoretica. Sarebbe più giusto affermare che il nazionalismo è stato una scomoda anomalia per la teoria marxista e, proprio per tale motivo, è stato eluso più che affrontato. Come altro interpretare il fallimento di Marx nello spiegare l’aggettivo cruciale nella sua memorabile formulazione del 1848: «Il proletariato di ogni nazione deve, naturalmente, risolvere innanzitutto i problemi con la propria borghesia»6? Come altro considerare l’uso, per più di un secolo, del concetto di «borghesia nazionale» senza nessun serio tentativo di giustificare teoreticamente l’importanza dell’aggettivo? Perché questa suddivisione della borghesia, una classe sociale di livello mondiale in quanto definita in termini di rapporti di produzione, è teoreticamente importante?
Il fine di questo libro è di offrire suggerimenti per un’interpretazione più soddisfacente dell’«anomalia» del nazionalismo. Credo che su questo argomento sia la teoria marxista, sia quella liberale si siano intristite in un tentativo tardo tolemaico di «salvare i fenomeni»; e che sia urgente riorientare la prospettiva in uno spirito, per così dire, copernicano. Il mio punto di partenza è che i concetti di nazionalità, di nazionalismo o di «nazion-ità» – termine che si potrebbe preferire per i suoi molteplici significati – sono manufatti culturali di un tipo particolare. Per poterli meglio interpretare è necessario considerare accuratamente come essi siano nati storicamente, in che modo il loro significato sia cambiato nel tempo, e perché oggi scatenino una legittimità così profondamente emotiva. Cercherò di dimostrare che la creazione di tali manufatti alla fine del ’7007 è stata la spontanea distillazione di un complesso «incrocio» di forze storiche discontinue; ma che, una volta create, esse divennero «modulari», in grado quindi di venir trapiantate, con vari gradi di consapevolezza, in una grande varietà di terreni sociali, per fondersi ed essere fuse con un’altrettanto ampia varietà di costellazioni politiche e ideologiche. Cercherò anche di mostrare perché questi particolari manufatti hanno suscitato attaccamenti così profondi.

Concetti e definizioni

Prima di affrontare le questioni sollevate, conviene considerare brevemente il concetto di «nazione» e offrirne una definizione maneggevole. I teorici del nazionalismo si sono trovati spesso perplessi, per non dire irritati, di fronte a questi tre paradossi: 1. L’oggettiva modernità delle nazioni agli occhi degli storici contro la loro soggettiva antichità agli occhi dei nazionalisti. 2. L’esplicita universalità della nazionalità come concetto socioculturale (nel mondo moderno ognuno può e dovrebbe avere, e avrà, una nazionalità, come appartiene a un certo genere maschile o femminile) contro l’irrimediabile particolarità delle sue manifestazioni concrete, (ad esempio la nazionalità greca è «sui generis»). 3. La forza politica dei nazionalismi contro la loro povertà e persino incoerenza filosofica. In altre parole, il nazionalismo, al contrario di molti altri movimenti, non ha mai prodotto i propri grandi pensatori: nessun Hobbes, Tocqueville, Marx o Weber. Questo «vuoto» fa nascere facilmente, tra intellettuali cosmopoliti e multilingue, una certa condiscendenza. Come Gertrude Stein di fronte a Oakland, si potrebbe rapidamente concludere che «là non c’è nulla». È curioso il fatto che persino uno studioso tanto simpatetico col nazionalismo come Tom Nairn possa però scrivere che: «Il nazionalismo è la patologia del moderno sviluppo della storia, inevitabile quanto la nevrosi in un individuo, con implicita la stessa ambiguità e una simile tendenza innata a degenerare in demenza, radicata nel senso di abbandono di cui soffre gran parte del mondo (l’equivalente dell’infantilismo per la società) e largamente incurabile»8.
Parte della difficoltà è che si tende a ipostatizzare l’esistenza di un Nazionalismo con la N maiuscola, come si è portati a pensare Età con la E maiuscola, e quindi a classificarlo come un’ideologia. (Va notato che poiché ognuno ha un’età, Età è solo un’espressione analitica). Sarebbe tutto più facile, credo, se «nazionalismo» fosse trattato nella stessa sfera di «consanguineità» e «religione», piuttosto che di «liberalismo» o «fascismo».
Con lo spirito di un antropologo, propongo quindi la seguente definizione di una nazione: si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana.
È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità9. Renan si riferì a questo «immaginarsi» nel suo modo soavemente sarcastico quando scrisse che: «Or l’essence d’une nation est que tous les individus aient beaucoup de choses en commun, et aussi que tous aient oublié bien des choses»10. Con una certa ferocia Gellner afferma una tesi simile dicendo che: «il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza: piuttosto inventa le nazioni dove esse non esistono»11. Tale formulazione presenta però l’inconveniente che Gellner è così ansioso di dimostrare che il nazionalismo si nasconde sotto pretese infondate, da assimilare «invenzione» a «fabbricazione» e «falsità», piuttosto che a «immaginazione» e «creazione». Così facendo egli sottintende che vi sono comunità «vere» che possono essere vantaggiosamente contrapposte alle nazioni. In realtà è immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti si conoscono (e forse lo è anch’esso). Le comunità devono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui esse sono immaginate. Gli abitanti dei villaggi di Giava hanno sempre saputo di essere in qualche modo legati a individui che non hanno mai incontrato, ma un tempo questi legami erano immaginati in ambito particolaristico, come reti indefinitamente estendibili di stirpe e clientela. Fino a tempi piuttosto recenti il linguaggio di Giava non aveva una parola per il concetto astratto di «società». Oggi possiamo pensare all’aristocrazia francese dell’ancien régime come a una classe sociale; ma certamente è stata immaginata in questi termini molto più tardi12. Alla domanda «Chi è il Conte di X?» la normale risposta sarebbe stata non «un membro dell’aristocrazia», bensì «il signore di X», «lo zio della baronessa di Y» o «un appartenente a...

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